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Il Superball. Non l’hanno mai digerito gli inglesi il pallone friulano: da Sheffield a Bell Ville fino a Belo Horizonte.

“Sheffield, I suppose, could justly claim to be called the ugliest town in the Old World”. Nel 1937 a detta di George Orwell la città di Sheffield poteva ambire al titolo di più brutta fra tutte le altre città d’Europa. A onor del vero la capitale britannica dell’acciaio, soffocata dai fumi delle sue industrie, non doveva essere in effetti una città straordinariamente attraente. Va detto peraltro che Orwell – privo di qualsiasi interesse per il football – non avrebbe potuto cogliere in una città tanto industriale altri motivi di fascinazione. Peggio per lui! Sheffield infatti è un nome che evoca emozioni speciali in ogni appassionato dello sport più amato al mondo: il calcio. Le squadre maggiormente seguite in città, all’epoca di Orwell, erano già iconiche: lo Sheffield United, la più giovane, era stata fondata nel 1889, vincitrice di un campionato inglese e quattro volte della FA Cup (la prestigiosissima coppa nazionale inglese), disputava le partite casalinghe a Bramall Lane, il più antico stadio al mondo fra quelli in grado ancora oggi di ospitare partite di calcio professionistico. Lo Sheffield Wednesday, l’altra squadra, fondata addirittura nel 1867 con un giorno della settimana nel proprio nome – dovuto a quello di riposo in cui gli artigiani che componevano la squadra disputavano le loro partite – ha vinto ad oggi quattro campionati inglesi, tre volte la FA Cup, una League Cup (la coppa della lega dei professionisti) e in una occasione il Charity Shield (il piatto d’argento in palio nel match fra i vincitori del campionato e della coppa nazionale). Ma non è tutto…

George Orwell, uno dei maggiori autori di prosa in lingua inglese detestava il football, il grande opinionista deve la sua fama in particolare a due romanzi: l’allegoria politica di La fattoria degli animali e la distopia di 1984.1

A Sheffield c’era vita – calcisticamente parlando – addirittura prima degli Owls (i gufi) del Wednesday e delle Blades (le lame) dello United: infatti, nella città che ha inventato l’acciaio inox, si era già tenuto nel 1861 il primo derby della storia del calcio, disputato tra le due squadre in assoluto più vecchie al mondo, oggi ancora in attività nelle serie minori del calcio inglese. Quasi dimenticate, ma indimenticabili. Si tratta dello Sheffield Football Club, nato il 24 ottobre 1857, e dei suoi rivali di sempre dell’Hallam Football Club, fondato il 4 settembre del 1860, niente meno – quest’ultima – che la vincitrice della prima competizione calcistica della storia: la Youdan Cup, anch’essa disputata a Sheffield (e dove altrimenti?) e messa in bacheca battendo il Norfolk Football Club nella finale giocata sul terreno di Bramall Lane il 5 marzo 1867, secondo le regole note come Sheffield Rules, un altro primato della Steel City, la città dell’acciaio: il primo tentativo di regolamentare lo sport del calcio, prevedendo l’off-side, il calcio di punizione (anche se indiretto), la traversa di legno (prima era una corda, appena tesa fra i due pali), il corner e la rimessa in gioco, nonché il divieto di sgambettare l’avversario. L’Hallam Football Club, espone quello storico trofeo d’argento nella club house accanto al terreno di casa di sempre: il Sandygate Road, riconosciuto dal Guinness World Records – il libro che raccoglie tutti i primati del mondo, da quelli naturali a quelli umani, a quelli più originali – come il più vecchio campo di calcio della storia, dove il 29 dicembre del 1862 si giocò la prima partita di football ufficialmente riconosciuta, tra i blues countrymen – padroni di casa – e i cugini maroons dello Sheffield Football Club, vinsero i secondi. Forse. Comunque, alla faccia di Orwell.

Sandygate Road, riconosciuto dal Guinness dei primati come the oldest ground in the world, ossia il più vecchio campo di calcio della storia.2

Trascorsi pochi mesi dal così detto Rules derby giocato a Sandygate Road si verificò un altro momento decisivo nella storia del football, quando il solicitor – si chiamano così gli avvocati che nel sistema giudiziario inglese si dedicano esclusivamente all’attività di consulenza – Ebenezer Cobb Morley, un eccellente sportsman tra l’altro: calciatore e canottiere nel quartiere londinese di Barnes, decise di dare vita nel 1862 al Barnes Football Club e, come capitano del neonato sodalizio, di scrivere al quotidiano Bell’s Life lanciando l’idea di creare un organismo in grado di governare il fenomeno del football, che stava crescendo in maniera dirompente ma confusa. Non esistevano infatti regole universali per il gioco del calcio, le squadre prossime a Sheffield avevano le proprie rules, ma molti altri club e varie associazioni territoriali stilavano le proprie e queste si aggiungevano le une alle altre senza cancellarsi a vicenda: ciascuno poteva infatti liberamente decidere quale sistema di rules adottare, così a Nottingham come a Derby o Birmingham, senza considerare che non erano in pochi, sull’esempio del Blackheath Football Club, a propugnare la possibilità di giocare il pallone con le mani contro chi, contemporaneamente, ne proponeva il divieto, e via discorrendo.

Nathaniel Creswick e William Prest, due giocatori di cricket, crearono il 24 ottobre 1857 lo Sheffield Football Club, la prima squadra di calcio al mondo, dopodiché scrissero le Sheffield Rules, il fondamento del gioco moderno.3

Insomma, la sollecitazione dell’avvocato Cobb Morley non cadde nel vuoto: i tempi erano maturi per una codificazione unitaria e l’invito venne raccolto da varie personalità, che decisero di incontrarsi alla Freemasons’ Tavern, una public house nel West End londinese, dando così luogo il 26 ottobre del 1863 alla prima riunione della neocostituita The Football Association inglese, la mitica The FA. All’esito poi dei successivi incontri, organizzati nella zona di Covent Garden, sempre a Londra, vennero codificate sotto l’attenta supervisione del neopresidente Cobb Morley, partendo dalle Sheffield Rules, la prima versione delle Laws of the Game. Le Regole del Gioco! In particolare: il divieto di utilizzare le mani per colpire o passare la palla, stabilito a quel punto inequivocabilmente, starà stretto a qualcuno che si alzerà sbattendo la porta, determinando la nascita, il 26 gennaio 1871, della Rugby Football Union che codificherà le regole di quell’altro magnifico sport “da bestie, ma giocato da gentiluomini” come ama ripetere chi lo pratica: il rugby. Tornando però al calcio, successe che la FA insieme alle omologhe federazioni scozzese, gallese e nordirlandese, crearono a Manchester, il 6 dicembre 1882, l’International Football Association Board: l’organismo guardiano del calcio mondiale, conosciuto attraverso l’acronimo IFAB e deputato tutt’oggi a custodire le Laws of the Game, modificarle ed eventualmente deliberarne di nuove a livello internazionale e nazionale, vincolando alla loro osservanza tutte le federazioni, organizzazioni e associazioni calcistiche, a livello professionale e dilettantistico, escluso il solo livello amatoriale: un enorme potere! È giusto notare che la Fédération Internationale de Football Association, che tutti conosciamo come FIFA, nata a Parigi il 21 maggio del 1904, attualmente l’organizzazione calcistica più importante a livello mondiale con 211 federazioni associate, dichiarò a suo tempo che avrebbe aderito alle regole stilate dall’IFAB per ogni sua competizione, partecipando alle riunioni dell’organismo supremo attraverso un proprio rappresentante, che oggi fa parte a pieno titolo del board dei pasdaran del calcio, che nel frattempo ha stabilito la propria sede da Londra a Zurigo, nella neutrale Svizzera.

La targa ricorda il luogo di fondazione della The Football Association, la federazione calcistica inglese, quando – in sostanza – nascerà a Londra il calcio moderno.4

Certo il football ha tante radici e molto antiche, un po’ come la ruota. Se sono stati i Sumeri infatti primi a trasmetterci l’immagine di una ruota – attraverso il così detto Stendardo di Ur, il magnifico reperto archeologico ritrovato durante gli scavi eseguiti in Iraq nel 1928, oggi custodito al British Museum di Londra – non furono loro a inventarla, come si pensava un tempo. Oggi invece gli studiosi concordano: l’idea della ruota nacque dall’osservazione che oggetti circolari, come i tronchi d’albero, rotolano con facilità. È inverosimile quindi che la ruota abbia avuto un singolo inventore, è molto più probabile che sia nata dalla lenta e progressiva evoluzione di una prima, rudimentale e anonima idea. Una invenzione semplice che fa girare il mondo!, si potrebbe dire: un po’ come il football. O no? Celia a parte, tanto per farsi un’idea sulle “radici” del calcio: a partire dal III secolo a.C. in Cina si praticava il così detto Ts’u-Chü, un gioco popolare specialmente tra i soldati, perché fungeva da addestramento militare. Bisognava spedire un pallone ripieno di piume e capelli di donna in uno spazio delimitato da due canne di bambù, utilizzando unicamente i piedi. Questa remota pratica è stata riconosciuta dalla FIFA, nella sua didattica, come il più antico gioco riconducibile al calcio moderno. E vale la pensa di sottolineare con forza – alla luce di quella modalità – che in Cina venne concepito, concettualmente e prima che altrove, l’idea di “fare” goal, che non è affatto banale. Mi spiego: anche in Giappone esisteva un gioco con la palla: le prime notizie riguardanti il Kemari risalgono al 664! Era uno sport molto fisico, ma curiosamente non competitivo, i giocatori infatti cooperavano tra loro, allo scopo di mantenere in aria una sfera – di pelle di cervo, con il pelo rivolto all’interno, ripiena di chicchi di orzo e avvolta ancora in una pelle di cavallo – cercando di impedire che cadesse al suolo, colpendola, a turno fra i partecipanti, con la testa, i piedi, le ginocchia, la schiena e i gomiti, ma non utilizzando le mani. E senza fare goal!

Un corteo di pesanti carri da guerra avanza rotolando su grandi ruote di legno: lo Stendardo di Ur è la prima rappresentazione che ci è giunta della ruota, una delle invenzioni più importanti dell’umanità.5

Fu in Grecia che si affermò intorno al IV secolo a.C. quello che è considerato il padre europeo del football (e del rugby): un gioco molto violento, soprattutto nella versione praticata nella città di Sparta, una delle più influenti poleis mediterranee dell’antichità. In seguito alla conquista delle città greche, il “gioco” si diffuse a Roma e si trasformò nell’harpastum, che deriva appunto il suo nome dal termine greco arpazo, con il significato di strappare con forza e afferrare. Si affrontavano due squadre in un campo rettangolare delimitato da linee di contorno e da una linea centrale, con l’obiettivo di depositare una palla oltre la linea di fondo del campo avversario: allo scopo erano permessi lanci e passaggi, sia con le mani che con i piedi, fra ogni giocatore che ricopriva tuttavia in campo un ruolo ben preciso. A testimoniare la diffusione e l’importanza dell’harpastum è tra gli altri Marco Valerio Marziale, poeta romano ritenuto il più importante epigrammista latino, che ci lascia una descrizione dei palloni usati a quei tempi: la pila paganica, fatta di cuoio e piena di piume e la follis, sempre di cuoio ma con una primordiale camera d’aria all’interno, costituita da una vescica animale. I praticanti della disciplina erano soliti ritrovarsi nello sphaeristerium (da cui è derivato il nome sferisterio, che ancora oggi designa molti campi di gioco del pallone nonché il magnifico teatro all’aperto di Macerata) oppure nel campus, come il Campo Marzio di Roma. Addirittura, Svetonio – grande storico e biografo romano dell’età imperiale – ci racconta, nell’opera De vita Caesarum, che l’imperatore Augusto, nipote, figlio adottivo ed erede designato da Caio Giulio Cesare, praticava l’harpastum: “Al termine delle guerre civili rinunciò agli esercizi militari dell’equitazione e delle armi e, inizialmente si diede al gioco di palla e pallone”.

Un giovane che gioca con la palla è rappresentato su una stele tombale rinvenuta nel Pireo, databile 400-375 a.C., e ora esposta ad Atene.6

Una pratica sportiva così virile non poteva fare altro che piacere in una società tanto marziale e fare proseliti per centinaia di anni, specialmente tra gladiatori e legionari. Specialmente questi ultimi lo portarono dalla capitale ai limes dell’Impero, probabilmente anche in Britannia, dove si radicò nelle abitudini ludiche degli autoctoni: giochi di squadra con la palla, spesso di carattere molto violento, infatti, sono documentati nel Medioevo, dopo la dissoluzione dell’Impero romano, in diverse regioni d’Europa – al di fuori dell’Italia – soprattutto in Inghilterra e in Francia, dove in Normandia e Piccardia, era diffusissima la soule: un gioco che coinvolgeva interi villaggi, ogni squadra poteva consistere anche di 200 partecipanti, incaricati di portare un pallone di cuoio in una determinata località, distante anche molti chilometri dal luogo dove iniziava la partita, naturalmente valeva quasi tutto: botte da orbi prima di tutto, e per bloccare gli avversari una sorta di lotta libera. Tuttavia il continuatore diretto dell’harpastum romano, sembrerebbe il così detto calcio in costume, talmente diffuso nella seconda metà del Quattrocento tra i giovani fiorentini che questi lo praticavano in ogni strada o piazza della città, improvvisando sfide cruente e mettendo in pericolo anche i più pacifici cittadini. Con il passare del tempo, proprio a causa dei problemi di ordine pubblico che derivavano dalla pratica, si andò verso una maggiore organizzazione e il calcio, chiamato fiorentino, cominciò ad istituzionalizzarsi: svolgendosi periodicamente nelle piazze più importanti di Firenze, coi giocatori, detti calcianti, spesso nobili, che scendevano in campo e vestivano le sfarzose livree dell’epoca, secondo regole e squadre, che diedero poi il nome di calcio in livrea a questo sport. La partita più famosa, cui si ispirano le moderne e vivaci rievocazioni, da non perdere almeno una volta nella vita, è sicuramente quella giocata il 17 febbraio 1530, quando i fiorentini assediati dalle truppe imperiali di Carlo V, affamati e assetati, davvero allo stremo, vollero dare sfoggio di noncuranza e sprezzo mettendosi a giocare alla palla in piazza Santa Croce.

Il Calcio storico fiorentino è un gioco tipico della città di Firenze, in passato conosciuto come Calcio in costume, perché giocato con abiti sgargianti, rappresentativi di un dato periodo storico.7

Gli inglesi – adesso è più chiaro – non hanno fatto tutto da soli, ma non glielo si può né si deve negare: se non hanno inventato il calcio, hanno fissato loro le prime regole essenziali di quello “moderno” esportandolo quasi ovunque nel mondo. In ragione di ciò si sono sentiti – forse comprensibilmente – superiori a tutti, in un teorico rapporto tra maestri e allievi, tanto da snobbare le competizioni internazionali. Questo volontario isolamento ha generato il mito dell’invincibilità, sorretto peraltro da ben pochi riscontri concreti, tutti peraltro risalenti a fine Ottocento o ai primi del Novecento, quando la concorrenza era ancora ai rudimenti della tecnica e del tutto digiuna di tattica. In seguito comunque altre realtà confuteranno la pretesa superiorità inglese, che se è sempre stata una “scuola” di tutto rispetto, alla prima partecipazione alla Coppa del Mondo, avvenuta nel 1950, fu eliminata dagli sconosciuti ma volenterosi dilettanti statunitensi, una vera e propria onta per i maestri. Tuttavia è dalla Gran Bretagna, a bordo delle navi mercantili di Sua Maestà, che il football inizia il suo viaggio per il mondo, approdando sia sulle rive del continente europeo che su quelle sudamericane dell’Oceano Atlantico, dove i marinai britannici, una volta sbarcati a terra, impiegavano il tempo libero sfidandosi fra loro, sollecitando prima la curiosità dei passanti e poi l’emulazione dei residenti. Le città europee porti commerciali o militari erano quindi naturalmente predisposte a recepire il football, e per questo motivo spesso hanno visto nascere i sodalizi che poi sono stati i primi testimoni del nuovo gioco: in Francia a Le Havre nel 1872 nascerà il Le Havre Athletic Club, in Germania nella grande città portuale di Amburgo nel 1887 vedrà la luce l’Hamburger Sport-Verein, nella Spagna andalusa a Huelva nel 1889 ecco il Recreation Club mentre, all’altro capo della penisola iberica, nei Paesi Baschi nel 1898 nasceva l’Athletic Club Bilbao, in Italia i britannici arriveranno nel 1893 a Genova creando il “loro” Genoa Cricket and Athletic Club, imbattuto per anni contro le varie rappresentative torinesi, dove in realtà – sotto la Mole – il football era arrivato anche prima, grazie a Edoardo Bosio, un piemontese purosangue, ma – non a caso – pur sempre di ritorno da Nottingham!

L’appellativo con cui vengono indicati in Italia i moderni allenatori di calcio si riferiva all’inglese Mister Garbutt, alla guida del Genoa: la squadra di calcio più british d’Italia.8

Dall’altra parte dell’Atlantico, la prima partita di cui abbiamo notizia la organizzarono in Sudamerica i banchieri inglesi – e fratelli – Thomas e James Hogg, impegnati a promuovere la pratica del football nella capitale dell’Argentina, presso la vasta comunità britannica ivi residente, alla quale appartenevano, che tuttavia preferiva dedicarsi al cricket e al polo. È grazie a loro se nel 1867 sul grande prato del parco di Palermo, presso il più esclusivo circolo del cricket di Buenos Aires, si affronteranno sedici ragazzi, tutti britannici – otto per squadra – suddivisi fra White Caps e Red Caps: lo spettacolo non desterà alcun entusiasmo a dire il vero, ma la strada era segnata. Infatti, nel 1882 arriverà in Argentina dalla Scozia un insegnante, Alexander Watson Hutton, che fonderà la Buenos Aires English High School, allo scopo di mettere in pratica le sue idee riguardo alla corretta educazione dei ragazzi: associare allo studio il football, quale unica attività ricreativa del suo istituto. Dopo qualche tempo – insieme coi suoi studenti nel frattempo cresciuti – creerà nel 1898 l’Alumni Athletic Club, capace di vincere ben dieci campionati nazionali sui quindici disputati, e di imporsi – fino al suo scioglimento – come uno dei club più importanti della storia del calcio argentino. A proposito di anglosajonización, vale la pena registrare che presso l’Asociación del Fútbol Argentino, fondata nel 1893 a Buenos Aires, non era permesso parlare spagnolo!, era l’inglese la sola lingua ufficiale, anche in campo: addirittura il giocatore colpito dall’avversario poteva accettare le sue scuse solo quando fossero “sincere e formulate in inglese corretto” come previsto dal regolamento voluto dal fondatore e primo presidente. Chi?, ma Alexander Watson Hutton, naturalmente: considerato a buon diritto il padre del fútbol argentino!

Sul uno dei tanti prati del grande parco di Palermo sorgeva a Buenos Aires il Cricket Club frequentato dalla comunità britannica, dove per la prima volta in tutto il Sudamerica si giocherà a calcio nel 1867.9

Questo accadeva sulla sponda occidentale del Río de la Plata, mentre su quella orientale nel 1881 si disputava la prima partita di football fra il Rowing Club (del 1874), e il Cricket Club (del 1861), entrambe celebri istituzioni polisportive di Montevideo, ma sarà dieci anni dopo che si inizierà a fare sul serio: il 1º giugno del 1891 gli allievi della English School di Montevideo fonderanno l’Albion Football Club, nomen omen del club più antico fra quelli che si dedicheranno esclusivamente al gioco del calcio, che anche in Uruguay in principio parlava solo inglese. Infatti, pochi mesi dopo, sempre nel 1891, un centinaio fra impiegati e operai della società ferroviaria a capitale britannico, in Uruguay dal 1878, la Central Uruguay Railway, fonderanno il Central Uruguay Railway Cricket Club che pochi anni dopo cambierà denominazione – troppo ostica per gli appassionati di calcio ispanofoni – diventando il Club Atlético Peñarol, in onore dell’omonimo quartiere di Montevideo, il cui toponimo traeva origine dalla cittadina piemontese di Pinerolo. Come in Argentina, anche in Uruguay nei venti anni successivi alla scoperta del football saranno i britannici a diffonderlo – in parallelo con la costruzione e lo sviluppo delle reti ferroviarie in quegli spazi a occidente e a oriente del Rìo de la Plata: Asunción, Córdoba, Paranà, Rosario, Santa Fe o Tandil – nonché gli indiscussi protagonisti dei primi tornei calcistici, finché alcuni intraprendenti amici decideranno di reagire. Così a Montevideo nel 1899 – a sottolineare la vocazione nazionale di quello che sarebbe stato il primo club criollo (creolo, nel senso di autoctono) dell’America Latina – nascerà il Club Nacional de Football, esempio seguito dopo qualche anno anche in Argentina, dove con lo stesso spirito criollo nascerà il fortissimo Racing Club de Avellaneda, El Primer Grande.

Il Nacional sarà il primo club autoctono del Sudamerica, composto da giocatori criollos e da subito fortissimo, acerrimo rivale dell’anglofilo Peñarol: si divideranno Montevideo e l’Uruguay.10

Los británicos non lo ricordano molto volentieri ma dal punto di vista degli elementi del gioco sono proprio gli argentini a segnare negli anni Trenta del secolo scorso un punto di indiscussa importanza a loro favore. Infatti se nessuno può mettere seriamente in discussione il primato degli inglesi a proposito della codificazione e diffusione del football, il pallone “moderno”, la palla come lo conosciamo oggi, non ha visto la luce in Germania, Francia o appunto in Inghilterra, ma in Argentina nella città di Bell Ville, una località immersa nella Pampa, a metà strada fra Córdoba e Rosario. Questa località remota è abitata in virtù della sua funzione strategica – come stazione di posta – a partire dal 1529, quando vi si stabilirono alcuni accompagnatori della spedizione del veneziano Sebastiano Caboto, cosmografo dell’Impero spagnolo diretto in Perù. All’epoca però il villaggio non si chiamava Bell Ville ma Fraile Muerto (Frate Morto, avete capito bene)!, perché – così narra la leggenda – una certa mattina i contadini, appena fuori dall’abitato, si imbatterono nel cadavere di quello che era stato un frate, del quale non si seppe mai il nome né la congregazione, sbranato dal temibile giaguaro andino, il yaguareté, che evidentemente aveva sorpreso il mite religioso all’imbrunire, mentre tornava dai campi armato del solo crocifisso. Sarà niente meno che Domingo Faustino Sarmiento, il presidente della Repubblica argentina – fermatosi alla stazione ferroviaria di Fraile Muerto durante il viaggio verso Córdoba nel 1871, per inaugurare la Primera Exposición Industrial Argentina – a suggerire la modifica di un toponimo così funesto, che diventò così il molto più accattivante Bell Ville, in virtù del cognome di due illustri cittadini: i fratelli scozzesi Anthony Maitland Bell e Robert Anderson Bell, che da qualche anno, dopo aver comprato due grandi fattorie (Árbol Chato e La Escondida) nei dintorni della città, avevano investito le loro risorse con successo iniziando a introdurre nuove tecniche di agricoltura e allevamento moderno, attirando proprio a partire da quegli anni una cospicua immigrazione, specialmente italiana.

Mario Kempes, soprannominato El Matador, uno dei più grandi calciatori di sempre, miglior giocatore e capocannoniere del Mondiale vinto dall’Argentina contro l’Olanda di Cruijff nel 1978, è nato a Bell Ville di cui è il cittadino più illustre.11

Una domenica pomeriggio come tante altre a Bell Ville gli amici Antonio Tossolini e Juan Valbonesi come loro abitudine erano andati allo stadio per sostenere i biancocelesti di casa del Club Atlético Argentino e soprattutto il loro amico Luis Romano Polo, che giocava come centravanti. Il sodalizio cittadino era sotto di un goal, quando a pochi minuti dalla fine, complice una serie di rimpalli, con un rimbalzo irregolare la palla si impennava al centro dell’area offrendo a Polo l’occasione di pareggiare la partita: l’attaccante era solo davanti al portiere avversario. Il pubblico già in piedi per esultare trattenne il respiro, e fece bene perché l’urlo di liberazione che segue ad ogni gol – in tutto il mondo – era destinato a rimare strozzato in gola a tutti e a lasciar spazio alla frustrazione. Polo infatti invece di saltare per colpire di testa il pallone e battere a rete, decise di lasciare che la sfera toccasse terra, permettendo così ai difensori avversari di riguadagnare la posizione impedendogli il controllo della palla e di inquadrare lo specchio della porta obbligandolo a calciare a lato. Ma cosa era successo? Perché Polo aveva rinunciato a proiettandosi verso la palla per colpirla di testa e segnare il goal del pareggio? Era successo che Polo aveva preferito non ferirsi al viso. All’epoca i palloni da calcio erano naturalmente molto diversi da come li vediamo oggi, ma anche da come potremmo immaginarli. La palla infatti era realizzava avvolgendo la camera d’aria – non più lo stomaco di un animale, ma di gomma vulcanizzata, grazie alla scoperte di Charles Goodyear – all’interno di sezioni di pelle bovina, gonfiandola poi iniettando dell’aria attraverso una cannuccia, poi ripiegata all’interno. Solo a quel punto il tutto era rivestito esternamente e chiuso tramite delle stringhe di cuoio, un po’ come si fa quando si allaccia una scarpa! Conseguentemente i palloni non potevano essere perfettamente sferici a causa di quella “cerniera” e del volume sottostante, anzi potevano prodursi un rimbalzo e una traiettoria che in qualche circostanza potevano diventare imprevedibili. Inoltre, non essendo impermeabili i palloni in caso di pioggia o campo fangoso si appesantivano rendendo il controllo a volte molto difficile, mentre colpirli di testa era non solo molto doloroso, ma poteva diventare pericoloso perché il malcapitato poteva ferirsi la fronte a causa del tiento, lo spesso cordoncino di cuoio che serviva da “laccio”, in grado di lacerare la pelle tesa del viso. Ecco perché ogni tanto capita di vedere, nelle vecchie fotografie, i giocatori con la fronte bendata. Non era un vezzo, ma una necessità.

Un pallone con tiento, in particolare di tratta del Modelo T utilizzato durante il secondo tempo della finale del Mondiale 1930 in Uruguay, vinto dai padroni di casa.12

Amareggiato per la sconfitta della sua squadra, Luis Romano Polo, nato nel 1901 dai genitori friulani emigrati da Forni di Sotto, quella sera stessa ebbe un’intuizione e ne discusse i giorni seguenti con gli amici di sempre: Antonio Tossolini, nato nel 1900 da Olivo e Maria Zampa, friulani pure loro, emigrati da Felettano di Tricesimo (il cognome con due s è un errore di trascrizione) e Juan Valbonesi, di origini piemontesi, che nella sua officina fu capace di realizzare l’idea che Polo aveva avuto, applicando una semplice valvola alla camera d’aria inserita nella palla, modificando poi le cuciture interne, così da stabilizzarla e gonfiarla poi attraverso un ago, eliminando definitivamente il tiento e rendendo la palla perfettamente sferica e praticamente impermeabile. Luis Romano Polo l’11 marzo e il 20 aprile del 1931 brevettò l’invenzione presso gli uffici competenti e a quel punto i tre amici divennero anche soci in affari, tramite la Tossolini, Polo, Valbonesi & Cie. produttrice e distributrice unica del Superball: cambiando la loro vita professionale e soprattutto la pratica di tutti i futuri giocatori di calcio. A proposito, la prima partita giocata con il Superball – un vero e proprio collaudo – sarà quella fra i colleghi dell’azienda dove Polo era operaio, mentre l’esordio ufficiale avverrà con il clásico di Bell Ville – fra l’Argentino e il Bell – giocato il 24 maggio del 1931. Il successivo 17 giugno il Superball sarà utilizzato nella partita fra Club Atlético Belgrano e Newell’s Old Boys de Rosario, prologo alla consacrazione del pallone “moderno”: il 5 settembre infatti lo useranno a La Bombonera i padroni di casa del Boca Juniors e i loro avversari di giornata dell’Estudiantes de La Plata. Nel frattempo la Federazione Italiana Giuoco Calcio ordinerà attraverso l’Ente centrale di approvvigionamento sportivo una dozzina di Superball per valutarne l’impiego nei Mondiali che organizzerà (e vincerà) nel 1934, dove in effetti si giocherà con il pallone sin tiento, anche se, invece di Superball, si preferirà chiamarlo “autarchicamente” Federale 102. Oramai comunque il pallone sin tiento si era affermato: nel 1935 verrà adottato dalla Confederação Brasileira de Futebol, che lo utilizzerà anche ai Mondiali di casa del 1950, quelli del Maracanazo, su cui torneremo!, e nel 1937 – finalmente – dall’Asociación del Fútbol Argentino, che di fatto lo utilizzava già da qualche anno. È cosa nota: difficile essere profeti in patria.

Il manifesto pubblicitario del Superball Duplo T, appositamente prodotto in Brasile per il Mondiale di casa del 1950, si riconosce nel disegno la silhouette dello stadio Maracanã.13

Maracanazo, appunto. In portoghese Maracanaço, per la cronaca. Il termine si riferisce alla sconfitta patita contro ogni pronostico del Brasile contro l’Uruguay il 16 luglio del 1950 allo stadio Maracanã di Rio de Janeiro, all’esito della gara decisiva del girone finale della quarta edizione dei Mondiali, che assegnò alla Celeste il suo secondo titolo di campione del mondo, mentre i giocatori brasiliani, umiliati al cospetto di duecentomila connazionali presenti allo stadio e di tutto il Paese, si dovranno accontentare dell’orologio d’oro che la loro federazione aveva consegnato a ciascuno alla vigilia della gara, con incisa la dedica sul retro: Ai campioni del mondo. Invece diventeranno dei reietti dopo la tremenda sconfitta cui seguiranno ben tre giorni di lutto nazionale, e molti drammi personali in tutto il Paese: si tolsero la vita chi per la delusione, chi perché aveva perso tutto scommettendo i propri averi sulla vittoria della Seleção, alla fine sarebbero stati certificati 34 suicidi e 56 morti per arresto cardiaco in tutto il paese. I giornalisti brasiliani descrissero il Maracanazo come a pior tragédia na história do Brasil (la peggiore tragedia nella storia del Brasile) e lo scrittore brasiliano Nelson Rodrigues lo definì Nossa Hiroshima (la nostra Hiroshima).

Il goal di Pepe Schiaffino pareggia, quello successivo – segnato da El Verdugo Ghiggia – condannerà il Brasile alla sconfitta e Barbosa all’emarginazione, una vicenda crudele che ha fatto di una persona degnissima il capro espiatorio di una tragédia, uccidendolo.14

Inoltre la federcalcio decise di cambiare i colori della divisa della Seleção, una maglietta bianca con colletto blu, pantaloncini e calzettoni bianchi, sostituendoli con la casacca Verde e Amarela, che tutti conosciamo. Addirittura, al colmo dell’assurdo, si stabilì di non convocare mai più un portiere di colore, ritenendola una caratteristica di cattivo auspicio, per aver identificato in Moacir Barbosa il principale responsabile della tragédia, mentre era unanimemente considerato il miglior portiere della sua epoca: coraggioso e dotato di senso della posizione. Sfortunatamente per i suoi colori – dopo un rendimento impeccabile, durato tutto lo svolgimento della competizione – Barbosa si fece sorprendere da un tiro di Alcides Ghiggia, aspettandosi un cross anziché la conclusione in porta, che invece fisserà il risultato sul 2-1 in favore dell’Uruguay, condannando il Brasile. L’atleta verrà emarginato e isolato, considerato da tutti uno sciagurato, cadrà in depressione, dichiarando spesso, prima di morire per un attacco cardiaco: “la sentenza più pesante in Brasile è trent’anni, ma la mia prigionia ne è durata cinquanta per un crimine che non ho mai commesso”. Va detto comunque che la fiducia dei brasiliani nella loro vittoria del Mondiale si poggiava – oltre che sul fattore campo – sull’elevato livello tecnico della loro nazionale, divennero poi forti più di certezze che di speranze dopo aver assistito all’eliminazione dell’Inghilterra, che partecipava per la prima volta alla rassegna iridata, ed era arrivata in Brasile come una delle favorite – se non la favorita – al titolo. Infatti, la nazionale inglese allenata dal 1947 da Walter Winterbottom, aveva collezionato ben 22 vittorie sulle 29 partite disputate in preparazione, e che vittorie: 8-2 contro l’Olanda ad Huddersfield, 10-0 contro il Portogallo a Lisbona, 5-2 contro il Belgio a Bruxelles, 6-0 contro la Svizzera a Londra e 4-0 con l’Italia a Torino, contro la formazione campione del mondo in carica, che nella circostanza schierava per gran parte i giocatori del Grande Torino.

The Miracle of Belo Horizonte: il protagonista Joe Gaetjens portato in trionfo dopo aver affondato la corazzata dell’Inghilterra, con un magnifico goal di testa.15

Ebbene, anche gli inglesi avranno il loro Maracanazo nel 1950, passato alla storia come The Miracle of Belo Horizonte. La più grande sorpresa del Mondiale infatti arriverà della fase preliminare, quando i supposti maestri dell’Inghilterra, dopo l’esordio vittorioso contro il Cile, perderanno incredibilmente contro gli Stati Uniti, in quello che è considerato uno dei più grandi upset della storia della competizione e persino del calcio mondiale: i nordamericani infatti erano dei dilettanti e contavano su una squadra formata principalmente da postini, lavapiatti e immigranti, e proprio uno di loro – tale Joe Gaetjens, nato ad Haiti – segnò il goal della vittoria yankee, alla quale molti tifosi inglesi, leggendo i quotidiani l’indomani, non vollero credere, immaginando un refuso di stampa, addirittura il segretario generale Joe Barriskill, alla lettura del telegramma che avvisava la federazione statunitense della vittoria, rimase talmente incredulo che decise di telefonare in Inghilterra alla The Football Association – che non la prese benissimo – per sincerarsi della veridicità della notizia, anche perché addirittura The New York Times si era rifiutato di pubblicare il risultato della partita credendola una fake news. Molti inglesi ritengono quello il momento più scioccante nella storia sportiva dei Lions, tanto che la loro nazionale, che aveva giocato l’incontro indossando una casacca azzurra, non vestirà mai più questo colore.

Eduardo Galeano, giornalista, scrittore e saggista uruguaiano, una delle personalità più autorevoli e stimate della letteratura latinoamericana, mentre sfoglia uno dei suoi capolavori.16

Un esemplare di Superball è esposto come ricordo della storica vittoria contro l’Inghilterra presso la National Soccer Hall of Fame di Oneonta, in prossimità di New York City: il museo, istituito al fine di omaggiare tutti coloro che abbiano contribuito in maniera significativa all’immagine del calcio negli Stati Uniti, come gli atleti che disputarono il mitico campionato NASL – la North American Soccer League – negli anni Settanta del secolo scorso, per esempio Franz Beckenbauer, George Best, Roberto Bettega, Giorgio Chinaglia o Pelé, conserva fra i cimeli, per l’appunto, il pallone sin tiento che agli inglesi andò di traverso, quel 29 giugno del 1950. C’è un libro che qualsiasi appassionato di calcio (e letteratura) metterà sempre nella classifica dei più belli mai scritti attorno al pallone: è El fútbol a sol y sombra di Eduardo Galeano, in italiano Splendori e miserie del gioco del calcio. Lì il grande scrittore e saggista uruguaiano, fra le più autorevoli personalità sudamericane, racconta un aneddoto. Un giornalista chiese alla teologa tedesca Dorothee Solle: “Come spiegherebbe a un bambino che cos’è la felicità?” “Non glielo spiegherei,” rispose, “gli darei un pallone per farlo giocare». Un pallone, appunto.


Immagini digitali e/o fotografie utilizzate:
(1). immagine estratta da internet che riproduce una fotografia dove è ritratto George Orwell, non sono stato capace di risalire all’autore né all’anno, tuttavia è realizzato prima del 1950 e pertanto di pubblico dominio ai sensi delle vigenti norme; (2). immagine estratta da internet che ritrae una fotografia della tribuna e di una porzione del campo di Sandygate Road, realizzata da Neil Theasby, il 10 agosto 2010; (3). immagine estratta dal sito https://www.thesun.co.uk/ dove compare una fotografia che ritrae una formazione dello Sheffield FC, forse prodotta nell’anno 1876 da autore sconosciuto ed evidentemente di pubblico dominio; (4). riproduzione di una fotografia presa sulla pubblica via di un oggetto materiale e priva di carattere creativo, estratta da internet dove non è stato possibile risalire all’autore né all’anno di realizzazione, comunque di pubblico dominio; (5). riproduzione di fotografia estratta dal sito https://it.m.wikipedia.org/ dove non è stato possibile ricavare indicazioni utili circa l’autore e/o la provenienza della foto che tuttavia è dichiarata di pubblico dominio; (6). riproduzione di fotografia estratta dal sito https://it.m.wikipedia.org/ dove non è stato possibile ricavare indicazioni utili circa l’autore e/o la provenienza della foto che tuttavia è dichiarata di pubblico dominio; (7). riproduzione di una fotografia estratta dal sito http://www.calciostoricofiorentino.it/ dove non è stato possibile ricavare indicazioni utili circa l’autore e/o la provenienza della foto che tuttavia sembra di pertinenza del Comune di Firenze; (8). riproduzione di una fotografia di una formazione del Genoa, estratta dal sito https://it.m.wikipedia.org/ dove non è stato possibile ricavare indicazioni utili circa l’autore e/o la provenienza della fotografia che tuttavia è datata 2 marzo 1924 e dichiarata di pubblico dominio; (9). riproduzione di una fotografia della pubblica piazza e di un oggetto materiale, priva di carattere creativo, estratta da internet dove non è stato possibile risalire all’autore né all’anno di realizzazione; (10) riproduzione di una fotografia che ritrae una formazione del Club Nacional de Montevideo, estratta dal sito https://es.m.wikipedia.org/ dove non è stato possibile ricavare indicazioni utili circa l’autore e/o la provenienza della fotografia che tuttavia è datata 10 settembre marzo 1905 e dichiarata di pubblico dominio; (11). riproduzione di una fotografia che ritrae Mario Kempes, estratta dal sito https://es.m.wikipedia.org/ dove non è stato possibile ricavare indicazioni utili circa l’autore della fotografia che tuttavia è datata 25 giugno 1978 e proviene dalla fonte di El Gráfico, dichiarata di pubblico dominio; (12). riproduzione di fotografia di un oggetto materiale e priva di carattere creativo, estratta da internet dove non è stato possibile risalire all’autore né all’anno di realizzazione, comunque di pubblico dominio; (13). riproduzione di fotografia priva di carattere creativo, estratta da internet dove non è stato possibile risalire all’autore né all’anno di realizzazione, comunque anteriore al 1950 e di pubblico dominio; (14). riproduzione di fotografia, estratta da internet all’indirizzo https://amp-ar.marca.com/claro/futbol-internacional/ dove non è stato possibile risalire all’autore, realizzata il 16 luglio 1950 e di pubblico dominio; (15). riproduzione di fotografia, estratta dal sito internet https://fifa.com/worldcup/news/, dove non è stato possibile risalire all’autore, ma la fonte è Getty Images, mentre l’anno di realizzazione il 1950 e quindi di pubblico dominio; (16). riproduzione di fotografia, estratta dal sito internet https://polemon.mx/galeano-y-el-futbol/ dove non è stato possibile risalire all’autore né all’anno di realizzazione, ma la fonte sembrerebbe Marca.

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Il blog? Ho peccato di esibizionismo, però mi andava di ribadirlo: nessuno può cambiare passione, quando si tratta di calcio.

El secreto de sus ojos è un grande film. Una pellicola argentina da vedere (e rivedere) fino a suggerirla a tutte le persone a cui volete bene o delle quali semplicemente apprezzate intelligenza e sensibilità; in Italia è distribuita come Il segreto dei suoi occhi. Il titolo è la traduzione letterale di quello originale, nella nostra lingua. Fortunatamente. In Italia infatti quando si ritiene opportuno tradurre il titolo di un film straniero spesso di sconfina nel ridicolo, a volte nel raccapriccio: per questioni di marketing – ad esempio – Vertigo di Hitchcock diventò La donna che visse due volte; a causa invece di scelte stilistiche difficilmente comprensibili, invece, Domicile conjugal di Truffaut fu trasformato in Non drammatizziamo… è solo una questione di corna.

Questo capolavoro, diretto dal regista Juan José Campanella, che ha vinto l’Oscar nel 2010 premiato come “Miglior film straniero”, propone interpreti magnifici: e fra loro l’elegante Soledad Vilamil, attrice e cantante deliziosa, impegnata nei temi del tango e del folk argentino, che dà vita al personaggio di Irene Menéndez Hastings. In quel periodo mi trovavo proprio a Buenos Aires e così oltre all’opportunità di vedere la pellicola in lingua e nel contesto originale, potevo acquistare Morir de Amor, semplicemente il disco più bello della Vilamil. Anche il film è un contenitore di emozioni: inquietudini nascoste tra le mura di stanze buie e palazzi austeri che intrecciano una storia irrisolta, raccontata per mezzo di sequenze profonde che svelano l’anima dei protagonisti e ci interrogano sulla nostra coscienza. Ad un certo punto della narrazione quando Guillermo Francella, che dà vita al personaggio di Pablo Sandoval, “siempre borracho” (ubriaco) ma “siempre lúcido”, glielo dice chiaro a Benjamín Espósito – il protagonista – interpretato da Ricardo Darín, mentre si trovano in uno di quei bar dove gli amici si incontrano, nella realtà il café Only VI, al 700 del Paseo Colón, declamando: “Te das cuenta, Benjamín? El tipo puede cambiar de todo: de cara, de casa, de familia, de novia, de religión, de Dios. Pero hay una cosa que no puede cambiar, Benjamín: no puede cambiar de pasión”.

La pasión – nel caso di questo film – è quella dell’assassino per la sua squadra del cuore: il Racing Club, el Primer Grande del calcio argentino. Puoi cambiare tutto, afferma Sandoval: la faccia, la famiglia, la fidanzata, la religione, puoi scegliere un altro dio, però una cosa non la puoi cambiare. Non puoi cambiare passione. Eduardo Sacheri lo aveva scritto con cognizione di causa nel romanzo La pregunta de sus ojos – da cui è tratta la sceneggiatura del pluripremiato film – perché appartiene a quella schiatta di scrittori, molti sono argentini, capaci di coniugare la letteratura e lo sport, come Roberto Fontanarrosa, Dante Panzeri, Juan Sasturain e Osvaldo Soriano, e di raggiungere vette altissime, utilizzando il fútbol come una scusa per parlare della vita: dei grandi temi come di quelli, non meno essenziali, della quotidianità. Nadie puede cambiar de pasión. Questa affermazione di Sacheri si associa nei miei ricordi al pensiero di Javier Marías, probabilmente il più importante scrittore spagnolo contemporaneo, grande accademico di Spagna, ammirato dalla critica e dal pubblico per romanzi come Domani nella battaglia pensa a me, Nera schiena del tempo, Tutte le anime, Così inizia il male, Un cuore così bianco, e molti altri capolavori, tutti tradotti e pubblicati in Italia a cura dell’editore Einaudi.

Questo gigante della letteratura mondiale – autentico merengue, per i non addetti ai lavori: si tratta del soprannome degli irriducibili tifosi del Real Madrid – nel suo magistrale Selvaggi e sentimentali, opera imperdibile per leggere di calcio ad un livello più alto, osserva: “la sola cosa che non sembra negoziabile, mentre tutto è soggetto a cambiamento, anche più di uno, dalle abitudini ai gusti letterari, dalla moglie o dal marito al partito politico, è la squadra per cui si tifa”, definendo la Liga – il massimo livello del campionato spagnolo, omologo della nostra Serie A – in un articolo apparso su El País nel 1992, con quello che dovrebbe essere il motto di ogni competizione sportiva: “il recupero settimanale dell’infanzia”. Considerato da molti intellettuali di sinistra alla stregua di un oppiaceo o nella migliore delle ipotesi una distrazione un po’ volgare, personalmente ho sempre trovato poco convincenti le critiche formulate per ragioni ideologiche di chi vuole negare il valore del gioco e il suo fascino nei confronti delle masse, insomma (anche) a me il calcio sembra una magnifica pasión, oltre ad essere, non lo trascurerei perché si tratta di un dato di fatto, l’argomento di discussione più diffuso al mondo.

Certo, nessuno deve dimenticare la partita più seria, quella della vita, al confronto della quale il calcio può essere considerato, al limite, la prima cosa fra tutte le cose meno importanti, come ripeteva Arrigo Sacchi, ma già Enrico Berlinguer, segretario del PCI, in un intervista del 1975 apparsa su Tuttosport, a Gianpaolo Ormezzano che gli chiedeva se è vero che lo sport è responsabile di “ottundere le coscienze, di favorire l’alienazione delle masse”, dando prova di equilibrio e intelligenza rispondeva così: “Non penso che l’operaio, se alla domenica va allo stadio, al lunedì sia meno preparato ad affrontare i problemi del lavoro, le battaglie sindacali. Non voglio dire con questo che la domenica allo stadio giovi alla politicizzazione dell’operaio, ma non spartisco la paura per le conseguenze di questa sua vacanza festiva”. Pier Paolo Pasolini invece non era così distaccato, anzi si era innamorato perdutamente del calcio a Bologna. È qui, durante il liceo, che giocava per ore e ore a pallone con gli amici, con la fortuna poi di assistere dalle tribune dello stadio felsineo alla vittoria di ben quattro scudetti da parte del Bologna FC, “lo squadrone che tremare il mondo fa”, in quegli anni all’apice della propria gloriosa storia.

Grazie alla ricerca appassionata e documentata di Valerio Curcio, che scritto un libro magnifico per Compagnia Editoriale Aliberti: Il calcio secondo Pasolini, è possibile apprezzare le riflessioni di uno dei massimi pensatori contemporanei che nel suo tempo riesce a vivere la contraddizione di intellettuale impegnato che ama uno sport da molti considerato “oppio dei popoli”. Pasolini osservava il calcio dai campetti di periferia fino alla Serie A, sempre con attenzione, considerando la partita allo stadio come l’ultimo rito sacro dell’età contemporanea: “I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sono stati indubbiamente i più belli della mia vita. Mi viene quasi un nodo alla gola, se ci penso”. Albert Camus, un vero e proprio outsider nell’élite intellettuale parigina del primo Novecento, che lo disprezzava, quando vincerà il premio Nobel per la letteratura nel 1957, affermerà che: “le peu de morale que je sais, je l’ai appris sur les terrains de football”; provocazione non solo rivolta a spiazzare critici e interlocutori del gran mondo accademico francese, con cui Camus non andava proprio d’accordo, a lui parlare di calcio piaceva davvero, e piaceva troppo.

Non poteva essere altrimenti. Il ragazzo, cresciuto in Algeria in seno a una poverissima famiglia di Pieds-Noirs, era un eccellente portiere che – fino a quando la tubercolosi non distruggerà in lui ogni ambizione sportiva – aveva trovato la sua “vera università” all’interno dell’area piccola, quella di pertinenza dell’estremo difensore, ed era sincero – Camus – quando diceva a tutti che: “non c’è luogo al mondo in cui l’uomo sia più felice che in uno stadio di calcio”. E se ci fosse bisogno di una conferma, ce la offre l’uomo politico tra i più influenti e popolari dirigenti comunisti mondiali, che guidò il Partito Comunista d’Italia dagli anni ‘20 agli anni ‘60 del secolo scorso, quello che i suoi compagni chiamavano “il Migliore”, a cui i sovietici, che gli concessero la cittadinanza, dedicarono addirittura una città in Unione Sovietica: Togliattigrad. Allora, narrano i bene informati che Palmiro Togliatti ogni lunedì mattina chiedesse a Pietro Secchia, che cosa avesse fatto la Juve il giorno prima; se il malcapitato non aveva la risposta pronta, l’iconico segretario del Partito, usava rimbrottare, rimproverando il più ambizioso e massimalista fra i dirigenti comunisti italiani: “E tu, pretendi di fare la rivoluzione senza sapere i risultati della Juventus?”

Dopo aver evocato tanti intellettuali irraggiungibili, la pretesa di scrivere qualcosa di interessante per il prossimo assume forse i connotati della vanità. Tuttavia, il cantautore (e avvocato) astigiano Paolo Conte, uno che preferisce l’eleganza della scuola magiara, che ha nominato migliore giocatore di sempre non Maradona o Pelé, non Messi o Ronaldo, ma l’ungherese Ferenc Puskás, recita nella splendida canzone “Bartali”, dedicata al grande ciclista toscano: “È tutto un insieme di cose”, riferendosi a una certa situazione emotiva. Ecco la risposta più sincera. Un insieme di cose: esibizionismo, sentimentalismo, e il piacere sottile di divagare saltando di palo in frasca, come si fa con gli amici di sempre, magari in uno dei tanti Bar Sport delle nostre città o dei nostri paesi, luoghi dove si poteva stare insieme per divertirsi e difendere la squadra del cuore, quella che io scelsi per una questione di colori: invece del brillio (entusiasta) rossonero o del signorile (e assai vincente) abbinamento bianconero da bambino mi innamorai dell’ombroso accostamento nerazzurro, protagonista (allora come in seguito) di clamorose disfatte e qualche volta di esaltanti impennate.

Sono troppe le storie di sport da raccontare, meglio se con l’attenzione dello storico e la sensibilità del narratore, e ci sono tante storie di uomini al loro interno, e quindi di altre donne e altri uomini che nell’incrocio con la Storia più grande passano del tempo a discutere, emozionarsi e incitare la loro squadra del cuore o il loro atleta preferito, in una spirale di metanarrazione che i francesi chiamano à colimaçon, come il vortice di una scala a chiocciola, appunto. È così, scoprendone i connotati epici e collettivi, quindi davvero sportivi, che ogni storia diventa una pasión, e si trasforma nell’occasione per guardare a se stessi e al mondo, alla natura umana e al suo sistema, perché, in sintonia con le parole di Javier Marías, e per tornare al calcio: “se perdere o vincere una partita non viene vissuto come un evento cruciale, e con una trama e una storia, con una svolta o una catastrofe, che riguarda il passato, il presente e il futuro, la dignità e il decoro e, naturalmente, la faccia con cui uno si alza l’indomani, allora lasciamo perdere…”

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