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La paura fa Settanta. Il piombo dilania l’Italia, fra stragi e terrore, mentre la Serie A è più contesa che mai e arriva la moviola.

Gli anni Ottanta sono stati un’epoca considerata superficiale a motivo di uno stile di vita frivolo, teso al raggiungimento della felicità individuale e dell’affermazione personale. L’esatto opposto del decennio precedente – gli anni Settanta – ricordato come un periodo di grande impegno politico e, sebbene attraversato dalla degenerazione dell’ideologia e dal terrorismo, prolifico di pensieri desiderosi di cambiare il destino di un’intera generazione. In particolare, il passaggio dai Settanta agli Ottanta comportò in Italia una cesura brutale, a cui ci si riferisce definendola riflusso, per comprendere la quale occorre fare un passo indietro, ai Sessanta. Quelli furono gli anni del miracolo economico, quando si propose per la prima volta, dal punto di vista politico, il superamento del centrismo, attraverso l’allora inedita alleanza tra il partito della Democrazia cristiana (Dc) e il Partito socialista (Psi). La novità, a quel tempo rivoluzionaria e dalla portata storica, fu permessa dalla somma di una serie di fattori esterni. Intanto era mutato il quadro internazionale, e in quel momento se non una distensione nei rapporti tra l’Occidente e il blocco sovietico c’era un dialogo. Infatti dopo le lunghe lotte per il potere seguite alla morte di Iosif Stalin, Nikita Chruščëv divenne il capo dell’Unione Sovietica e fu il primo segretario del Partito comunista dell’URSS a denunciare pubblicamente i crimini staliniani, dando avvio alla cosiddetta destalinizzazione, e il primo leader sovietico a visitare gli Stati Uniti, con cui intese stabilire dal 1958 un rapporto di pacifica, sebbene competitiva, coesistenza. In quello stesso anno al soglio pontificio era salito Giovanni XXIII, il papa buono, che aveva ammorbidito la posizione della Chiesa e quindi dei cattolici impegnati nella politica nostrana, nei confronti dei socialisti, i quali a loro volta erano andati acquisendo sempre più autonomia allontanandosi dal Partito comunista italiano (Pci), condannandolo quindi irrimediabilmente all’opposizione parlamentare. Intanto anche negli Stati Uniti gli americani avevano scelto di voltare pagina: nel 1961 era stato eletto presidente John Fitzgerald Kennedy, brillante e cattolico, il giovane leader chiese alle nazioni del mondo di unirsi nella lotta contro i comuni nemici dell’umanità, la tirannia, la povertà, le malattie e la guerra.

Il premier democristiano Aldo Moro presenta al parlamento italiano il primo governo di centro-sinistra della storia repubblicana.1

Fu quindi con il primo governo del democristiano Aldo Moro che si realizzò nel 1963 in Italia un esecutivo di centro-sinistra generando nell’opinione pubblica, a torto o a ragione, l’auspicio di una stagione nuova di grandi riforme in grado di accompagnare i progressi realizzati in campo economico negli anni del boom. Non sarà così, purtroppo. Infatti, mentre l’Inter, la Grande Inter presieduta dal petroliere milanese Angelo Moratti, guidata in panchina dall’allenatore argentino Helenio Herrera, detto il Mago, si affermava in Italia e in Europa come una delle migliori squadre di sempre, laureandosi fra il 1963 e il 1966 per tre volte campione d’Italia e per due consecutive campione d’Europa, vincendo la Coppa dei Campioni, contro gli spagnoli del Real Madrid e i portoghesi del Benfica, e campione del Mondo, vincendo la Coppa Intercontinentale, per due volte contro gli argentini dell’Independiente de Avellaneda, il governo del Belpaese stentava, offrendo risultati modesti o almeno percepiti come tali. Furono create grandi aziende pubbliche, ma queste risultarono poco produttive, molte delle riforme annunciate non furono realizzate o furono realizzate ma delusero le aspettative di quella parte dell’opinione pubblica che le reclamava a gran voce. Così fu ad esempio per la tanto attesa riforma della scuola, e proprio lì ebbe inizio e si radicò negli anni successivi il cosìddetto Sessantotto: la protesta dei giovani contro una società percepita come classista, profondamente ingiusta e reazionaria, sia nella mentalità che nel costume. Gli studenti sommarono le loro mobilitazioni a quelle operaie, che peraltro ottennero migliori condizioni salariali e lavorative, quale anticipazione di quanto sarebbe avvenuto nel 1970 con l’introduzione dello Statuto dei lavoratori che riconosceva il diritto di assemblea, di organizzazione sindacale e di difesa in caso di ingiusto licenziamento, mentre le contestazioni sessantottine ottenevano la liberalizzazione dell’accesso all’università per tutti i diplomati, eliminando nel 1969 la così detta riforma Gentile che subordinava quale condizione imprescindibile per iscriversi agli studi superiori il possesso della maturità classica.

La leggendaria Grande Inter, indiscutibilmente la squadra più forte del mondo a metà degli anni Sessanta.2

L’espressione anni di piombo richiama efficacemente l’atmosfera plumbea che avvolgeva le città italiane nella seconda metà degli anni Settanta. Diventerà familiare, purtroppo, e tuttavia non è autoctona, derivando invece dalla traduzione dell’omonimo film, premiato a Venezia nel 1981 con il prestigioso Leone d’oro: Die bleierne Zeit (letteralmente, appunto, “Gli anni di piombo”), pellicola della regista e sceneggiatrice tedesca Margharete Von Trotta, ispirata alla vicenda storica delle sorelle Christiane e Gudrun Ensslin. Gudrun, in particolare, fu una terrorista tedesca, cofondatrice insieme ad Andreas Baader, Horst Mahler e Ulrike Meinhof del gruppo armato di estrema sinistra Rote Armee Fraktion (RAF), responsabile di numerose operazioni terroristiche condotte nella Germania occidentale. In particolare, nel 1977 si arrivò ad una vera e propria crisi nazionale conosciuta con il nome Deutscher Herbst (“Autunno tedesco”, appunto), espressione mutuata anche in questo caso da una pellicola cinematografica: Deutschland im Herbst (“Germania in autunno”). Un film collettivo prodotto nel 1978 per iniziativa di una cooperativa di autori tedeschi, che intendevano così esprimere la loro preoccupazione per le restrizioni degli spazi di libertà e di confronto culturale, conseguenti all’emergenza terrorismo, con la pretesa di definire l’atmosfera politica di allora. La RAF, conosciuta dal pubblico semplicemente come la banda Baader-Meinhof, uccise comunque 33 persone, principalmente tra figure di spicco in campo politico ed economico. Un’azione in particolare fece scalpore: il sequestro, dopo un sanguinoso agguato terminato con la morte dei quattro uomini della sua scorta, di Hanns-Martin Schleyer, un alto ufficiale delle Schutzstaffel (SS) ai tempi nazismo, riciclatosi nel dopoguerra come autorevole esponente del Christlich Demokratische Union Deutschlands (CDU), il partito politico di orientamento democratico-cristiano e conservatore che attualmente esprime la leadership di Angela Merkel. Schleyer all’epoca del sequestro era l’onnipotente presidente della Bundesverband der Deutschen Industrie (BDI), la confederazione che raggruppa tutte le federazioni di settore dell’industria tedesca, omologa della Confindustria italiana. Trascorsi quarantatré giorni di prigionia fu ucciso e fatto trovare cadavere il 18 ottobre 1977 in Francia, nel bagagliaio di un’auto, poco oltre il confine tedesco, fu il tragico epilogo di un’azione che ha molto in comune con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, che sarebbe avvenuta solo pochi mesi più tardi in Italia. Anche se più conosciuta, e quasi leggendaria nell’immaginario collettivo per le sue azioni di guerriglia urbana, la RAF condusse meno attacchi terroristici rispetto alle Revolutionäre Zellen (RZ), una formazione ben più attiva e spietata, responsabile di 296 attentati fra il 1973 e il 1995.

Una scena ritratta nel manifesto promozionale del film tedesco Die bleierne Zeit di Margharete Von Trotta.3

In quegli anni Settanta, per somma di risultati, continuità di rendimento e spettacolarità, il Borussia Mönchengladbach è stato forse la squadra di calcio più ammirata nell’arco del decennio, anche più del Bayern di Monaco di Baviera, per tre stagioni vincitore della Coppa dei Campioni. All’epoca queste due formidabili squadre tedesche imperversavano in patria e in Europa, e solo dopo di loro arriveranno il Liverpool di Bob Paisley e il Nottingham Forest di Brian Clough, che vinceranno nei successivi cinque anni la Coppa dei Campioni, tre volte i primi, due volte i secondi. Bisogna fare una premessa peraltro, per spiegare l’ammirazione manifestata verso il sodalizio renano. Infatti anche se anche il Bayern all’epoca sorprese era pur sempre il club espressione di una grande realtà economica e sociale prima che sportiva: niente meno che Monaco di Baviera. Diversamente prima che i Fohlen-Elf (“I puledri”) arrivassero al successo, la gente non sapeva neppure dove fosse la città di Mönchengladbach, tanto che molti all’estero pensavano che il luogo fosse Borussia! Eppure quella squadra di giovani fuoriclasse che annoverava tra gli altri campioni del calibro di Jupp Heynckes, Horst Köppel, Günter Netzer, Uli Stielike, Berti Vogts e Herbert Wimmer, allestita e guidata dal carismatico tecnico Hennes Weisweiler, tra il 1970 e l’autunno caldo del 1977 vincerà ben cinque volte la Bundesliga, il massimo livello del campionato tedesco, una Coppa di Germania e due volte la Coppa UEFA, perdendo invece solo in finale la Coppa dei Campioni, proprio contro gli inglesi del Liverpool, e la Coppa Intercontinentale, contro gli argentini del Boca Juniors, giocata al posto dei Reds inglesi, mentre, sempre nel 1977, uno dei suoi giocatori più rappresentativi, Allan Simonsen, vincerà l’ambito Pallone d’oro creato dalla prestigiosa rivista sportiva France Football nel 1956 e attribuito – dopo che l’anno prima era toccato a Franz Beckenbauer, uno dei più grandi giocatori della storia del calcio, capitano del Bayern Monaco e della Nazionale tedesca, campione del mondo nel 1974 – all’attaccante danese, l’unico calciatore ad aver segnato nelle finali delle tre maggiori competizioni europee, che all’epoca erano la Coppa dei Campioni, la Coppa UEFA e la Coppa delle Coppe.

I giocatori del Borussia festeggiano negli spogliatoi con la Deutsche Meisterschale, il trofeo che viene assegnato alla squadra vincitrice della Bundesliga.4

Sul finire degli anni Sessanta il miglioramento del tenore di vita rese per molti più difficile percepire il peggioramento della situazione economica, che faceva da sfondo alle proteste giovanili del Sessantotto. Intanto gli italiani impararono cosa fosse la moviola che avrebbe cambiato per sempre la loro domenica sera e in conseguenza di ciò il loro lunedì mattina. Moviola era in verità il nome di un sistema elettromeccanico utilizzato per la visione rallentata di filmati cinematografici allora scopo ad esempio di consentire ai montatori di studiare le singole inquadrature, permettendogli di scegliere i punti di taglio più adatti. Il pomeriggio del 22 ottobre 1967 a San Siro si giocava la stracittadina tra i nerazzurri dell’Inter e i rossoneri del Milan, colloquialmente detta derby della Madonnina, dalla caratteristica statua della Madonna Assunta posta in cima al Duomo di Milano. L’Inter era in vantaggio per 1-0 fino a quando Gianni Rivera con un tiro dei suoi colpiva la traversa nerazzurra e la palla rimbalzava in campo vicino alla linea bianca, in prossimità della quale l’interista Tarcisio Burgnich in rovesciata la allontanava. L’arbitro, immediatamente assediato dai giocatori rossoneri, si consulta a a lungo col guardalinee, dopodiché concedeva il gol del pareggio al Milan. Quella stessa sera alla Domenica Sportiva il conduttore, l’indimenticabile Enzo Tortora, annunciava la straordinaria novità: il giornalista della Rai, Carlo Sassi, era in grado di mostrare un’immagine inequivocabile da cui risultava che la palla in realtà non aveva mai superato la linea di porta. Il primo errore arbitrale era appena stato inconfutabilmente dimostrato. L’episodio sportivo può essere considerato di secondaria importanza, perché a fine stagione quel Milan vincerà il suo nono scudetto e non in virtù di quell’ingiusto vantaggio. Il Diavolo infatti era una squadra fortissima e quel campionato nella stagione 1967/68 lo stravincerà con un ampio margine sulla Fiorentina, che tuttavia si imporrà l’anno successivo, quando lo scudetto andrà in riva all’Arno, mentre i rossoneri allenati da Nereo Rocco e guidati in campo da Gianni Rivera trionferanno nell’edizione 1968/69 della Coppa dei Campioni, disintegrando per 4-1 gli olandesi dell’Ajax di Amsterdam, e pure nella Coppa Intercontinentale, dopo aver fatto a botte, contro gli argentini dell’Estudiantes, campioni del Sudamerica. La violenza era nell’aria, si respirava odio ovunque: nel 1968 erano stati assassinati Martin Luter King e Bob Kennedy ed era stata soffocata la cosiddetta Primavera di Praga quando Alexander Dubček diventato segretario del Partito comunista di Cecoslovacchia aveva intrapreso una coraggiosa stagione di riforme, terminata quando un corpo di spedizione militare dell’Unione Sovietica e degli alleati del Patto di Varsavia invase il paese.

Il capitano degli azzurri Giacinto Facchetti con il trofeo appena conquistato a Roma, l’Italia è campione d’Europa nel 1968.5

Una soddisfazione e un po’ di gioia per gli sportivi italiani arrivò proprio nel 1968 quando la Nazionale, dopo la delusione patita ai Mondiali inglesi nel 1966, la disfatta e l’umiliazione per mano della famigerata Corea bruciava ancora, riuscirà a vincere per la prima volta gli Europei di calcio. Lo farà proprio in casa, in finale allo stadio Olimpico, battendo la Jugoslavia per 2-0, davanti a 70mila tifosi emozionati, e mentre la contestazione giovanile faceva cadere in disuso parole come patria e nazione, con quella vittoria il calcio contribuì a far sì che gli italiani riscoprissero l’orgoglio di sventolare il tricolore. Si trattò solo di una parentesi di festa in un difficile periodo di recessione economica, mentre all’orizzonte si profilavano anni bui, ma con il trionfo azzurro nacque l’uso dei caroselli per le strade italiane: un entusiasmo condiviso che univa migliaia di tifosi, trascinati dall’impresa dei ragazzi azzurri di Valcareggi. Nel novembre dello stesso anno nasceva a Milano il primo gruppo ultras italiano, la Fossa dei Leoni, con canti e slogan direttamente ispirati a quelli dei cortei politici. Calcio e politica extraparlamentare intrecciavano così parte delle loro esperienze, e dopo qualche anno compariranno gli striscioni delle Brigate Rossonere e delle Boys-San, ovvero Boys-Squadre d’Azione Nerazzurre (l’acronimo SAN si riferisce verosimilmente alle Squadre d’azione di Benito Mussolini), del Commando Ultrà Curva Sud (CUCS) a Roma e del Nucleo Armato Bianconero (NAB), forse l’unico gruppo juventino, un pubblico tradizionalmente noto per l’anticampanilismo, paragonabile agli hooligan. La moviola intanto diventava un vero e proprio fenomeno di costume, accrescendo la popolarità dei giornalisti Carlo Sassi e Bruno Pizzul, i quali si alternavano nella conduzione dell’apposita rubrica che dalla stagione di campionato 1969/70 prese un posto fisso all’interno della Domenica Sportiva, diventando uno dei momenti più attesi della televisione italiana, seguito anche da venti milioni di telespettatori. Molti sono gli episodi che ne hanno segnato la storia, memorabile quando la sera del 20 febbraio 1972, l’arbitro Concetto Lo Bello, sempre inflessibile, duro e giusto, messo di fronte alle immagini del calcio di rigore da lui negato al Milan nei confronti della Juventus, sarà costretto ad ammettere il clamoroso errore. Il clima generale in quel fatidico 1969 al quale conviene tornare è denso di contestazioni e contrasti: è il cosiddetto autunno caldo per antonomasia e l’inverno che seguirà purtroppo non sarà da meno. Infatti, il 12 dicembre del 1969 sarà una giornata terrificante: in poco meno di un’ora in Italia si verificheranno ben 5 attentati: tre a Roma e due a Milano. Il più grave sarà la strage di Piazza Fontana, dove una bomba, esplosa nella sede milanese della Banca Nazionale dell’Agricoltura, provocherà 17 morti e 88 feriti.

Gianni Rivera premiato con il Pallone d’oro: il fuoriclasse rossonero guidava un Milan capace di un ciclo straordinario di vittorie e la Nazionale italiana, fresca Campione d’Europa.6

La strage della Banca Nazionale dell’Agricoltura è considerata il primo e più dirompente atto terroristico dal dopoguerra nonché da alcuni ritenuto l’inizio del periodo passato alla storia in Italia come degli anni di piombo nonché della strategia della tensione, che nel corso degli anni strazierà il Paese: a Brescia il 28 maggio 1974 (8 morti), sul treno Italicus del 4 agosto dello stesso anno (12 morti) e a Bologna il 2 agosto 1980 (85 morti), alzando il livello dello scontro. In un primo momento di questi attentati verranno accusati i nascenti gruppi del terrorismo rosso che si riveleranno invece estranei, mentre emergeranno indizi di collusioni occulte di settori deviati dello Stato, successivamente confermati: si comincerà a parlare allora di stragismo di Stato. All’inizio del decennio dei Settanta, nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970, Junio Valerio Borghese, soprannominato il principe nero, tentava un colpo di stato – il cosiddetto Golpe dell’Immacolata – salvo annullarlo in fase di esecuzione e riparare in Spagna per evitare l’arresto. In quei tristi mesi invernali del 1970 terminava anche la intanto era terminata la splendida parabola del Cagliari scudettato che, se dopo aver schiantato l’Inter a Milano e aver preso la testa del campionato, candidandosi alla vittoria finale manifestando una superiorità indiscussa su tutti i rivali, durante la partita tra Italia e Austria giocata a Vienna il 31 ottobre, a causa di un grave infortunio che ne comprometterà la carriera, perderà il suo impareggiabile fuoriclasse. Gigi Riva era stato il principale artefice dei successi del Cagliari, che senza di lui non riuscirà a difendere il titolo conquistato l’anno prima quando il 12 aprile 1969 chiuse la miglior stagione della sua storia festeggiando il primo e fin qui unico scudetto vinto. Si trattò di una sorpresa, a soli 6 anni dall’approdo in massima serie i rossoblù guidati ai vertici del calcio italiano da Manlio Scopigno, detto il filosofo, con il secondo posto nel 1968/69 e soprattutto con lo storico scudetto del 1969/70, il capolavoro della sua carriera, portavano per la prima volta il titolo di campione d’Italia nel Mezzogiorno, lontano dalle grandi città del Nord e del Centro, conquistando una vittoria ricca di significati per l’intera Sardegna, isola distante – ritenuta patria di pastori e banditi, come ricordava Gigi Riva – praticamente sconosciuta fino a quel momento al resto degli italiani.

Il lombardo Gigi Riva, soprannominato rombo di tuono, con la maglia del Cagliari scudettato, considerato a tutt’oggi il più forte attaccante italiano di sempre.7

Nel quadro della strategia della tensione la società italiana era sempre più divisa e polarizzata in gruppi che facevano politica extraparlamentare e non rifiutavano la violenza, passando dalla clandestinità alla lotta armata. A sinistra erano nate organizzazioni come i Gruppi d’Azione Partigiana (GAP), i Nuclei Armati Proletari  (NAP), Prima Linea (PL) e le Brigate Rosse (BR), mentre a destra militavano Avanguardia Nazionale, i Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR), Ordine Nero, Terza Posizione e Ordine Nuovo. Si diffuse un clima di insicurezza e pericolo, perché non furono compiuti soltanto attentati clamorosi o stragi dai loro esecutori, ma uno stillicidio continuo di attacchi contro obiettivi minimi, singoli cittadini e forze dell’ordine, in esecuzione quotidiana di disegni talvolta ignoti e misteriosi. In piazza i manifestanti si presentavano ovunque a volto coperto e spesso armati di spranghe, chiavi inglesi e bottiglie molotov e la violenza poteva scoppiare in qualsiasi istante e ovunque. In quel contesto, iniziarono ad agire le BR compiendo atti di guerriglia urbana e terrorismo contro persone ritenute rappresentanti del potere politico, economico e sociale, operando tra il 1970 e il 1974 prevalentemente attraverso piccoli gruppi all’interno delle fabbriche in modo spesso clandestino, con il compito di fare propaganda in particolare nelle aziende soggette a piani di ristrutturazione o nelle quali il rapporto dei lavoratori con la dirigenza e la proprietà fosse particolarmente conflittuale. I militanti delle BR, oltre a diffondere le proprie idee, presero di mira quadri e dirigenti aziendali, incendiandone le auto o realizzando brevi sequestri, della durata di qualche ora o di pochi giorni, allo scopo di intimidire il rapito e la dirigenza dell’azienda e dimostrare la forza e la spregiudicatezza dell’organizzazione: il primo si realizzò il 3 marzo 1972 a Milano, Idalgo Macchiarini, un dirigente industriale, prelevato di fronte allo stabilimento, fotografato e rilasciato dopo qualche giorno con un cartello appeso al collo dove c’era scritto: “Colpiscine uno per educarne cento!” Sempre in quell’anno, il 5 settembre 1972 a Monaco di Baviera, un commando dell’organizzazione terroristica palestinese Settembre Nero irruppe negli alloggi destinati alle squadre israeliane del villaggio olimpico uccidendo subito due atleti che avevano tentato di opporre resistenza e prendendo in ostaggio altri nove membri della squadra olimpica di Israele, un successivo tentativo di liberazione da parte della polizia tedesca portò alla morte di tutti gli atleti sequestrati, brutale epilogo del Massacro di Monaco di Baviera che aveva insanguinato le Olimpiadi, evento tipico della cultura umana che storicamente addirittura sospendeva ovunque le guerre e la violenza.

L’immagine diventata simbolo del massacro di Monaco di Baviera: uno degli atleti in ostaggio con un passamontagna in testa s’affaccia dal balcone dell’appartamento dove i suoi connazionali sono prigionieri.8

In Italia il 12 febbraio 1973 la colonna brigatista torinese compì il sequestro di Bruno Labate, sindacalista legato al Movimento Sociale Italiano dello stabilimento FIAT di Mirafiori, interrogandolo e poi lasciandolo incatenato alla gogna operaia davanti alla fabbrica, guadagnando adesioni e simpatizzanti in tutti gli stabilimenti nelle grandi fabbriche del Piemonte, come già era accaduto in Lombardia. In quei primi anni le BR volevano tramettere segnali di lotta concreti con azioni dimostrative e atti di forza, per conquistare consensi all’interno della classe operaia: era la cosiddetta propaganda armata. Dopo Milano e Torino le BR si allargarono, in particolare a Porto Marghera fu costituita la terza colonna, quella veneta, mentre in Liguria fu creata la colonna genovese. E uscendo dalla logica dello scontro all’interno delle fabbriche i dirigenti brigatisti desideravano incidere direttamente sul processo politico del Paese, e proprio da Genova partì la prima azione condotta contro un esponente dello Stato: il rapimento, avvenuto il 18 aprile del 1974, di Mario Sossi, un magistrato che era stato pubblico ministero in un processo a un gruppo armato genovese. Condannato a morte dalle BR con lo slogan «Sossi fascista, sei il primo della lista!» il magistrato venne poi rilasciato senza ottenere una contropartita: liberato a Milano, tornò a Genova in treno e si consegnò alla Guardia di Finanza. Invece Francesco Coco, il procuratore generale della Repubblica che non aveva voluto trattare con i brigatisti, rifiutandosi di firmare la scarcerazione dei detenuti che i terroristi chiedevano in cambio della liberazione dell’ostaggio, verrà ucciso da un commando guidato da Mario Moretti, esponente dell’ala dura del movimento, che l’arresto di Renato Curcio e Alberto Franceschini avevano catapultato ai vertici dell’organizzazione, in un agguato a Genova, l’8 giugno 1976 insieme a due uomini della scorta: il primo magistrato trucidato durante gli anni di piombo.

La più sanguinosa tra le stragi che colpirono l’Italia: quella della Stazione Centrale di Bologna.9

Intanto negli stadi la passione degli italiani per il campionato di calcio non conosceva incertezze né si attenuava. Dopo quella memorabile del Cagliari, un’altra impresa infiammò gli animi dei tifosi e catturò l’attenzione degli appassionati: quella Lazio, l’undici capitolino di Giorgio Chinaglia, soprannominato Long John, bomber inarrestabile e simbolo della squadra biancoceleste, guidata in panchina dal tecnico Tommaso Maestrelli, che al termine del campionato del 1973/74 conquisterà lo scudetto. In quello stesso mese di maggio l’Italia votava il referendum voluto promosso dalla Democrazia Cristiana e sostenuto in Parlamento dal Movimento Sociale Italiano e fuori da Comunione e Liberazione, allo scopo di abrogare la legge che permetteva il divorzio. L’esito della consultazione popolare del 12 maggio 1974 fu clamoroso segnando contro le attese la prima grande sconfitta della Democrazia Cristiana e testimoniando come la modernizzazione del Paese introdotta dal boom economico e la contestazione sessantottina dell’etica dominante avesse profondamente inciso anche in Italia sull’evoluzione di costumi e mentalità. L’Italia tuttavia verrà scossa da due tremendi appuntamenti con la devastazione e la morte, il 28 maggio la strage di Piazza della Loggia a Brescia, dove una bomba nascosta in un cestino portarifiuti fu fatta esplodere mentre era in corso una manifestazione, provocando la morte di 8 persone e il ferimento di altre 102, mentre il 4 agosto la strage a bordo del treno Italicus, quando morirono 12 persone e rimasero ferite altre 48 in un attentato dinamitardo presso San Benedetto Val di Sambro, in provincia di Bologna, che avrebbe avuto conseguenze più gravi se l’ordigno fosse esploso nel cuore della Grande Galleria dell’Appennino che si sarebbe trasformata in una fornace, per i circa quattrocento passeggeri dell’espresso. Non successe solo a causa del recupero di tre minuti sul ritardo precedentemente accumulato alla partenza da Roma. Fu comunque un attentato orribile, la quinta carrozza del treno esplose e si incendiò a cinquanta metri dall’uscita della lunga galleria e le persone bruciarono vive, eppure questo tremendo episodio è il meno ricordato, commemorato e considerato dalla storiografia. Mentre nella tragedia, brilla l’eroismo di un giovane ferroviere di 24 anni, il forlivese Silver Sirotti, che munito di estintore, si slanciò tra le fiamme per soccorrere i viaggiatori intrappolati, non pochi si salvarono proprio grazie al suo spirito di servizio: morì eroicamente guadagnando una Medaglia d’Oro al Valor Civile.

Una testimonianza dell’epoca: la strage dell’espresso Italicus avrebbe potuto essere addirittura più drammatica, in un’Italia davvero sull’orlo baratro.10

Sempre nel 1974 si logora la formula governativa del centrismo e del centro-sinistra, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista quindi iniziarono a parlarsi: era l’alba del dialogo che Enrico Berlinguer aveva suggerito in una serie di pubbliche dichiarazioni alla fine del 1973 rivolgendosi alle forze che rappresentavano la grande maggioranza del popolo italiano. Il terrorismo nero decise di reagire all’ipotesi del compromesso storico fra democristiani e comunisti con le bombe, allo scopo di accresce disordine e panico, con l’auspicio di spingere una parte della società a chiedere un argine alla confusione, favorendo i più intraprendenti – fra questi Edgardo Sogno, con il suo progetto di golpe bianco – che si spinsero a credere di riuscire a instaurare un regime autoritario nel Paese. Quella Lazio, che nella stagione precedente aveva sfiorato il titolo da neopromossa, era figlia dei tempi che correvano, la squadra campione d’Italia era un gruppo turbolento: l’equilibrio del mister Maestrelli infatti si imponeva solo alla domenica, quando c’era da scendere in campo. In settimana invece il quartier generale di Tor di Quinto, il centro sportivo dove i biancocelesti si allenavano, era una vera e propria polveriera. Giorgio Chinaglia era indubbiamente il trascinatore della squadra, ma litigava con tutti, i giocatori si detestavano fra loro, addirittura mangiavano in mense separate e si cambiavano in spogliatoi diversi, caso unico nella storia di questo sport: da una parte la vecchia guardia guidata da Chinaglia e Pino Wilson, dall’altra i ribelli, entrati nel gruppo più recentemente, come Luciano Re Cecconi e Mario Frustalupi. Anche le partite settimanali di allenamento erano conflittuali e finivano in rissa, ogni volta si regolavano i conti in sospeso, e talvolta i calciatori laziali non riuscivano a scendere in campo alla domenica a causa degli infortuni che si procuravano in allenamento. Molti biancocelesti avevano il porto d’armi e si esercitavano al poligono, ma non si facevano scrupoli a portare le pistole in ritiro e sparare anche durante gli allenamenti o a farsi vedere armati in giro per Roma. Comunque, la dirompente ascesa sarà il preludio della fragorosa caduta di quella Lazio, che nella stagione 1974/75 non partecipò nemmeno alla Coppa dei Campioni a causa di una rissa scoppiata negli spogliatoi dell’Olimpico dopo il ritorno dei sedicesimi di finale della Coppa UEFA dell’anno precedente contro l’Ipswich Town che comportò per il club biancoceleste la squalifica dalle competizioni europee. Anche in campionato i biancocelesti non saranno all’altezza delle aspettative e non solo non riusciranno a difendere il tricolore, ma dovranno affrontare circostanze drammatiche che segneranno il declino nelle stagioni a venire: l’omicidio di Re Cecconi durante una rapina, quando il centrocampista, uno dei leader della squadra, fu ucciso da un colpo di pistola in una gioielleria di Roma e ancora oggi non si sa bene perché, la scomparsa dopo lunga malattia del mister Maestrelli oltre all’improvviso trasferimento di Chinaglia negli Stati Uniti. 

Una formazione della Lazio campione d’Italia, per la prima volta nella storia del club romano, i giocatori biancocelesti possono esibire lo scudetto sul petto.11

A partire dai primi anni Settanta una nobile decaduta era tornata competitiva: il Torino. Il presidente della società granata, Orfeo Pianelli, grazie a mirate operazioni di mercato, stava via via costruendo una squadra all’altezza dei rivali cittadini della Juventus, inavvicinabili fino a pochi anni prima, da quando la tragedia di Superga aveva cancellato il Grande Torino consegnandolo al mito. Proprio per invertire quella tendenza alla frustrazione il presidente Pianelli decise di ingaggiare il paròn Nereo Rocco che pur non vincendo nessun trofeo con il Toro nei suoi tre anni di permanenza sulla panchina della squadra piemontese, lasciò un’impronta di forza e la voglia di tornare a competere ai massimi livelli. Nell’estate del 1971 arriverà al Torino Gustavo Giagnoni, sardo di nascita e mantovano d’adozione: sarà immediatamente contagiato dall’amore per il Toro, in quei freddi inverni torinesi il mister prenderà l’abitudine di indossare una sciarpa granata e un colbacco al quale verrà dato un significato politico, che non aveva. Con lui in panchina il Toro ha una marcia in più, e in quella stagione 1971/72 tornerà addirittura a competere per lo scudetto, per la prima volta dal “dopo Superga”. A metà aprile i ragazzi granata erano in testa, davanti alla Juventus, ma la classifica finale premierà i bianconeri che saranno campioni d’Italia, con il Toro staccato di un solo punto e il rammarico di un paio di clamorosi errori arbitrali che avrebbero cambiato le sorti della sfida per il titolo in favore del sodalizio granata. A fine campionato un nuovo termine entrò nell’enciclopedia del calcio italiano: il tremendismo granata. A parere di Giovanni Arpino, scrittore e giornalista: “L’espressione è perfetta per un club che magari non vince, ma è un osso durissimo per chiunque. Una squadra di orgoglio, di rabbie leali, di capacità aggressive, mai doma, temibile in ogni occasione e soprattutto quando l’avversario è di rango”. Ecco, tutto questo significa tremendismo. Giagnoni infatti aveva con la sua aria un po’ truce, la grinta e la sua personalità, aveva trasmesso alla squadra un gioco incisivo e una mentalità aggressiva, il Toro non mollava mai, e l’allenatore col colbacco entrava definitivamente nella mitologia granata in un derby del dicembre 1973: a un certo punto del match, Giagnoni non riesce più a resistere alle continue provocazioni di Franco Causio, così una volta raggiunto il giocatore juventino a bordocampo, spostando il guardalinee, lo colpisce con un cazzotto sullo zigomo e lo stende. A fine partita, l’allenatore sardo, pentito del suo gesto, teme le reazioni della stampa e una pesante squalifica, ma intanto i tifosi granata lo attendono impazienti, per portarlo in trionfo e gridare: “Questo è il Toro!”

L’inimitabile Gustavo Giagnoni sulla panchina del Toro, con il mister sardo nasce il tremendismo granata.12

Intanto alle elezioni amministrative del giugno 1975 la straordinaria avanzata in termini di preferenze del Partito Comunista fece ritenere vicinissimo il sorpasso sulla Democrazia Cristiana e provocò un terremoto nelle amministrazioni locali, dove si andavano radicando maggioranze di governo sempre più apprezzate fra socialisti e comunisti. In un anno segnato dalla fine della guerra in Vietnam, con la caduta di Saigon e relativa ritirata americana, e in cui i sindacati e gli operai parlavano di scala mobile per adeguare i salari all’inflazione, sulla panchina granata arriva un innovatore: il giovane Gigi Radice. Il prussiano, così lo chiamano per gli occhi chiari, vuole uno stile di gioco votato al pressing a tutto campo, a imitazione del calcio totale dell’Olanda di Cruijff e compagni, e sarà l’uomo giusto al momento giusto, nel posto giusto. Nei rituali da seguire prima delle partite c’è il consueto cinque che Radice scambia con tutti i giocatori, al momento dell’ingresso in campo, tutti tranne uno, perché il mister quando si trova davanti Pulici non gli dà la mano, ma vuole un testa contro testa col suo bomber che quando entra in campo fa esplodere la Curva Maratona in un boato impressionante. Poco dopo l’inizio di quel campionato, nella notte tra il 1º e il 2 novembre del 1975, fu ucciso in maniera brutale, percosso e travolto dalla sua stessa auto sulla spiaggia dell’Idroscalo di Ostia, vicino a Roma, Pier Paolo Pasolini. Era considerato tra i maggiori artisti e intellettuali del XX secolo, attento osservatore dei cambiamenti della società italiana e figura a tratti controversa, per la radicalità dei suoi giudizi assai critici nei riguardi delle abitudini borghesi come nei confronti del Sessantotto e dei suoi protagonisti. Il suo rapporto con la propria omosessualità – all’epoca nemmeno tollerata in Italia – fu al centro del suo personaggio pubblico, mentre lui, innamorato della sua squadra del cuore, il Bologna, considerava i pomeriggi trascorsi a giocare a pallone i più belli della sua vita. In quella stagione del 1975/76 il Torino sarà Campione d’Italia: una redenzione attesa per ventisette anni dopo Superga, raccogliendo grazie alla leadership di Gigi Radice i frutti maturati nel corso delle stagioni precedenti, facendo convivere e valorizzando al meglio sia generosi gregari che raffinati esteti come Sala – il poeta – e Pecci, un centrocampista d’assalto come il gentleman Zaccarelli e implacabili cannonieri, come i gemelli del gol Pulici e Graziani, insieme al giaguaro Castellini, un estremo difensore di grandi qualità, secondo solo a Zoff in Nazionale. Quattordici vittorie su quindici in casa, con un solo pareggio proprio nell’ultima e decisiva giornata, ma soprattutto una cifra di gioco eccezionale ed una velocità mai viste prima. Il sogno del presidente Pianelli era finalmente realtà: aveva restituito la gioia al popolo granata. Nel Paese, arrivati a giugno, trascorsa un’infuocata campagna elettorale in un clima di contrapposizione frontale, sembrò prossimo il sorpasso del Partito Comunista sui democristiani e nell’attesa da un lato della vittoria finale dei progressisti sui moderati e dall’altro di una rinnovata paura per il pericolo rosso, la mobilitazione in favore della Democrazia Cristiana fu senza quartiere e coinvolse anche Indro Montanelli, che dalle colonne del suo il Giornale ammonì i lettori con uno slogan poi rimasto celebre: turatevi il naso ma votate DC!

I primi gemelli del gol del campionato italiano. Per i tifosi granata rimane la coppia per eccellenza, che ha trovato il suo apice nello splendido scudetto del 1976, Paolino Pulici e Ciccio Graziani.13

Ed effettivamente andò proprio così: la Democrazia Cristiana dimostrò grandi capacità di recupero, conservando la maggioranza ma indebolendo i tradizionali alleati, mentre a sinistra il Partito Comunista non sfondò ma ottenne il miglior risultato elettorale della sua storia, anche in quel caso a scapito degli alleati socialisti e dell’estrema sinistra. A settembre intanto l’Italia del tennis tornava da Santiago del Cile dove aveva vinto per la prima volta la Coppa Davis, la massima competizione mondiale di questo sport, avendo rischiato fino a pochi giorni prima di non giocarla nemmeno. La gara, infatti, la finalissima, era prevista contro la nazionale cilena proprio in Cile, paese retto dalla brutale dittatura di Pinochet e per giunta, il campo di gioco si trovava nel complesso dello Stadio Nazionale, divenuto uno dei simboli della repressione del regime, usato, negli anni precedenti, come campo di concentramento per i prigionieri politici. E in Italia, dove la polarizzazione delle posizioni sembra insanabile, cortei e manifestazioni si susseguivano al grido Non si gioca con il boia Pinochet, mentre Adriano Panatta, il nostro tennista più forte e rappresentativo, veniva accusato di essere miliardario e fascista mentre era diventato benestante col talento e mai si era identificato con i progetti della destra liberale, figurarsi con quella estrema. I parlamentari socialisti sono contrari a partecipare e Domenico Modugno canta in favore del boicottaggio, mentre il governo di Giulio Andreotti non prende posizione, aspetta. L’estrema sinistra spinge per il rifiuto, non vuole giocare. Ma il capitano della Nazionale, Nicola Pietrangeli, e i tennisti vogliono giocare, Andreotti allora fa decidere al CONI, che a sua volta si affida al parere della FIT, la Federazione italiana del tennis. La Federazione, che ha da poco nominato Paolo Galgani nuovo presidente, aspetta di vedere da che parte tira il vento e alla fine si fa convincere da Enrico Berlinguer, l’ideatore dell’euro-comunismo, che si muove in direzione contraria rispetto all’Unione Sovietica, che ha boicottato la Coppa Davis e si aspetta lo stesso dall’Italia.

I tennisti azzurri tornano da Santiago del Cile con la Coppa Davis vinta in quel 1976, sono appena atterrati all’aeroporto di Roma, dopo un lungo viaggio con il trofeo più prestigioso al mondo fra le loro mani.14

Il carismatico segretario del Partito comunista matura la decisione dopo essersi in qualche modo consultato con il leader comunista cileno, Luis Corvalán infatti gli suggerisce di non procedere con un boicottaggio che si sarebbe potuto rivelare vantaggioso per Pinochet, verso il quale il consenso nazionalistico all’epoca cresceva. A quel punto il Rubicone è oltrepassato: si va in Cile per vincere. Nel corso del doppio Adriano Panatta, noto per le sue simpatie politiche di sinistra, decise di giocare con una maglietta rossa, in omaggio alle vittime della repressione di Pinochet, convincendo il suo compagno Bertolucci a fare lo stesso: la prima Davis italiana diventa realtà. Dopo la pausa, alla fine del terzo set, Panatta e Bertolucci si erano cambiati, abbandonando la maglietta rossa. Il trionfo imminente andava celebrato in azzurro. Intanto si ragionava nei palazzi della politica circa la necessità di un governo di “solidarietà nazionale”, invece in California nasceva nell’estate del 1976 Apple Computer, Inc. quando Steve Jobs e Steve Wozniak, a Cupertino nella Silicon Valley, si organizzarono, coi pochi soldi di cui disponevano, allo scopo di sviluppare e vendere il personal computer Apple I: nel giro di pochi anni Jobs e Wozniak avevano assunto uno staff di progettisti di computer e avevano una linea di produzione, che dopo molti anni sarebbe arrivata a cambiare lo stile di vita della maggior parte dell’umanità, niente meno. Era iniziato puntualmente il campionato del 1976/77 che appassionerà come sempre tutto il Belpaese e si rivelerà fin da subito un furibondo testa a testa fra il Toro e la Juventus, fino all’ultima giornata, fra sorpassi e controsorpassi. Alla fine, la squadra granata raggiungerà la stratosferica cifra – in un campionato a 16 squadra – di cinquanta punti, cinque più della stagione precedente, ma la Juventus per loro sfortuna ne farà uno in più. Delusione difficilissima da smaltire, da aggiungere alla cocente quanto rocambolesca eliminazione in Coppa dei Campioni, agli ottavi terminando in otto con Ciccio Graziani in porta la partita di ritorno, per mano dei fortissimi tedeschi del Borussia Mönchengladbach. Il Toro si avvierà da allora verso un nuovo lento declino, mentre i rivali della formidabile Juventus guidata da Giovanni Trapattoni, inizieranno uno straordinario ciclo di vittorie in Italia e, più tardi, in Europa.

Il Toro finalmente campione d’Italia: un’emozione incontenibile per uno scudetto conquistato ben 27 anni dopo la tragedia di Superga, dove perì il Grande Torino.15

Oramai nel Paese divampava il conflitto politico e culturale in tutti i luoghi del sociale. Gli effetti della politica d’austerità varata dal primo governo di “solidarietà nazionale” portarono allo scoperto una composita area di dissenso, indicata col nome generico di movimento del 77 che tracciava un perimetro all’interno del quale convivevano posizioni anarcoidi, rifiuto del lavoro e operaismo, istanze pacifiste e teorizzazione dell’illegalità di massa, che costituirono il diffuso retroterra ideologico ispiratore dello scontro frontale con le istituzioni. In particolare, ci fu un’avvisaglia: il 17 febbraio la violenta contestazione rivolta contro il segretario della CGIL Luciano Lama si trasformò in scontro aperto con il servizio d’ordine del sindacato. Gli scontri per violenza e intensità causarono lo scioglimento anticipato del comizio e l’abbandono della città universitaria da parte del segretario e della delegazione della CGIL, l’evento diverrà famoso e ricordato come la cacciata di Lama dall’Università La Sapienza di Roma, oramai occupata e ingovernabile e, in conseguenza di quell’episodio, consegnata dal rettore alla polizia, mentre una fitta serie di episodi di violenza si susseguiranno nelle principali città d’Italia, senza soluzione di continuità. L’11 marzo 1977 a Bologna studenti della sinistra extraparlamentare affrontarono le forze dell’ordine intervenute a difesa di un’assemblea di CL, durante gli scontri fu ucciso Francesco Lorusso, militante di Lotta Continua e studente universitario.

Il centro di Bologna devastato e presidiato come quello di una città occupata e in guerra, questo il clima di molti centri urbani italiani nella violente primavera del 1977.16

La notizia della morte del giovane si diffuse rapidamente e ne seguì l’affluire di migliaia di studenti verso la zona universitaria che venne barricata in un clima di incredulità, dolore e rabbia. In risposta alle proteste ed ai gravi disordini scoppiati in città, il Ministro dell’Interno, Francesco Cossiga, dispose l’invio di mezzi blindati nelle strade del centro di Bologna, finendo così per accentuare lo scontro politico, vista la profonda impressione suscitata nell’opinione pubblica nel vedere – nel cuore della capitale dell’Emilia, cingolati per il trasporto truppe che furono generalmente percepiti come carri armati. Tutte le iniziative di protesta lanciate nei giorni successivi furono duramente represse, anche attraverso l’esecuzione di numerosi arresti e fermi di polizia. Il 12 marzo dello stesso anno si svolse a Roma una grande manifestazione nazionale di protesta contro la repressione, che per la tensione e la rabbia accumulate nelle ore precedenti, sfociò in violentissimi scontri di piazza e gravi episodi di guerriglia urbana, caratterizzati da assalti e dal lancio di bottiglie molotov contro banche, esercizi commerciali, ambasciate, comandi delle Forze dell’ordine e sedi della DC, considerata politicamente responsabile della situazione. In quel particolare momento va riconosciuto un argine alla violenza: la dura presa di posizione manifestata dalle organizzazioni e dai partiti della sinistra storica, frattura che si rese particolarmente evidente a seguito del forte appoggio fornito dal Partito comunista alle manifestazioni contro la violenza organizzate dai sindacati confederali, dove per fortuna iniziava a guadagnare terreno una più realistica percezione delle esigenze economiche, e tra i lavoratori si diffondevano il disagio e l’insofferenza per il carattere esclusivamente politico delle manifestazioni di protesta.

La stretta di mano tra il segretario generale del PCI, Enrico Berlinguer, e il presidente della DC, Aldo Moro, i principali fautori del cosiddetto compromesso storico tra le due opposte forze politiche.17

A seguito della carcerazione di Renato Curcio, fondatore insieme ad altri e ideologo, le BR si riorganizzarono decidendo di accentuare la caratterizzazione “militare” in vista di una nuova fare operativa incentrata su azioni terroristiche violente e di forte impatto, e fu così che durante l’anno ci sarà una vera e propria escalation di ferimenti e omicidi. A Venezia intanto la notte più drammatica fu quella del 31 marzo 1977: i problemi cominciarono nel pomeriggio, ai violenti scontri con la polizia e al lancio delle bottiglie molotov seguirono le devastazioni e i saccheggi di negozi di lusso, e un attacco incendiario al Comando della Guardia di Finanza oltre ad un attentato dinamitardo rivolto alla sede della giunta regionale del Veneto, mentre Marghera, Mestre, Padova, Rovigo e Vicenza venivano messe a soqquadro per quasi due anni quando, durante le così dette notti dei fuochi, una serie di attentati volevano sfruttare il malcontento della classe operaia inducendola a simpatizzare coi terroristi, secondo i programmi degli agitatori. Nel frattempo iniziava a Torino il processo ai “capi storici” delle BR – tra cui Renato Curcio e Alberto Franceschini – ed era accaduto un fatto mai verificatosi in precedenza in Italia: tutti gli imputati detenuti si proclamarono militanti dell’organizzazione comunista Brigate Rosse e combattenti comunisti assumendo collettivamente e per intero la responsabilità politica di ogni sua iniziativa passata presente e futura disconoscendo qualunque presupposto legale per quel processo, revocando il mandato ove già conferito e minacciando di morte i legali che avessero accettato la nomina come difensori di ufficio, rendendo di fatto il processo “impossibile” in mancanza della difesa tecnica, quale garanzia costituzionale, e inducendo il presidente della Corte d’Assise, constatate le difficoltà di pervenire alla nomina di difensori, a incaricare della difesa d’ufficio il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino, l’avvocato Fulvio Croce, il quale pur essendo un avvocato civilista e consapevole dei gravissimi rischi a cui si esponeva, onde non rallentare il corso di un processo così importante, accettò l’incarico dimostrando grande coraggio e assoluta fiducia nella forza della legge.

Quando nel 1983 il presidente degli USA Ronald Reagan propose la Strategic Defense Initiative per utilizzare sistemi d’arma al suolo e nello spazio per proteggere gli Stati Uniti da attacchi di missili nucleari, il piano fu soprannominato Star Wars.18

Nel primo pomeriggio del 28 aprile del 1977, pochi giorni prima della data fissata per l’udienza del processo, un gruppo di fuoco delle BR uccise l’avvocato Croce nei pressi del suo studio legale in via Perrone a Torino, colpendolo mortalmente con cinque colpi di pistola che lo raggiunsero alla testa e al torace. Intanto in quel 1977 dagli Stati Uniti verso il resto inizia una saga cinematografica che non avrà uguali con l’omonimo film Guerre stellari, sottotitolato retroattivamente  Episodio IV – Una nuova speranza. Il film, ambientato diciannove anni dopo la fondazione dell’Impero Galattico, narra le avventure dello Jedi Luke Skywalker e del suo maestro Obi-Wan Kenobi, impegnati nella lotta contro il Lato Oscuro della Forza, a fianco dell’Alleanza Ribelle, guidata dalla Principessa Leila, in modo da porre fine al potere dell’Imperatore sulla Galassia. Dopo un inizio in sordina, distribuito in pochi cinema americani, Guerre stellari si rivelò un successo senza precedenti sia al botteghino sia nel modo in cui si radicò nel cuore della coscienza pubblica. La maggior parte della critica spese parole d’elogio giudicandolo capace di immergere gli spettatori nel suo mondo fantastico e di coinvolgere con una narrazione semplice, ma solida ed entusiasmante, coadiuvata da effetti speciali spettacolari come raramente si erano visti prima, la saga poi sarebbe diventata un fenomeno culturale di massa, oramai è un dato storico, fin dall’uscita del primo film, e ha avuto un forte impatto sulla moderna cultura pop e le sue citazioni si sono radicate nell’uso quotidiano: frasi come la Forza sia con te o Io sono tuo padre sono diventate parte integrante del lessico della popolazione, mentre la Forza e Lato Oscuro sono state incluse nell’Oxford English Dictionary.

Renato Curi è ricordato per via della morte avvenuta durante la gara Perugia-Juventus disputata il 30 ottobre 1977 allo stadio Pian di Massiano, che oggi porta il suo nome.19

Il 30 ottobre 1977 anche il mondo dello sport vive una giornata straziante, quando alla stadio Comunale Pian di Massiano il Perugia di Ilario Castagner ospita la Juventus di Trapattoni. All’epoca la squadra dei grifoni faceva sognare tutta l’Umbria, e il giovane Renato Curi in particolare era entrato nel cuore dei tifosi quando il 16 maggio dell’anno precedente un suo destro al volo all’ultima giornata aveva superato Zoff, togliendo lo scudetto ai bianconeri e consegnandolo al Toro di Radice. Il 30 ottobre invece era una giornata da lupi: il cielo sopra Perugia era nero e gonfio di pioggia, che poi inizierò a cadere flagellando senza tregua i giocatori, ma al quinto minuto della ripresa, sullo zero a zero, dopo una rimessa laterale per gli umbri e uno scatto nel tentativo di raggiungere la palla, dal cerchio di centrocampo, Renato Curi si accascia improvvisamente al suolo, come fulminato, allarmando i compagni e gli avversari che gli si avvicinano, gli juventini Roberto Bettega e Gaetano Scirea spaventati gesticolano freneticamente per chiamare soccorso, entrano immediatamente in campo i sanitari e si intuisce che si sta compiendo un dramma sportivo e umano. Non servono il massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca, il centrocampista esce in barella privo di sensi sotto una pioggia sempre più forte: morirà poco dopo stroncato da un arresto cardiaco, all’età di ventiquattro anni, nella commozione generale. Tutta Italia peraltro stava per vivere un altro momento epocale: il 16 marzo 1978 avvenne l’agguato di via Fani a Roma, quando lo sterminio della scorta, fu il preludio al sequestro e al successivo assassinio dell’allora presidente della DC Aldo Moro, consumato il 9 maggio 1978, e definito dalle BR “l’attacco al cuore dello Stato”. Si chiudeva così il sequestro più drammatico della storia dell’Italia repubblicana, durato ben 55 giorni, che gettò il Paese nel panico e stroncò definitivamente la maturazione del progetto politico che Aldo Moro aveva abbozzato: cioè inserire nell’area democratica prima e nelle responsabilità di governo poi il PCI. Questi tempi sembravo non finire mai, dal giugno 1978 al dicembre 1981 aumentarono gli agguati, le uccisioni e i ferimenti terroristici. Le statistiche segnalarono una continuità di attentati mai conosciuta in Europa: il numero delle organizzazioni armate attive in Italia era passato da 2 nel 1969 a 91 nel 1977 fino a 269 nel 1979, mentre in quello stesso anno si registrò la cifra record di 659 attentati. Tuttavia l’anno con più vittime sarà il 1980, quando moriranno 125 persone, di cui 85 solo nella strage della Stazione Centrale di Bologna.

Dopo il sequestro e l’uccisione ad opera delle Brigate Rosse, il triste ritrovamento del corpo senza vita di Aldo Moro.20

L’Italia era allo stremo, ma a quel punto a Genova successe qualcosa di imprevedibile e imprevisto, tanto da cambiare il corso degli eventi. Lo scopriremo nel seguito del racconto…

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Il Superball. Non l’hanno mai digerito gli inglesi il pallone friulano: da Sheffield a Bell Ville fino a Belo Horizonte.

“Sheffield, I suppose, could justly claim to be called the ugliest town in the Old World”. Nel 1937 a detta di George Orwell la città di Sheffield poteva ambire al titolo di più brutta fra tutte le altre città d’Europa. A onor del vero la capitale britannica dell’acciaio, soffocata dai fumi delle sue industrie, non doveva essere in effetti una città straordinariamente attraente. Va detto peraltro che Orwell – privo di qualsiasi interesse per il football – non avrebbe potuto cogliere in una città tanto industriale altri motivi di fascinazione. Peggio per lui! Sheffield infatti è un nome che evoca emozioni speciali in ogni appassionato dello sport più amato al mondo: il calcio. Le squadre maggiormente seguite in città, all’epoca di Orwell, erano già iconiche: lo Sheffield United, la più giovane, era stata fondata nel 1889, vincitrice di un campionato inglese e quattro volte della FA Cup (la prestigiosissima coppa nazionale inglese), disputava le partite casalinghe a Bramall Lane, il più antico stadio al mondo fra quelli in grado ancora oggi di ospitare partite di calcio professionistico. Lo Sheffield Wednesday, l’altra squadra, fondata addirittura nel 1867 con un giorno della settimana nel proprio nome – dovuto a quello di riposo in cui gli artigiani che componevano la squadra disputavano le loro partite – ha vinto ad oggi quattro campionati inglesi, tre volte la FA Cup, una League Cup (la coppa della lega dei professionisti) e in una occasione il Charity Shield (il piatto d’argento in palio nel match fra i vincitori del campionato e della coppa nazionale). Ma non è tutto…

George Orwell, uno dei maggiori autori di prosa in lingua inglese detestava il football, il grande opinionista deve la sua fama in particolare a due romanzi: l’allegoria politica di La fattoria degli animali e la distopia di 1984.1

A Sheffield c’era vita – calcisticamente parlando – addirittura prima degli Owls (i gufi) del Wednesday e delle Blades (le lame) dello United: infatti, nella città che ha inventato l’acciaio inox, si era già tenuto nel 1861 il primo derby della storia del calcio, disputato tra le due squadre in assoluto più vecchie al mondo, oggi ancora in attività nelle serie minori del calcio inglese. Quasi dimenticate, ma indimenticabili. Si tratta dello Sheffield Football Club, nato il 24 ottobre 1857, e dei suoi rivali di sempre dell’Hallam Football Club, fondato il 4 settembre del 1860, niente meno – quest’ultima – che la vincitrice della prima competizione calcistica della storia: la Youdan Cup, anch’essa disputata a Sheffield (e dove altrimenti?) e messa in bacheca battendo il Norfolk Football Club nella finale giocata sul terreno di Bramall Lane il 5 marzo 1867, secondo le regole note come Sheffield Rules, un altro primato della Steel City, la città dell’acciaio: il primo tentativo di regolamentare lo sport del calcio, prevedendo l’off-side, il calcio di punizione (anche se indiretto), la traversa di legno (prima era una corda, appena tesa fra i due pali), il corner e la rimessa in gioco, nonché il divieto di sgambettare l’avversario. L’Hallam Football Club, espone quello storico trofeo d’argento nella club house accanto al terreno di casa di sempre: il Sandygate Road, riconosciuto dal Guinness World Records – il libro che raccoglie tutti i primati del mondo, da quelli naturali a quelli umani, a quelli più originali – come il più vecchio campo di calcio della storia, dove il 29 dicembre del 1862 si giocò la prima partita di football ufficialmente riconosciuta, tra i blues countrymen – padroni di casa – e i cugini maroons dello Sheffield Football Club, vinsero i secondi. Forse. Comunque, alla faccia di Orwell.

Sandygate Road, riconosciuto dal Guinness dei primati come the oldest ground in the world, ossia il più vecchio campo di calcio della storia.2

Trascorsi pochi mesi dal così detto Rules derby giocato a Sandygate Road si verificò un altro momento decisivo nella storia del football, quando il solicitor – si chiamano così gli avvocati che nel sistema giudiziario inglese si dedicano esclusivamente all’attività di consulenza – Ebenezer Cobb Morley, un eccellente sportsman tra l’altro: calciatore e canottiere nel quartiere londinese di Barnes, decise di dare vita nel 1862 al Barnes Football Club e, come capitano del neonato sodalizio, di scrivere al quotidiano Bell’s Life lanciando l’idea di creare un organismo in grado di governare il fenomeno del football, che stava crescendo in maniera dirompente ma confusa. Non esistevano infatti regole universali per il gioco del calcio, le squadre prossime a Sheffield avevano le proprie rules, ma molti altri club e varie associazioni territoriali stilavano le proprie e queste si aggiungevano le une alle altre senza cancellarsi a vicenda: ciascuno poteva infatti liberamente decidere quale sistema di rules adottare, così a Nottingham come a Derby o Birmingham, senza considerare che non erano in pochi, sull’esempio del Blackheath Football Club, a propugnare la possibilità di giocare il pallone con le mani contro chi, contemporaneamente, ne proponeva il divieto, e via discorrendo.

Nathaniel Creswick e William Prest, due giocatori di cricket, crearono il 24 ottobre 1857 lo Sheffield Football Club, la prima squadra di calcio al mondo, dopodiché scrissero le Sheffield Rules, il fondamento del gioco moderno.3

Insomma, la sollecitazione dell’avvocato Cobb Morley non cadde nel vuoto: i tempi erano maturi per una codificazione unitaria e l’invito venne raccolto da varie personalità, che decisero di incontrarsi alla Freemasons’ Tavern, una public house nel West End londinese, dando così luogo il 26 ottobre del 1863 alla prima riunione della neocostituita The Football Association inglese, la mitica The FA. All’esito poi dei successivi incontri, organizzati nella zona di Covent Garden, sempre a Londra, vennero codificate sotto l’attenta supervisione del neopresidente Cobb Morley, partendo dalle Sheffield Rules, la prima versione delle Laws of the Game. Le Regole del Gioco! In particolare: il divieto di utilizzare le mani per colpire o passare la palla, stabilito a quel punto inequivocabilmente, starà stretto a qualcuno che si alzerà sbattendo la porta, determinando la nascita, il 26 gennaio 1871, della Rugby Football Union che codificherà le regole di quell’altro magnifico sport “da bestie, ma giocato da gentiluomini” come ama ripetere chi lo pratica: il rugby. Tornando però al calcio, successe che la FA insieme alle omologhe federazioni scozzese, gallese e nordirlandese, crearono a Manchester, il 6 dicembre 1882, l’International Football Association Board: l’organismo guardiano del calcio mondiale, conosciuto attraverso l’acronimo IFAB e deputato tutt’oggi a custodire le Laws of the Game, modificarle ed eventualmente deliberarne di nuove a livello internazionale e nazionale, vincolando alla loro osservanza tutte le federazioni, organizzazioni e associazioni calcistiche, a livello professionale e dilettantistico, escluso il solo livello amatoriale: un enorme potere! È giusto notare che la Fédération Internationale de Football Association, che tutti conosciamo come FIFA, nata a Parigi il 21 maggio del 1904, attualmente l’organizzazione calcistica più importante a livello mondiale con 211 federazioni associate, dichiarò a suo tempo che avrebbe aderito alle regole stilate dall’IFAB per ogni sua competizione, partecipando alle riunioni dell’organismo supremo attraverso un proprio rappresentante, che oggi fa parte a pieno titolo del board dei pasdaran del calcio, che nel frattempo ha stabilito la propria sede da Londra a Zurigo, nella neutrale Svizzera.

La targa ricorda il luogo di fondazione della The Football Association, la federazione calcistica inglese, quando – in sostanza – nascerà a Londra il calcio moderno.4

Certo il football ha tante radici e molto antiche, un po’ come la ruota. Se sono stati i Sumeri infatti primi a trasmetterci l’immagine di una ruota – attraverso il così detto Stendardo di Ur, il magnifico reperto archeologico ritrovato durante gli scavi eseguiti in Iraq nel 1928, oggi custodito al British Museum di Londra – non furono loro a inventarla, come si pensava un tempo. Oggi invece gli studiosi concordano: l’idea della ruota nacque dall’osservazione che oggetti circolari, come i tronchi d’albero, rotolano con facilità. È inverosimile quindi che la ruota abbia avuto un singolo inventore, è molto più probabile che sia nata dalla lenta e progressiva evoluzione di una prima, rudimentale e anonima idea. Una invenzione semplice che fa girare il mondo!, si potrebbe dire: un po’ come il football. O no? Celia a parte, tanto per farsi un’idea sulle “radici” del calcio: a partire dal III secolo a.C. in Cina si praticava il così detto Ts’u-Chü, un gioco popolare specialmente tra i soldati, perché fungeva da addestramento militare. Bisognava spedire un pallone ripieno di piume e capelli di donna in uno spazio delimitato da due canne di bambù, utilizzando unicamente i piedi. Questa remota pratica è stata riconosciuta dalla FIFA, nella sua didattica, come il più antico gioco riconducibile al calcio moderno. E vale la pensa di sottolineare con forza – alla luce di quella modalità – che in Cina venne concepito, concettualmente e prima che altrove, l’idea di “fare” goal, che non è affatto banale. Mi spiego: anche in Giappone esisteva un gioco con la palla: le prime notizie riguardanti il Kemari risalgono al 664! Era uno sport molto fisico, ma curiosamente non competitivo, i giocatori infatti cooperavano tra loro, allo scopo di mantenere in aria una sfera – di pelle di cervo, con il pelo rivolto all’interno, ripiena di chicchi di orzo e avvolta ancora in una pelle di cavallo – cercando di impedire che cadesse al suolo, colpendola, a turno fra i partecipanti, con la testa, i piedi, le ginocchia, la schiena e i gomiti, ma non utilizzando le mani. E senza fare goal!

Un corteo di pesanti carri da guerra avanza rotolando su grandi ruote di legno: lo Stendardo di Ur è la prima rappresentazione che ci è giunta della ruota, una delle invenzioni più importanti dell’umanità.5

Fu in Grecia che si affermò intorno al IV secolo a.C. quello che è considerato il padre europeo del football (e del rugby): un gioco molto violento, soprattutto nella versione praticata nella città di Sparta, una delle più influenti poleis mediterranee dell’antichità. In seguito alla conquista delle città greche, il “gioco” si diffuse a Roma e si trasformò nell’harpastum, che deriva appunto il suo nome dal termine greco arpazo, con il significato di strappare con forza e afferrare. Si affrontavano due squadre in un campo rettangolare delimitato da linee di contorno e da una linea centrale, con l’obiettivo di depositare una palla oltre la linea di fondo del campo avversario: allo scopo erano permessi lanci e passaggi, sia con le mani che con i piedi, fra ogni giocatore che ricopriva tuttavia in campo un ruolo ben preciso. A testimoniare la diffusione e l’importanza dell’harpastum è tra gli altri Marco Valerio Marziale, poeta romano ritenuto il più importante epigrammista latino, che ci lascia una descrizione dei palloni usati a quei tempi: la pila paganica, fatta di cuoio e piena di piume e la follis, sempre di cuoio ma con una primordiale camera d’aria all’interno, costituita da una vescica animale. I praticanti della disciplina erano soliti ritrovarsi nello sphaeristerium (da cui è derivato il nome sferisterio, che ancora oggi designa molti campi di gioco del pallone nonché il magnifico teatro all’aperto di Macerata) oppure nel campus, come il Campo Marzio di Roma. Addirittura, Svetonio – grande storico e biografo romano dell’età imperiale – ci racconta, nell’opera De vita Caesarum, che l’imperatore Augusto, nipote, figlio adottivo ed erede designato da Caio Giulio Cesare, praticava l’harpastum: “Al termine delle guerre civili rinunciò agli esercizi militari dell’equitazione e delle armi e, inizialmente si diede al gioco di palla e pallone”.

Un giovane che gioca con la palla è rappresentato su una stele tombale rinvenuta nel Pireo, databile 400-375 a.C., e ora esposta ad Atene.6

Una pratica sportiva così virile non poteva fare altro che piacere in una società tanto marziale e fare proseliti per centinaia di anni, specialmente tra gladiatori e legionari. Specialmente questi ultimi lo portarono dalla capitale ai limes dell’Impero, probabilmente anche in Britannia, dove si radicò nelle abitudini ludiche degli autoctoni: giochi di squadra con la palla, spesso di carattere molto violento, infatti, sono documentati nel Medioevo, dopo la dissoluzione dell’Impero romano, in diverse regioni d’Europa – al di fuori dell’Italia – soprattutto in Inghilterra e in Francia, dove in Normandia e Piccardia, era diffusissima la soule: un gioco che coinvolgeva interi villaggi, ogni squadra poteva consistere anche di 200 partecipanti, incaricati di portare un pallone di cuoio in una determinata località, distante anche molti chilometri dal luogo dove iniziava la partita, naturalmente valeva quasi tutto: botte da orbi prima di tutto, e per bloccare gli avversari una sorta di lotta libera. Tuttavia il continuatore diretto dell’harpastum romano, sembrerebbe il così detto calcio in costume, talmente diffuso nella seconda metà del Quattrocento tra i giovani fiorentini che questi lo praticavano in ogni strada o piazza della città, improvvisando sfide cruente e mettendo in pericolo anche i più pacifici cittadini. Con il passare del tempo, proprio a causa dei problemi di ordine pubblico che derivavano dalla pratica, si andò verso una maggiore organizzazione e il calcio, chiamato fiorentino, cominciò ad istituzionalizzarsi: svolgendosi periodicamente nelle piazze più importanti di Firenze, coi giocatori, detti calcianti, spesso nobili, che scendevano in campo e vestivano le sfarzose livree dell’epoca, secondo regole e squadre, che diedero poi il nome di calcio in livrea a questo sport. La partita più famosa, cui si ispirano le moderne e vivaci rievocazioni, da non perdere almeno una volta nella vita, è sicuramente quella giocata il 17 febbraio 1530, quando i fiorentini assediati dalle truppe imperiali di Carlo V, affamati e assetati, davvero allo stremo, vollero dare sfoggio di noncuranza e sprezzo mettendosi a giocare alla palla in piazza Santa Croce.

Il Calcio storico fiorentino è un gioco tipico della città di Firenze, in passato conosciuto come Calcio in costume, perché giocato con abiti sgargianti, rappresentativi di un dato periodo storico.7

Gli inglesi – adesso è più chiaro – non hanno fatto tutto da soli, ma non glielo si può né si deve negare: se non hanno inventato il calcio, hanno fissato loro le prime regole essenziali di quello “moderno” esportandolo quasi ovunque nel mondo. In ragione di ciò si sono sentiti – forse comprensibilmente – superiori a tutti, in un teorico rapporto tra maestri e allievi, tanto da snobbare le competizioni internazionali. Questo volontario isolamento ha generato il mito dell’invincibilità, sorretto peraltro da ben pochi riscontri concreti, tutti peraltro risalenti a fine Ottocento o ai primi del Novecento, quando la concorrenza era ancora ai rudimenti della tecnica e del tutto digiuna di tattica. In seguito comunque altre realtà confuteranno la pretesa superiorità inglese, che se è sempre stata una “scuola” di tutto rispetto, alla prima partecipazione alla Coppa del Mondo, avvenuta nel 1950, fu eliminata dagli sconosciuti ma volenterosi dilettanti statunitensi, una vera e propria onta per i maestri. Tuttavia è dalla Gran Bretagna, a bordo delle navi mercantili di Sua Maestà, che il football inizia il suo viaggio per il mondo, approdando sia sulle rive del continente europeo che su quelle sudamericane dell’Oceano Atlantico, dove i marinai britannici, una volta sbarcati a terra, impiegavano il tempo libero sfidandosi fra loro, sollecitando prima la curiosità dei passanti e poi l’emulazione dei residenti. Le città europee porti commerciali o militari erano quindi naturalmente predisposte a recepire il football, e per questo motivo spesso hanno visto nascere i sodalizi che poi sono stati i primi testimoni del nuovo gioco: in Francia a Le Havre nel 1872 nascerà il Le Havre Athletic Club, in Germania nella grande città portuale di Amburgo nel 1887 vedrà la luce l’Hamburger Sport-Verein, nella Spagna andalusa a Huelva nel 1889 ecco il Recreation Club mentre, all’altro capo della penisola iberica, nei Paesi Baschi nel 1898 nasceva l’Athletic Club Bilbao, in Italia i britannici arriveranno nel 1893 a Genova creando il “loro” Genoa Cricket and Athletic Club, imbattuto per anni contro le varie rappresentative torinesi, dove in realtà – sotto la Mole – il football era arrivato anche prima, grazie a Edoardo Bosio, un piemontese purosangue, ma – non a caso – pur sempre di ritorno da Nottingham!

L’appellativo con cui vengono indicati in Italia i moderni allenatori di calcio si riferiva all’inglese Mister Garbutt, alla guida del Genoa: la squadra di calcio più british d’Italia.8

Dall’altra parte dell’Atlantico, la prima partita di cui abbiamo notizia la organizzarono in Sudamerica i banchieri inglesi – e fratelli – Thomas e James Hogg, impegnati a promuovere la pratica del football nella capitale dell’Argentina, presso la vasta comunità britannica ivi residente, alla quale appartenevano, che tuttavia preferiva dedicarsi al cricket e al polo. È grazie a loro se nel 1867 sul grande prato del parco di Palermo, presso il più esclusivo circolo del cricket di Buenos Aires, si affronteranno sedici ragazzi, tutti britannici – otto per squadra – suddivisi fra White Caps e Red Caps: lo spettacolo non desterà alcun entusiasmo a dire il vero, ma la strada era segnata. Infatti, nel 1882 arriverà in Argentina dalla Scozia un insegnante, Alexander Watson Hutton, che fonderà la Buenos Aires English High School, allo scopo di mettere in pratica le sue idee riguardo alla corretta educazione dei ragazzi: associare allo studio il football, quale unica attività ricreativa del suo istituto. Dopo qualche tempo – insieme coi suoi studenti nel frattempo cresciuti – creerà nel 1898 l’Alumni Athletic Club, capace di vincere ben dieci campionati nazionali sui quindici disputati, e di imporsi – fino al suo scioglimento – come uno dei club più importanti della storia del calcio argentino. A proposito di anglosajonización, vale la pena registrare che presso l’Asociación del Fútbol Argentino, fondata nel 1893 a Buenos Aires, non era permesso parlare spagnolo!, era l’inglese la sola lingua ufficiale, anche in campo: addirittura il giocatore colpito dall’avversario poteva accettare le sue scuse solo quando fossero “sincere e formulate in inglese corretto” come previsto dal regolamento voluto dal fondatore e primo presidente. Chi?, ma Alexander Watson Hutton, naturalmente: considerato a buon diritto il padre del fútbol argentino!

Sul uno dei tanti prati del grande parco di Palermo sorgeva a Buenos Aires il Cricket Club frequentato dalla comunità britannica, dove per la prima volta in tutto il Sudamerica si giocherà a calcio nel 1867.9

Questo accadeva sulla sponda occidentale del Río de la Plata, mentre su quella orientale nel 1881 si disputava la prima partita di football fra il Rowing Club (del 1874), e il Cricket Club (del 1861), entrambe celebri istituzioni polisportive di Montevideo, ma sarà dieci anni dopo che si inizierà a fare sul serio: il 1º giugno del 1891 gli allievi della English School di Montevideo fonderanno l’Albion Football Club, nomen omen del club più antico fra quelli che si dedicheranno esclusivamente al gioco del calcio, che anche in Uruguay in principio parlava solo inglese. Infatti, pochi mesi dopo, sempre nel 1891, un centinaio fra impiegati e operai della società ferroviaria a capitale britannico, in Uruguay dal 1878, la Central Uruguay Railway, fonderanno il Central Uruguay Railway Cricket Club che pochi anni dopo cambierà denominazione – troppo ostica per gli appassionati di calcio ispanofoni – diventando il Club Atlético Peñarol, in onore dell’omonimo quartiere di Montevideo, il cui toponimo traeva origine dalla cittadina piemontese di Pinerolo. Come in Argentina, anche in Uruguay nei venti anni successivi alla scoperta del football saranno i britannici a diffonderlo – in parallelo con la costruzione e lo sviluppo delle reti ferroviarie in quegli spazi a occidente e a oriente del Rìo de la Plata: Asunción, Córdoba, Paranà, Rosario, Santa Fe o Tandil – nonché gli indiscussi protagonisti dei primi tornei calcistici, finché alcuni intraprendenti amici decideranno di reagire. Così a Montevideo nel 1899 – a sottolineare la vocazione nazionale di quello che sarebbe stato il primo club criollo (creolo, nel senso di autoctono) dell’America Latina – nascerà il Club Nacional de Football, esempio seguito dopo qualche anno anche in Argentina, dove con lo stesso spirito criollo nascerà il fortissimo Racing Club de Avellaneda, El Primer Grande.

Il Nacional sarà il primo club autoctono del Sudamerica, composto da giocatori criollos e da subito fortissimo, acerrimo rivale dell’anglofilo Peñarol: si divideranno Montevideo e l’Uruguay.10

Los británicos non lo ricordano molto volentieri ma dal punto di vista degli elementi del gioco sono proprio gli argentini a segnare negli anni Trenta del secolo scorso un punto di indiscussa importanza a loro favore. Infatti se nessuno può mettere seriamente in discussione il primato degli inglesi a proposito della codificazione e diffusione del football, il pallone “moderno”, la palla come lo conosciamo oggi, non ha visto la luce in Germania, Francia o appunto in Inghilterra, ma in Argentina nella città di Bell Ville, una località immersa nella Pampa, a metà strada fra Córdoba e Rosario. Questa località remota è abitata in virtù della sua funzione strategica – come stazione di posta – a partire dal 1529, quando vi si stabilirono alcuni accompagnatori della spedizione del veneziano Sebastiano Caboto, cosmografo dell’Impero spagnolo diretto in Perù. All’epoca però il villaggio non si chiamava Bell Ville ma Fraile Muerto (Frate Morto, avete capito bene)!, perché – così narra la leggenda – una certa mattina i contadini, appena fuori dall’abitato, si imbatterono nel cadavere di quello che era stato un frate, del quale non si seppe mai il nome né la congregazione, sbranato dal temibile giaguaro andino, il yaguareté, che evidentemente aveva sorpreso il mite religioso all’imbrunire, mentre tornava dai campi armato del solo crocifisso. Sarà niente meno che Domingo Faustino Sarmiento, il presidente della Repubblica argentina – fermatosi alla stazione ferroviaria di Fraile Muerto durante il viaggio verso Córdoba nel 1871, per inaugurare la Primera Exposición Industrial Argentina – a suggerire la modifica di un toponimo così funesto, che diventò così il molto più accattivante Bell Ville, in virtù del cognome di due illustri cittadini: i fratelli scozzesi Anthony Maitland Bell e Robert Anderson Bell, che da qualche anno, dopo aver comprato due grandi fattorie (Árbol Chato e La Escondida) nei dintorni della città, avevano investito le loro risorse con successo iniziando a introdurre nuove tecniche di agricoltura e allevamento moderno, attirando proprio a partire da quegli anni una cospicua immigrazione, specialmente italiana.

Mario Kempes, soprannominato El Matador, uno dei più grandi calciatori di sempre, miglior giocatore e capocannoniere del Mondiale vinto dall’Argentina contro l’Olanda di Cruijff nel 1978, è nato a Bell Ville di cui è il cittadino più illustre.11

Una domenica pomeriggio come tante altre a Bell Ville gli amici Antonio Tossolini e Juan Valbonesi come loro abitudine erano andati allo stadio per sostenere i biancocelesti di casa del Club Atlético Argentino e soprattutto il loro amico Luis Romano Polo, che giocava come centravanti. Il sodalizio cittadino era sotto di un goal, quando a pochi minuti dalla fine, complice una serie di rimpalli, con un rimbalzo irregolare la palla si impennava al centro dell’area offrendo a Polo l’occasione di pareggiare la partita: l’attaccante era solo davanti al portiere avversario. Il pubblico già in piedi per esultare trattenne il respiro, e fece bene perché l’urlo di liberazione che segue ad ogni gol – in tutto il mondo – era destinato a rimare strozzato in gola a tutti e a lasciar spazio alla frustrazione. Polo infatti invece di saltare per colpire di testa il pallone e battere a rete, decise di lasciare che la sfera toccasse terra, permettendo così ai difensori avversari di riguadagnare la posizione impedendogli il controllo della palla e di inquadrare lo specchio della porta obbligandolo a calciare a lato. Ma cosa era successo? Perché Polo aveva rinunciato a proiettandosi verso la palla per colpirla di testa e segnare il goal del pareggio? Era successo che Polo aveva preferito non ferirsi al viso. All’epoca i palloni da calcio erano naturalmente molto diversi da come li vediamo oggi, ma anche da come potremmo immaginarli. La palla infatti era realizzava avvolgendo la camera d’aria – non più lo stomaco di un animale, ma di gomma vulcanizzata, grazie alla scoperte di Charles Goodyear – all’interno di sezioni di pelle bovina, gonfiandola poi iniettando dell’aria attraverso una cannuccia, poi ripiegata all’interno. Solo a quel punto il tutto era rivestito esternamente e chiuso tramite delle stringhe di cuoio, un po’ come si fa quando si allaccia una scarpa! Conseguentemente i palloni non potevano essere perfettamente sferici a causa di quella “cerniera” e del volume sottostante, anzi potevano prodursi un rimbalzo e una traiettoria che in qualche circostanza potevano diventare imprevedibili. Inoltre, non essendo impermeabili i palloni in caso di pioggia o campo fangoso si appesantivano rendendo il controllo a volte molto difficile, mentre colpirli di testa era non solo molto doloroso, ma poteva diventare pericoloso perché il malcapitato poteva ferirsi la fronte a causa del tiento, lo spesso cordoncino di cuoio che serviva da “laccio”, in grado di lacerare la pelle tesa del viso. Ecco perché ogni tanto capita di vedere, nelle vecchie fotografie, i giocatori con la fronte bendata. Non era un vezzo, ma una necessità.

Un pallone con tiento, in particolare di tratta del Modelo T utilizzato durante il secondo tempo della finale del Mondiale 1930 in Uruguay, vinto dai padroni di casa.12

Amareggiato per la sconfitta della sua squadra, Luis Romano Polo, nato nel 1901 dai genitori friulani emigrati da Forni di Sotto, quella sera stessa ebbe un’intuizione e ne discusse i giorni seguenti con gli amici di sempre: Antonio Tossolini, nato nel 1900 da Olivo e Maria Zampa, friulani pure loro, emigrati da Felettano di Tricesimo (il cognome con due s è un errore di trascrizione) e Juan Valbonesi, di origini piemontesi, che nella sua officina fu capace di realizzare l’idea che Polo aveva avuto, applicando una semplice valvola alla camera d’aria inserita nella palla, modificando poi le cuciture interne, così da stabilizzarla e gonfiarla poi attraverso un ago, eliminando definitivamente il tiento e rendendo la palla perfettamente sferica e praticamente impermeabile. Luis Romano Polo l’11 marzo e il 20 aprile del 1931 brevettò l’invenzione presso gli uffici competenti e a quel punto i tre amici divennero anche soci in affari, tramite la Tossolini, Polo, Valbonesi & Cie. produttrice e distributrice unica del Superball: cambiando la loro vita professionale e soprattutto la pratica di tutti i futuri giocatori di calcio. A proposito, la prima partita giocata con il Superball – un vero e proprio collaudo – sarà quella fra i colleghi dell’azienda dove Polo era operaio, mentre l’esordio ufficiale avverrà con il clásico di Bell Ville – fra l’Argentino e il Bell – giocato il 24 maggio del 1931. Il successivo 17 giugno il Superball sarà utilizzato nella partita fra Club Atlético Belgrano e Newell’s Old Boys de Rosario, prologo alla consacrazione del pallone “moderno”: il 5 settembre infatti lo useranno a La Bombonera i padroni di casa del Boca Juniors e i loro avversari di giornata dell’Estudiantes de La Plata. Nel frattempo la Federazione Italiana Giuoco Calcio ordinerà attraverso l’Ente centrale di approvvigionamento sportivo una dozzina di Superball per valutarne l’impiego nei Mondiali che organizzerà (e vincerà) nel 1934, dove in effetti si giocherà con il pallone sin tiento, anche se, invece di Superball, si preferirà chiamarlo “autarchicamente” Federale 102. Oramai comunque il pallone sin tiento si era affermato: nel 1935 verrà adottato dalla Confederação Brasileira de Futebol, che lo utilizzerà anche ai Mondiali di casa del 1950, quelli del Maracanazo, su cui torneremo!, e nel 1937 – finalmente – dall’Asociación del Fútbol Argentino, che di fatto lo utilizzava già da qualche anno. È cosa nota: difficile essere profeti in patria.

Il manifesto pubblicitario del Superball Duplo T, appositamente prodotto in Brasile per il Mondiale di casa del 1950, si riconosce nel disegno la silhouette dello stadio Maracanã.13

Maracanazo, appunto. In portoghese Maracanaço, per la cronaca. Il termine si riferisce alla sconfitta patita contro ogni pronostico del Brasile contro l’Uruguay il 16 luglio del 1950 allo stadio Maracanã di Rio de Janeiro, all’esito della gara decisiva del girone finale della quarta edizione dei Mondiali, che assegnò alla Celeste il suo secondo titolo di campione del mondo, mentre i giocatori brasiliani, umiliati al cospetto di duecentomila connazionali presenti allo stadio e di tutto il Paese, si dovranno accontentare dell’orologio d’oro che la loro federazione aveva consegnato a ciascuno alla vigilia della gara, con incisa la dedica sul retro: Ai campioni del mondo. Invece diventeranno dei reietti dopo la tremenda sconfitta cui seguiranno ben tre giorni di lutto nazionale, e molti drammi personali in tutto il Paese: si tolsero la vita chi per la delusione, chi perché aveva perso tutto scommettendo i propri averi sulla vittoria della Seleção, alla fine sarebbero stati certificati 34 suicidi e 56 morti per arresto cardiaco in tutto il paese. I giornalisti brasiliani descrissero il Maracanazo come a pior tragédia na história do Brasil (la peggiore tragedia nella storia del Brasile) e lo scrittore brasiliano Nelson Rodrigues lo definì Nossa Hiroshima (la nostra Hiroshima).

Il goal di Pepe Schiaffino pareggia, quello successivo – segnato da El Verdugo Ghiggia – condannerà il Brasile alla sconfitta e Barbosa all’emarginazione, una vicenda crudele che ha fatto di una persona degnissima il capro espiatorio di una tragédia, uccidendolo.14

Inoltre la federcalcio decise di cambiare i colori della divisa della Seleção, una maglietta bianca con colletto blu, pantaloncini e calzettoni bianchi, sostituendoli con la casacca Verde e Amarela, che tutti conosciamo. Addirittura, al colmo dell’assurdo, si stabilì di non convocare mai più un portiere di colore, ritenendola una caratteristica di cattivo auspicio, per aver identificato in Moacir Barbosa il principale responsabile della tragédia, mentre era unanimemente considerato il miglior portiere della sua epoca: coraggioso e dotato di senso della posizione. Sfortunatamente per i suoi colori – dopo un rendimento impeccabile, durato tutto lo svolgimento della competizione – Barbosa si fece sorprendere da un tiro di Alcides Ghiggia, aspettandosi un cross anziché la conclusione in porta, che invece fisserà il risultato sul 2-1 in favore dell’Uruguay, condannando il Brasile. L’atleta verrà emarginato e isolato, considerato da tutti uno sciagurato, cadrà in depressione, dichiarando spesso, prima di morire per un attacco cardiaco: “la sentenza più pesante in Brasile è trent’anni, ma la mia prigionia ne è durata cinquanta per un crimine che non ho mai commesso”. Va detto comunque che la fiducia dei brasiliani nella loro vittoria del Mondiale si poggiava – oltre che sul fattore campo – sull’elevato livello tecnico della loro nazionale, divennero poi forti più di certezze che di speranze dopo aver assistito all’eliminazione dell’Inghilterra, che partecipava per la prima volta alla rassegna iridata, ed era arrivata in Brasile come una delle favorite – se non la favorita – al titolo. Infatti, la nazionale inglese allenata dal 1947 da Walter Winterbottom, aveva collezionato ben 22 vittorie sulle 29 partite disputate in preparazione, e che vittorie: 8-2 contro l’Olanda ad Huddersfield, 10-0 contro il Portogallo a Lisbona, 5-2 contro il Belgio a Bruxelles, 6-0 contro la Svizzera a Londra e 4-0 con l’Italia a Torino, contro la formazione campione del mondo in carica, che nella circostanza schierava per gran parte i giocatori del Grande Torino.

The Miracle of Belo Horizonte: il protagonista Joe Gaetjens portato in trionfo dopo aver affondato la corazzata dell’Inghilterra, con un magnifico goal di testa.15

Ebbene, anche gli inglesi avranno il loro Maracanazo nel 1950, passato alla storia come The Miracle of Belo Horizonte. La più grande sorpresa del Mondiale infatti arriverà della fase preliminare, quando i supposti maestri dell’Inghilterra, dopo l’esordio vittorioso contro il Cile, perderanno incredibilmente contro gli Stati Uniti, in quello che è considerato uno dei più grandi upset della storia della competizione e persino del calcio mondiale: i nordamericani infatti erano dei dilettanti e contavano su una squadra formata principalmente da postini, lavapiatti e immigranti, e proprio uno di loro – tale Joe Gaetjens, nato ad Haiti – segnò il goal della vittoria yankee, alla quale molti tifosi inglesi, leggendo i quotidiani l’indomani, non vollero credere, immaginando un refuso di stampa, addirittura il segretario generale Joe Barriskill, alla lettura del telegramma che avvisava la federazione statunitense della vittoria, rimase talmente incredulo che decise di telefonare in Inghilterra alla The Football Association – che non la prese benissimo – per sincerarsi della veridicità della notizia, anche perché addirittura The New York Times si era rifiutato di pubblicare il risultato della partita credendola una fake news. Molti inglesi ritengono quello il momento più scioccante nella storia sportiva dei Lions, tanto che la loro nazionale, che aveva giocato l’incontro indossando una casacca azzurra, non vestirà mai più questo colore.

Eduardo Galeano, giornalista, scrittore e saggista uruguaiano, una delle personalità più autorevoli e stimate della letteratura latinoamericana, mentre sfoglia uno dei suoi capolavori.16

Un esemplare di Superball è esposto come ricordo della storica vittoria contro l’Inghilterra presso la National Soccer Hall of Fame di Oneonta, in prossimità di New York City: il museo, istituito al fine di omaggiare tutti coloro che abbiano contribuito in maniera significativa all’immagine del calcio negli Stati Uniti, come gli atleti che disputarono il mitico campionato NASL – la North American Soccer League – negli anni Settanta del secolo scorso, per esempio Franz Beckenbauer, George Best, Roberto Bettega, Giorgio Chinaglia o Pelé, conserva fra i cimeli, per l’appunto, il pallone sin tiento che agli inglesi andò di traverso, quel 29 giugno del 1950. C’è un libro che qualsiasi appassionato di calcio (e letteratura) metterà sempre nella classifica dei più belli mai scritti attorno al pallone: è El fútbol a sol y sombra di Eduardo Galeano, in italiano Splendori e miserie del gioco del calcio. Lì il grande scrittore e saggista uruguaiano, fra le più autorevoli personalità sudamericane, racconta un aneddoto. Un giornalista chiese alla teologa tedesca Dorothee Solle: “Come spiegherebbe a un bambino che cos’è la felicità?” “Non glielo spiegherei,” rispose, “gli darei un pallone per farlo giocare». Un pallone, appunto.


Immagini digitali e/o fotografie utilizzate:
(1). immagine estratta da internet che riproduce una fotografia dove è ritratto George Orwell, non sono stato capace di risalire all’autore né all’anno, tuttavia è realizzato prima del 1950 e pertanto di pubblico dominio ai sensi delle vigenti norme; (2). immagine estratta da internet che ritrae una fotografia della tribuna e di una porzione del campo di Sandygate Road, realizzata da Neil Theasby, il 10 agosto 2010; (3). immagine estratta dal sito https://www.thesun.co.uk/ dove compare una fotografia che ritrae una formazione dello Sheffield FC, forse prodotta nell’anno 1876 da autore sconosciuto ed evidentemente di pubblico dominio; (4). riproduzione di una fotografia presa sulla pubblica via di un oggetto materiale e priva di carattere creativo, estratta da internet dove non è stato possibile risalire all’autore né all’anno di realizzazione, comunque di pubblico dominio; (5). riproduzione di fotografia estratta dal sito https://it.m.wikipedia.org/ dove non è stato possibile ricavare indicazioni utili circa l’autore e/o la provenienza della foto che tuttavia è dichiarata di pubblico dominio; (6). riproduzione di fotografia estratta dal sito https://it.m.wikipedia.org/ dove non è stato possibile ricavare indicazioni utili circa l’autore e/o la provenienza della foto che tuttavia è dichiarata di pubblico dominio; (7). riproduzione di una fotografia estratta dal sito http://www.calciostoricofiorentino.it/ dove non è stato possibile ricavare indicazioni utili circa l’autore e/o la provenienza della foto che tuttavia sembra di pertinenza del Comune di Firenze; (8). riproduzione di una fotografia di una formazione del Genoa, estratta dal sito https://it.m.wikipedia.org/ dove non è stato possibile ricavare indicazioni utili circa l’autore e/o la provenienza della fotografia che tuttavia è datata 2 marzo 1924 e dichiarata di pubblico dominio; (9). riproduzione di una fotografia della pubblica piazza e di un oggetto materiale, priva di carattere creativo, estratta da internet dove non è stato possibile risalire all’autore né all’anno di realizzazione; (10) riproduzione di una fotografia che ritrae una formazione del Club Nacional de Montevideo, estratta dal sito https://es.m.wikipedia.org/ dove non è stato possibile ricavare indicazioni utili circa l’autore e/o la provenienza della fotografia che tuttavia è datata 10 settembre marzo 1905 e dichiarata di pubblico dominio; (11). riproduzione di una fotografia che ritrae Mario Kempes, estratta dal sito https://es.m.wikipedia.org/ dove non è stato possibile ricavare indicazioni utili circa l’autore della fotografia che tuttavia è datata 25 giugno 1978 e proviene dalla fonte di El Gráfico, dichiarata di pubblico dominio; (12). riproduzione di fotografia di un oggetto materiale e priva di carattere creativo, estratta da internet dove non è stato possibile risalire all’autore né all’anno di realizzazione, comunque di pubblico dominio; (13). riproduzione di fotografia priva di carattere creativo, estratta da internet dove non è stato possibile risalire all’autore né all’anno di realizzazione, comunque anteriore al 1950 e di pubblico dominio; (14). riproduzione di fotografia, estratta da internet all’indirizzo https://amp-ar.marca.com/claro/futbol-internacional/ dove non è stato possibile risalire all’autore, realizzata il 16 luglio 1950 e di pubblico dominio; (15). riproduzione di fotografia, estratta dal sito internet https://fifa.com/worldcup/news/, dove non è stato possibile risalire all’autore, ma la fonte è Getty Images, mentre l’anno di realizzazione il 1950 e quindi di pubblico dominio; (16). riproduzione di fotografia, estratta dal sito internet https://polemon.mx/galeano-y-el-futbol/ dove non è stato possibile risalire all’autore né all’anno di realizzazione, ma la fonte sembrerebbe Marca.

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Il blog? Ho peccato di esibizionismo, però mi andava di ribadirlo: nessuno può cambiare passione, quando si tratta di calcio.

El secreto de sus ojos è un grande film. Una pellicola argentina da vedere (e rivedere) fino a suggerirla a tutte le persone a cui volete bene o delle quali semplicemente apprezzate intelligenza e sensibilità; in Italia è distribuita come Il segreto dei suoi occhi. Il titolo è la traduzione letterale di quello originale, nella nostra lingua. Fortunatamente. In Italia infatti quando si ritiene opportuno tradurre il titolo di un film straniero spesso di sconfina nel ridicolo, a volte nel raccapriccio: per questioni di marketing – ad esempio – Vertigo di Hitchcock diventò La donna che visse due volte; a causa invece di scelte stilistiche difficilmente comprensibili, invece, Domicile conjugal di Truffaut fu trasformato in Non drammatizziamo… è solo una questione di corna.

Questo capolavoro, diretto dal regista Juan José Campanella, che ha vinto l’Oscar nel 2010 premiato come “Miglior film straniero”, propone interpreti magnifici: e fra loro l’elegante Soledad Vilamil, attrice e cantante deliziosa, impegnata nei temi del tango e del folk argentino, che dà vita al personaggio di Irene Menéndez Hastings. In quel periodo mi trovavo proprio a Buenos Aires e così oltre all’opportunità di vedere la pellicola in lingua e nel contesto originale, potevo acquistare Morir de Amor, semplicemente il disco più bello della Vilamil. Anche il film è un contenitore di emozioni: inquietudini nascoste tra le mura di stanze buie e palazzi austeri che intrecciano una storia irrisolta, raccontata per mezzo di sequenze profonde che svelano l’anima dei protagonisti e ci interrogano sulla nostra coscienza. Ad un certo punto della narrazione quando Guillermo Francella, che dà vita al personaggio di Pablo Sandoval, “siempre borracho” (ubriaco) ma “siempre lúcido”, glielo dice chiaro a Benjamín Espósito – il protagonista – interpretato da Ricardo Darín, mentre si trovano in uno di quei bar dove gli amici si incontrano, nella realtà il café Only VI, al 700 del Paseo Colón, declamando: “Te das cuenta, Benjamín? El tipo puede cambiar de todo: de cara, de casa, de familia, de novia, de religión, de Dios. Pero hay una cosa que no puede cambiar, Benjamín: no puede cambiar de pasión”.

La pasión – nel caso di questo film – è quella dell’assassino per la sua squadra del cuore: il Racing Club, el Primer Grande del calcio argentino. Puoi cambiare tutto, afferma Sandoval: la faccia, la famiglia, la fidanzata, la religione, puoi scegliere un altro dio, però una cosa non la puoi cambiare. Non puoi cambiare passione. Eduardo Sacheri lo aveva scritto con cognizione di causa nel romanzo La pregunta de sus ojos – da cui è tratta la sceneggiatura del pluripremiato film – perché appartiene a quella schiatta di scrittori, molti sono argentini, capaci di coniugare la letteratura e lo sport, come Roberto Fontanarrosa, Dante Panzeri, Juan Sasturain e Osvaldo Soriano, e di raggiungere vette altissime, utilizzando il fútbol come una scusa per parlare della vita: dei grandi temi come di quelli, non meno essenziali, della quotidianità. Nadie puede cambiar de pasión. Questa affermazione di Sacheri si associa nei miei ricordi al pensiero di Javier Marías, probabilmente il più importante scrittore spagnolo contemporaneo, grande accademico di Spagna, ammirato dalla critica e dal pubblico per romanzi come Domani nella battaglia pensa a me, Nera schiena del tempo, Tutte le anime, Così inizia il male, Un cuore così bianco, e molti altri capolavori, tutti tradotti e pubblicati in Italia a cura dell’editore Einaudi.

Questo gigante della letteratura mondiale – autentico merengue, per i non addetti ai lavori: si tratta del soprannome degli irriducibili tifosi del Real Madrid – nel suo magistrale Selvaggi e sentimentali, opera imperdibile per leggere di calcio ad un livello più alto, osserva: “la sola cosa che non sembra negoziabile, mentre tutto è soggetto a cambiamento, anche più di uno, dalle abitudini ai gusti letterari, dalla moglie o dal marito al partito politico, è la squadra per cui si tifa”, definendo la Liga – il massimo livello del campionato spagnolo, omologo della nostra Serie A – in un articolo apparso su El País nel 1992, con quello che dovrebbe essere il motto di ogni competizione sportiva: “il recupero settimanale dell’infanzia”. Considerato da molti intellettuali di sinistra alla stregua di un oppiaceo o nella migliore delle ipotesi una distrazione un po’ volgare, personalmente ho sempre trovato poco convincenti le critiche formulate per ragioni ideologiche di chi vuole negare il valore del gioco e il suo fascino nei confronti delle masse, insomma (anche) a me il calcio sembra una magnifica pasión, oltre ad essere, non lo trascurerei perché si tratta di un dato di fatto, l’argomento di discussione più diffuso al mondo.

Certo, nessuno deve dimenticare la partita più seria, quella della vita, al confronto della quale il calcio può essere considerato, al limite, la prima cosa fra tutte le cose meno importanti, come ripeteva Arrigo Sacchi, ma già Enrico Berlinguer, segretario del PCI, in un intervista del 1975 apparsa su Tuttosport, a Gianpaolo Ormezzano che gli chiedeva se è vero che lo sport è responsabile di “ottundere le coscienze, di favorire l’alienazione delle masse”, dando prova di equilibrio e intelligenza rispondeva così: “Non penso che l’operaio, se alla domenica va allo stadio, al lunedì sia meno preparato ad affrontare i problemi del lavoro, le battaglie sindacali. Non voglio dire con questo che la domenica allo stadio giovi alla politicizzazione dell’operaio, ma non spartisco la paura per le conseguenze di questa sua vacanza festiva”. Pier Paolo Pasolini invece non era così distaccato, anzi si era innamorato perdutamente del calcio a Bologna. È qui, durante il liceo, che giocava per ore e ore a pallone con gli amici, con la fortuna poi di assistere dalle tribune dello stadio felsineo alla vittoria di ben quattro scudetti da parte del Bologna FC, “lo squadrone che tremare il mondo fa”, in quegli anni all’apice della propria gloriosa storia.

Grazie alla ricerca appassionata e documentata di Valerio Curcio, che scritto un libro magnifico per Compagnia Editoriale Aliberti: Il calcio secondo Pasolini, è possibile apprezzare le riflessioni di uno dei massimi pensatori contemporanei che nel suo tempo riesce a vivere la contraddizione di intellettuale impegnato che ama uno sport da molti considerato “oppio dei popoli”. Pasolini osservava il calcio dai campetti di periferia fino alla Serie A, sempre con attenzione, considerando la partita allo stadio come l’ultimo rito sacro dell’età contemporanea: “I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sono stati indubbiamente i più belli della mia vita. Mi viene quasi un nodo alla gola, se ci penso”. Albert Camus, un vero e proprio outsider nell’élite intellettuale parigina del primo Novecento, che lo disprezzava, quando vincerà il premio Nobel per la letteratura nel 1957, affermerà che: “le peu de morale que je sais, je l’ai appris sur les terrains de football”; provocazione non solo rivolta a spiazzare critici e interlocutori del gran mondo accademico francese, con cui Camus non andava proprio d’accordo, a lui parlare di calcio piaceva davvero, e piaceva troppo.

Non poteva essere altrimenti. Il ragazzo, cresciuto in Algeria in seno a una poverissima famiglia di Pieds-Noirs, era un eccellente portiere che – fino a quando la tubercolosi non distruggerà in lui ogni ambizione sportiva – aveva trovato la sua “vera università” all’interno dell’area piccola, quella di pertinenza dell’estremo difensore, ed era sincero – Camus – quando diceva a tutti che: “non c’è luogo al mondo in cui l’uomo sia più felice che in uno stadio di calcio”. E se ci fosse bisogno di una conferma, ce la offre l’uomo politico tra i più influenti e popolari dirigenti comunisti mondiali, che guidò il Partito Comunista d’Italia dagli anni ‘20 agli anni ‘60 del secolo scorso, quello che i suoi compagni chiamavano “il Migliore”, a cui i sovietici, che gli concessero la cittadinanza, dedicarono addirittura una città in Unione Sovietica: Togliattigrad. Allora, narrano i bene informati che Palmiro Togliatti ogni lunedì mattina chiedesse a Pietro Secchia, che cosa avesse fatto la Juve il giorno prima; se il malcapitato non aveva la risposta pronta, l’iconico segretario del Partito, usava rimbrottare, rimproverando il più ambizioso e massimalista fra i dirigenti comunisti italiani: “E tu, pretendi di fare la rivoluzione senza sapere i risultati della Juventus?”

Dopo aver evocato tanti intellettuali irraggiungibili, la pretesa di scrivere qualcosa di interessante per il prossimo assume forse i connotati della vanità. Tuttavia, il cantautore (e avvocato) astigiano Paolo Conte, uno che preferisce l’eleganza della scuola magiara, che ha nominato migliore giocatore di sempre non Maradona o Pelé, non Messi o Ronaldo, ma l’ungherese Ferenc Puskás, recita nella splendida canzone “Bartali”, dedicata al grande ciclista toscano: “È tutto un insieme di cose”, riferendosi a una certa situazione emotiva. Ecco la risposta più sincera. Un insieme di cose: esibizionismo, sentimentalismo, e il piacere sottile di divagare saltando di palo in frasca, come si fa con gli amici di sempre, magari in uno dei tanti Bar Sport delle nostre città o dei nostri paesi, luoghi dove si poteva stare insieme per divertirsi e difendere la squadra del cuore, quella che io scelsi per una questione di colori: invece del brillio (entusiasta) rossonero o del signorile (e assai vincente) abbinamento bianconero da bambino mi innamorai dell’ombroso accostamento nerazzurro, protagonista (allora come in seguito) di clamorose disfatte e qualche volta di esaltanti impennate.

Sono troppe le storie di sport da raccontare, meglio se con l’attenzione dello storico e la sensibilità del narratore, e ci sono tante storie di uomini al loro interno, e quindi di altre donne e altri uomini che nell’incrocio con la Storia più grande passano del tempo a discutere, emozionarsi e incitare la loro squadra del cuore o il loro atleta preferito, in una spirale di metanarrazione che i francesi chiamano à colimaçon, come il vortice di una scala a chiocciola, appunto. È così, scoprendone i connotati epici e collettivi, quindi davvero sportivi, che ogni storia diventa una pasión, e si trasforma nell’occasione per guardare a se stessi e al mondo, alla natura umana e al suo sistema, perché, in sintonia con le parole di Javier Marías, e per tornare al calcio: “se perdere o vincere una partita non viene vissuto come un evento cruciale, e con una trama e una storia, con una svolta o una catastrofe, che riguarda il passato, il presente e il futuro, la dignità e il decoro e, naturalmente, la faccia con cui uno si alza l’indomani, allora lasciamo perdere…”

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