Nell’Italia del 1938 Árpád Weisz – allora l’allenatore più vincente della sua epoca, e signorile innovatore del calcio italiano – diventa improvvisamente solo un ebreo. In quella allucinata realtà delle leggi razziali non contano doti e talenti, né ha un valore essersi conquistate con il proprio lavoro stima e popolarità ovunque, vincendo da allenatore uno scudetto con l’Ambrosiana-Inter, ad appena trentaquattro anni, e altri due con il Bologna, “lo squadrone che tremare il mondo fa”, così era nominata la squadra felsinea, dominatrice a Parigi delle squadre danubiane e dei maestri inglesi, sconfitti nel 1937 al Torneo Internazionale dell’Expo Universale, vinto magnificamente dai rossoblu.
In anni in cui gli allenatori dirigono gli allenamenti in giacca e cravatta al centro del campo o dalla tribuna, Weisz è il primo a guidare personalmente i giocatori, indossando pantaloncini e maglietta, provando in allenamento i movimenti della squadra, e applicando quelli che solo molto tempo dopo verranno chiamati “schemi”. È il primo Weisz a introdurre carichi di lavoro appositamente elaborati per ciascun giocatore e a studiare la composizione ideale della dieta degli atleti. La cura maniacale con cui svolge comunque garbatamente il suo lavoro lo porta a non trascurare nessun dettaglio, fino a visionare personalmente gli allenamenti e le partite dei ragazzi del settore giovanile. Nel club nerazzurro di Milano, in questo modo Weisz scoprirà un ragazzino di sedici anni, che farà debuttare in prima squadra l’anno successivo, che nella stagione dello scudetto nerazzurro vincerà, a neanche vent’anni, la classifica dei cannonieri: era Giuseppe Meazza, il Balilla, ancora oggi ricordato come il più grande attaccante italiano di tutti i tempi. Fu l’Inter – contrazione di Internazionale FC – obbligata dal delirio fascista a cambiare denominazione in un più autarchico «Ambrosiana», a vincere appunto nella stagione 1929-1930 il primo campionato a gironeunico nella storia del calcio italiano, sotto la guida dell’allenatore ungherese che a trentaquattro anni è tuttora il più giovane allenatore straniero ad aver mai trionfato in Serie A. Eppure a una certo punto, all’improvviso, non conteranno più le esistenze individuali: succede che si diventa un numero senza importanza, perché altri hanno deciso così sulla base di incredibili presupposti. E tutti, ma proprio tutti, si adegueranno nell’indifferenza generale, senza avvertire il benché minimo disagio. Questo deve rammentarci il Giorno della Memoria – il 27 gennaio – a ricordo di quel giorno del 1945 quando le truppe dell’Armata Rossa, impegnate nell’offensiva in direzione della Germania, liberarono il complesso del Konzentrationslager di Auschwitz il più grande ed efficiente centro di sterminio della Germania nazista.
La vittoria di ben tre campionati – nelle stagioni 1929/30 con l’Ambrosiana-Inter e 1935/36 e 1936/37 con il Bologna – vale un posto nella storia del calcio italiano, posto che invece Weisz non ha mai occupato, essendo stato letteralmente cancellato, pure avendo avuto un ruolo di profondo innovatore, anche sotto il profilo tattico. Il giovane allenatore ungherese era esponente di quella scuola che allora veniva chiamata danubiana e che sarebbe esplosa negli anni a venire ma già si caratterizzava per passaggi precisi e rasoterra in luogo di avventurosi rilanci in verticale che caratterizzavano il gioco di allora. Iscritto pure senza continuità fra i pochi estimatori nel campionato italiano del famoso Sistema, detto comunemente WM, in ragione della disposizione dei giocatori in campo, ma forse ispirato dalla sintesi tattica realizzata da Hugo Meisl con il Wunderteam austriaco, adotta il quadrilatero di centrocampo, avanzando i due mediani e arretrando le due mezzeali, il peso del gioco viene così redistribuito tra tutti e dieci i giocatori, che hanno compiti sia offensivi che difensivi, e si vedono i primi terzini che attaccano. Il Sistema ideato da Herbert Chapman, il leggendario allenatore dell’Arsenal FC – il cui busto in bronzo si trova ancora oggi all’ingresso della nuova casa dei Gunners, l’EmiratesStadium, trasferitovi dal vecchio stadio di Highbury, sempre a Londra -poi si imporrà come il modulo di gioco che farà grande il Torino, raffinato magnificamente da un altro ebreo ungherese, il mitico Ernest Egri Erbstein, anche lui osannato ma duramente colpito dalle prime leggi razziali fasciste emesse a partire dal 1938.
I campi di sterminio, il cui scopo unico o principale è quello di uccidere i prigionieri che vi giungono, e che erano un sottotipo dei campi di concentramento, furono creati dalla Germania nazista durante la seconda guerra mondiale per attivare la cosiddetta “soluzione finale”, che consisteva nell’uccisione di tutti gli ebrei d’Europa, almeno quelli compresi nel perimetro politico-militare del Terzo Reich. Sulla base di un complesso ed efficiente programma organizzativo, i campi di sterminio nazisti causarono la morte di circa tre milioni di ebrei e costituiscono l’unico caso nella storia di una struttura detentiva studiata appositamente, secondo tecniche scientifiche e pianificazione di tipo industriale, per distruggere un’intera popolazione sulla base di concezioni ideologico-razziali; attività di annientamento che rappresentò la fase culminante e più tragica della Shoah. Tuttavia la politica dello sterminio nel Novecento non è terminata lì ad Auschwitz, purtroppo. Sarebbe sufficiente ricordare i KillingFields cambogiani del regime comunista di Pol Pot, che a causa dell’elevata mortalità, delle durissime condizioni di vita e delle finalità con cui fu condotto il genocidio, che non consisteva solo nell’eliminazione di ogni nemico politico ma anche nella riduzione della popolazione cambogiana tramite omicidi di massa, sono ricordati con terrore: famigerato il campo S-21, che oggi è un museo dedicato al genocidio, allora luogo di internamento per i prigionieri politici, dove su 17.000 prigionieri sopravvissero solo 7 persone. Più in generale la triste contabilità del genocidio, inteso come atto disumano commesso con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, conta numerosi esempi oltre all’Olocausto e alla “pulizia” dei Khmer inCambogia, ma annovera, a partire dal Medz Yeghern, il genocidio di quasi due milioni di armeni, che è stato il primo caso moderno di persecuzione sistematica e di sterminio pianificato di un popolo, le storie agghiaccianti dal Ruanda, uno dei più sanguinosi episodi della storia dell’umanità, quando per circa 100 giorni, vennero massacrate sistematicamente almeno un milione di persone, prevalentemente di etnia Tutsi, fino alla Bosnia dove, fra gli altri, il massacro di Srebrenica è stato il genocidio di oltre 8 000 musulmani bosniaci, per la maggioranza ragazzi e uomini, dai 12 ai 77 anni che furono separati dalle donne, apparentemente per essere interrogati dai paramilitari serbi, in realtà per essere uccisi e sepolti in fosse comuni, nel luglio 1995 durante la guerra nei Balcani.
Per non dimenticare mai che all’improvviso diventi solo un ebreo e scompari nell’indifferenza generale è esemplare la storia di quanto successo proprio ad Árpád Weisz. Nessuno fiatò, nemmeno a Bologna, una città di trecentomila abitanti che le imprese della squadra di Weisz avevano reso celebre in tutta Europa, e dove l’ungherese viveva felice con la sua famiglia ed era amato da tutti, apprezzato per il suo tratto umano e non solamente per i successi sportivi. Non fiatò nemmeno Renato Dall’Ara, il presidente del sodalizio rossoblu, un industriale reggiano ben introdotto nel regime fascista, cui ancora oggi è dedicato lo stadio di Bologna. Propio in quello stadio solo dal 2009 verrà posta una targa che ricorda Weisz e la sua famiglia. Allora però, non fiatarono i prestigiosi dirigenti del club, non fiatarono i suoi adorati giocatori, non fiatarono i tifosi che lo avevano idolatrato fino a pochi giorni prima. Non fiatarono i suoi colleghi allenatori, nessuno si scompose, non fiatarono i giornalisti che ne avevano magnificato le gesta e che allora governavano già gli umori delle folle di quello che era già diventato lo sport nazionale per eccellenza. E non fiatarono nemmeno i genitori dei compagni di scuola di suo figlio Roberto, quando improvvisamente non si presentò più a scuola, né fiatarono i suoi vicini di casa. È successo così, a milioni di esseri umani, solo qualche decina di anni fa, e ancora succede ogni giorno, perché il dramma di Auschwitz non è una questione europea, non è nemmeno esclusivamente il simbolo dello sterminio degli ebrei, o esclusivamente degli omosessuali, o dei rom, dei disabili, dei dissidenti politici, ma un ricordo collettivo che trascende ogni appartenenza a minoranze, a stati o a comunità.
Quella del 27 gennaio di ogni anno è la memoria necessaria ad essere umani e coscienti di quale orrore porta l’odio, di quali danni fa la segregazione, di quali atrocità implica la colpevolizzazione della diversità, l’estremismo ideologico, la guerra.
Post Scriptum. È doveroso a conclusione del mio originale contributo segnalare un libro che commuove e indigna, e che va letto tutto d’un fiato. Weisz, per tornare alle riflessioni che ho svolto, non lo conosceva bene nemmeno Enzo Biagi, bolognese autentico e grande tifoso del Bologna. A Matteo Marani ci sono voluti tre anni di scrupolosa ricerca per realizzare questa lettura imperdibile, perché gli pareva di inseguire un fantasma. E ora, giunto alla terza edizione (a cura di Diarkos), questo prezioso libro che si intitola Dallo scudetto ad Auschwitz ha contribuito in maniera determinante alla riscoperta della figura di Árpád Weisz, dopo decenni di oblìo, ed è arricchito di un apparato fotografico all’altezza.
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«A Genova non si può giocare bene al calcio perché c’è la macaia» sosteneva Gianni Brera. Il Gran Lombardo di riva e di golena, di boschi e di sabbioni, come gli piaceva dire, sapeva scrivere in maniera pregiata e rapida. Era un intellettuale prestato al calcio, dicono i suoi estimatori, che grazie alla sua inventiva e padronanza della lingua italiana ha lasciato una profonda impronta sul giornalismo nostrano, coniando numerosi neologismi introdotti e accolti nell’uso del linguaggio, non solo calcistico: centrocampista, contropiede, cursore, disimpegno, goleador, libero (nel senso del difensore senza compiti di marcatura), melina, pretattica, e molto altro. Gianni Brera insomma viene ancora venerato, ma qualche cazzata la scriveva pure lui. Nessuno è perfetto del resto. A Genova infatti a calcio si è sempre giocato tanto e bene, a volte straordinariamente bene, e due club genovesi hanno contribuito a scrivere la storia di questo sport, sodalizi tuttora ai vertici della tradizione sportiva nazionale: i rossoblu del Genoa e i “cugini” blucerchiati della Sampdoria. Il Genoa, tutti lo sanno, fondato nel 1893 dai dagli inglesi residenti in città, è addirittura il club più antico d’Italia (fra quelli ancora esistenti), e la prima dinastia (come amano dire gli americani) fra quelle avvicendatesi nel nostro calcio: il Grifone, questo il rampante simbolo del sodalizio, fu il vincitore del primo campionato italiano nel 1898, aggiudicandosi complessivamente nove volte il campionato nazionale (l’ultimo nel 1924) e una Coppa Italia (nel 1937). La macaia c’era già, naturalmente.
Macaia, dunque. Questa particolare condizione meteorologica si verifica proprio nel golfo ligure quando spira da sud-est il vento caldo di Scirocco, allora il cielo è coperto e il tasso di umidità soffocante. Lo stato d’animo cupo e melanconico che provoca questo fenomeno è celebre sopratutto grazie alla citazione nella canzone Genova per noi del cantautore Paolo Conte, in quel suo onirico verso «macaia, scimmia di luce e di follia, foschia, pesci, Africa, sonno, nausea, fantasia». E chissà se era una giornata macaiosa quel 12 agosto 1946, quando nasceva a Genova il più giovane fra i grandi club d’Italia: la Sampdoria. Questo sodalizio, durante la presidenza di Paolo Mantovani, sarà capace di aggiudicarsi uno scudetto nella stagione 1990/91, 4 volte la Coppa Italia, una Supercoppa italiana e una Coppa delle Coppe, oltre a disputare la finale della Coppa dei Campioni d’Europa nel tempio londinese di Wembley perdendo con un gol di scarto e solo allo spirare dei tempi supplementari, contro i blaugrana del FC Barcelona, per un soffio come si suo dire. Di macaia, forse. Certo quel giorno lo ricordano (poco sportivamente, ma) comprensibilmente anche i supporter genoani (dal 1937 a digiuno di trofei) costretti a subire gli sfottò dei sampdoriani, che li prendono in giro dalla metà degli anni Ottanta ricordando loro che il Genoa vinceva solo ai tempi dei lampioni a gas, del cilindro da frac e dei café-chantant. Provocazioni oltraggiose per i tifosi rossoblu che rispondono con distacco definendo la Sampdoria un club parvenu, vincente solo in virtù dei denari di una proprietà florida comunque non all’altezza della tradizione del Grifone. Non è il rapporto con chi abbiamo vicino che cambia il nostro umore?, soprattutto in uno spazio angusto: ecco perché un derby a Genova conta di più. Anzi, a Genova conta solo il derby, spettacolo impareggiabile di colori e suoni, celebrato dalle tifoserie cittadine che si sfidano dalle opposte gradinate, la Gradinata Nord genoana e la Gradinata Sud sampdoriana, che accendono quella sfida con il loro contributo inimitabile.
Fra quelle metropolitane di Torino (1907), Milano (1909) e Roma (1929) quella di Genova è di gran lunga la stracittadina più giovane, ma non meno carica di tensione da quando (1946) la fusione fra la Sampierdarenese e l’Andrea Doria, conferendo una parte dei rispettivi nomi e i colori sociali di entrambe, opporrà al Genoa una degna rivale per la supremazia cittadina: l’Unione Calcio Sampdoria. Il 3 novembre 1946 si giocherà così il primo derby della Lanterna, al quale assisterà anche il Presidente della Repubblica, Enrico De Nicola, che sarà testimone dalla tribuna dello Stadio Luigi Ferraris gremito, insieme a Sindaco e Arcivescovo, del perentorio successo dei blucerchiati vincitori per 3-0 bissato anche nella stracittadina del girone di ritorno, vinta 3-2: per la prima volta il Genoa perdeva la supremazia cittadina. In precedenza altri club del Genovesato (il capoluogo prima del 1926 andava dalla Lanterna all’insenatura di Vernazzola mentre all’interno non oltre il camposanto di Staglieno), espressioni sportive dell’orgogliosa autonomia dei comuni limitrofi a Genova, si erano sfidati disputandosi il privilegio di affrontare l’allora impareggiabile Grifone rossoblu, che negli anni Venti si imponeva sulla scena nazionale piegando le altre grandi squadre dell’epoca, l’Ambrosiana-Inter, la Juventus, il Milan, la Pro Vercelli e il Torino. Il Genoa (che aveva sfiorato il titolo anche nelle edizioni precedenti, avendone già 7 in bacheca) sarà campione d’Italia imbattuto nel 1922/23 e quasi imbattuto nel 1923/24, cedendo poi il titolo del 1924/25 solo al Bologna che tremare il mondo fa ( e solo alla quinta partita di spareggio, in un clima ostile e fra le pistolettate intimidatorie dei fascisti felsinei).
Il Genoa non raggiungerà più il decimo titolo e la tanto agognata stella, arrivando dietro di un soffio al Toro del trio delle meraviglie, composto da Adolfo Baloncieri, Julio Libonatti e Gino Rossetti, all’Ambrosiana-Inter del Balilla Giuseppe Meazza, e alla Juventus di Edoardo Agnelli che sarebbe poi diventata quella fortissima del quinquennio d’oro, ossatura della Nazionale azzurra di Vittorio Pozzo, campione del Mondo nel 1934 e nel 1938 e campione olimpico nel 1936. I rossoblu degli anni Venti erano in effetti una squadra fortissima: sotto la guida autorevole e sicura di mister William Garbutt, il primo allenatore professionista del nostro calcio, schieravano giocatori di livello superiore come il portiere Giovanni De Prà, all’epoca il migliore dell’Europa continentale, l’infaticabile e insuperabile difensore Ottavio Barbieri, l’incontenibile centravanti Felice Levratto soprannominato lo Sfondareti per la sua potenza e il grande Renzo De Vecchi, terzino ineguagliabile, capitano del Genoa e della Nazionale chiamato il Figlio di Dio, che è tutto dire. Il confronto con quella squadra era improponibile ma doveva essere uno stimolo a migliorarsi: la “cittadina” Andrea Doria di Franz Francesco Calì e la “proletaria” Sampierdarenese di testa di bronzo Ercole Carzino, entrambi pure giocatori della Nazionale italiana. La Società Ginnastica Andrea Doria è un sodalizio sportivo nato in una sala della Scuola Svizzera di Genova e intitolato al principe, condottiero e ammiraglio ligure, fondato il 5 settembre 1895 da alcuni atleti fuoriusciti dalla più antica Società Ginnastica Ligure Cristoforo Colombo.
Era dedicato alle sole competizioni ginniche, ma ben presto gli atleti doriani iniziarono a cimentarsi in altri sport improvvisando qualche partita di calcio. Impossibile resistere: organizzeranno la Sezione Calcio nel 1900, adottando una maglia a quarti bianco e blu, esordendo (e perdendo) in campionato il 9 marzo 1902 contro il Genoa, che quell’anno vincerà il suo quarto campionato nazionale. In quegli anni pionieristici il più importante calciatore doriano sarà il carismatico svizzero-siciliano Francesco Calì, consacrato il 15 maggio 1910 niente meno che primo capitano della Nazionale italiana. Sotto la sua supervisione, l’Andrea Doria, sbaragliando squadre come Hellas Verona, Milan, Pro Vercelli e Udinese riuscirà ad aggiudicarsi per ben 4 volte (nel 1902, 1910, 1912 e nel 1913) i campionati nazionali organizzati dalla Federazione Ginnastica Nazionale Italiana (FGNI), che si giocavano in contemporanea ai tornei organizzati da quella che diventerà poi la Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC) dove era il Genoa invece a fare la parte del leone. L’Andrea Doria vincerà anche la prestigiosa Palla Henri Dapples, un trofeo calcistico per squadre di club conquistato l’11 dicembre 1904 vincendo contro il Genoa, campione d’Italia in carica. Oltre a Franz Calì, tra i giocatori più famosi che vestirono la maglia doriana si ricordano Aristodemo Santamaria e Enrico Sardi che successivamente avrebbero indossato la casacca del Genoa, prima scontando un anno di squalifica per l’accusa di professionismo, all’epoca vietato. Era successo che il presidente del Genoa, lo scozzese Geo Davidson, gli aveva proposto di giocare per i rossoblu promettendogli un compenso di 3 000 lire. I due atleti, denunciati dal cassiere della banca (che era socio dell’Andrea Doria) dove si trovavano per incassare l’assegno, saranno condannati a due anni, ridotti in seguito a uno, e al pagamento di 1 000 lire di multa, mentre il Genoa all’assemblea generale della Federazione tenutasi a Vercelli rischiò la radiazione ma alla fine se la cavò con un’ammonizione.
Cajenna, era soprannominato il campo dove l’Andrea Doria giocava fin dal 1902. Si trovava a Marassi, proprio nello spazio che oggi separa il campo sportivo dalle carceri genovesi dove si trova la Gradinata Nord, sede del tifo genoano più acceso. Data le ridotte dimensioni dell’isolato, ai margini di quello che era un galoppatoio, la Cajenna non aveva tribune e gli spettatori per assistere alla partita si allineavano tutti ai margini del terreno di gioco, incitando la loro squadra trattenuti da una semplice corda per non entrare in campo. Per gli atleti avversari era un supplizio e per questo il pensiero correva al capoluogo della Guyana francese, la città di Cajenna appunto, sede del famigerato bagno penale che ospitò, fra gli altri, anche il capitano Alfred Dreyfus, il militare francese ebreo ingiustamente accusato di alto tradimento. Lo stadio del Genoa invece nasce nel 1910, quando il presidente del Grifone accetta la proposta del marchese Musso Piantelli di costruire un campo da calcio all’interno del galoppatoio situato nel terreno di sua proprietà nel complesso della Villa Centurione Musso Piantelli, residenza cinquecentesca tuttora esistente a ridosso dell’ingresso carrabile per i pullman delle squadre allo stadio Luigi Ferraris. Il 22 gennaio 1911 in occasione della partita tra il Genoa e l’Inter campione d’Italia lo stadio sarà ufficialmente inaugurato con il nome di Campo di Via del Piano, adiacente alla più antica Cajenna. I due campi da gioco erano separati semplicemente da uno steccato e il Genoa riceveva dai “cugini” doriani 1.000 lire di indennizzo più 200 lire annuali per la manutenzione di quello che alla fine era praticamente un unico prato.
Nel 1926 la politica sportiva si allineava alle intenzioni del regime fascista e per volontà dei gerarchi genovesi la Cajenna era dichiarata inagibile, al fine di penalizzare l’Andrea Doria privandola del “suo” campo di gioco e quindi dell’unica fonte di ricavi, per avere respinto a suo tempo una proposta di fusione nel Genoa e suggerendo così in futuro attenzione ai desiderata delle autorità sportive, che miravano a ridurre a due le squadre nella grandi città. Il Genoa colse l’occasione e con il favore delle autorità fasciste propose un indennizzo alla rivale biancoblu nel frattempo finanziariamente in affanno, versandole la somma di 20.000 ed entrando in possesso del terreno. Sul prato che ero stato la Cajenna il Genoa decise di costruire una nuova tribuna situata a nord del campo. Nel giorno di Capodanno del 1933, quando ebbe luogo la cerimonia di intitolazione dello stadio a Luigi Ferraris, giocatore rossoblu caduto nella Grande Guerra, venne sotterrata la sua medaglia d’argento al valore militare in prossimità della porta di gioco situata sotto la Gradinata Nord di uno degli stadi più moderni e funzionali d’Italia, esattamente nel luogo dove una volta giocavano i rivali doriani. Nell’estate del 1927, all’interno del perimetro delle disposizioni federali in tema di calcio (coerenti con il progetto amministrativo fascista della Grande Genova, che nel 1926 sciolse nel capoluogo, tra gli altri, i comuni di Bolzaneto, Cornigliano Ligure, Nervi, Pegli, Sampierdarena, Sestri Ponente, Rivarolo Ligure e Voltri) le squadre dell’Andrea Doria e della Sampierdarenese confluirono in un nuovo progetto: La Dominante, formazione che nella visione dei gerarchi fascisti (richiamando l’appellativo dell’antica repubblica marinara che dominava il Mediterraneo) si poneva come emanazione della nuova Grande Genova, scendendo in campo in maglia nera, colore caro ai fascisti, con bordature verdi mostrando sul petto il grifone rampante abbinato al fascio littorio.
Risultati sportivi deludenti e scarsa partecipazione indussero le autorità sportive a suggerire la fusione della Corniglianese, nella Dominante rinominandola Foot Ball Club Liguria, senza tuttavia ottenere migliore fortuna decidendo così di abbandonare quel progetto sportivo, con il conseguente ritorno nel 1931 dell’Andrea Doria e della Sampierdarenese, coi rispettivi colori sociali. La squadra di Sampierdarena nel 1937 dovrà poi assumere la denominazione di Associazione Calcio Liguria, allo scopo di permettere il sostegno dell’industria locale a un progetto ambizioso cui in effetti seguirono risultati sportivi significativi fino al raggiungimento della 6ª posizione in serie A, fra l’entusiasmo crescente e un vasto seguito popolare, anche grazie al nuovo campo sportivo a Cornigliano. Andrea Doria e Liguria continuarono separatamente le loro attività fino al fatidico 12 agosto 1946 quando l’operaia Sampierdarenese, riavuto il vecchio nome, e la borghese Andrea Doria sancirono volontariamente la loro definitiva fusione, che questa volta andrà a buon fine, scegliendo Piero Sanguineti primo presidente e tessera numero 1 del nuovo club, che vedrà la luce nello studio del notaio Bruzzone in Galleria Mazzini, l’elegante camminamento nel centro di Genova, in prossimità dell’austera piazza De Ferrari. Mentre la città – ancora devastata dai bombardamenti della seconda guerra mondiale – era impegnata a ricostruire e risollevarsi. Iniziava così l’avventura sportiva della Sampdoria nonché della sua originale maglia blucerchiata.
Genova durante il conflitto mondiale, per l’importanza strategica del suo porto e delle sue industrie civili e militari, fu chiamata a sopportare numerosi bombardamenti aerei e navali, che le devasteranno. Furono colpiti dagli anglo-americani gli scali ferroviari e gli stabilimenti industriali, nonché tutto il bacino portuale da levante a ponente, che erano obiettivi strategici. Ulteriori danni alle strutture portuali furono arrecati negli ultimi giorni della guerra dalle truppe tedesche in ritirata, che minarono e fecero saltare tratti della grande diga foranea, misero fuori uso i bacini di carenaggio e gli impianti meccanici, disseminarono di mine lo specchio d’acqua portuale e affondarono decine di imbarcazioni di ogni tipo e dimensione. Le bombe alleate non risparmieranno nemmeno il centro abitato, e in particolare la citta antica, provocando migliaia di morti e oltre centomila sfollati fra i genovesi. Le vittime tra la popolazione civile tutto sommato furono contenute, ma solo grazie all’utilizzo delle numerose gallerie-rifugio presenti in città, mentre gravissimi furono i danni materiali alle case di abitazione e al patrimonio artistico cittadino: chiese, conventi, palazzi storici, teatri e ville risultarono colpiti, riportando danni strutturali gravissimi, in alcuni casi fino alla completa distruzione. Le zone cittadine di Piccapietra e del Castello, densamente popolate e fulcro della vita sociale, erano ridotte praticamente a crateri, quasi completamente rase al suolo. Tuttavia immediatamente dopo la Liberazione Genova si riprese con rapidità prodigiosa e già nel 1946, appena rimesso in efficienza il porto, si pensava di dar corso ai lavori di ampliamento verso ovest, dove sorgeranno dinnanzi a Cornigliano e a Sestri Ponente, un grande impianto siderurgico costruito strappando al mare 1 000 000 di m2, il nuovo aeroporto internazionale e il bacino petrolchimico.
Mentre le industrie cittadine erano in ripresa Giuseppe Siri – in quel fatidico 1946 – diventava a soli 40 anni l’arcivescovo di Genova. Il suo carattere deciso, poco incline ai compromessi, e la tenace difesa delle proprie convinzioni divisero spesso l’opinione pubblica, suscitando grandi consensi e forti opposizioni. Ovunque tuttavia era riconosciuta e rispettata la statura intellettuale di questo longevo cardinale che governerà l’arcidiocesi ligure per 41 anni, sarà presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) e parteciperà in quattro occasioni al conclave per l’elezione del papa. A Genova, città cui fu profondamente legato, il cardinale Siri fondò e sostenne numerose organizzazioni assistenziali, pastorali e culturali e fu particolarmente vicino al mondo del lavoro fondando l’Opera dei Cappellani del Lavoro, per portare assistenza pastorale all’interno delle fabbriche. Genova infatti era sempre di più le sue fabbriche, anche per l’avvio di un processo di immigrazione che ne avrebbe mutato profondamente il volto, tramite uno spettacolare incremento della popolazione residente che nel secondo dopoguerra arriverà a sfiorare i 900 000 abitanti. Tuttavia, alla fine e come conseguenza della seconda guerra mondiale l’Italia era letteralmente spezzata in due. Infatti, i combattimenti lungo la cosiddetta Linea Gotica dell’inverno del 1945 avevano gravemente compromesso, spesso distruggendole del tutto, le linee di comunicazione rendendo così molto difficoltosi gli spostamenti fra il nord e il resto della Penisola. In queste condizioni, la FIGC decise di far ripartire il campionato di calcio con una formula che ricordava quella dei campionati precedenti il 1926, nessun girone unico all’italiana quindi.
In pratica la stagione 1945/46 funzionò così: nel Settentrione i club che avrebbero avuto titolo sportivo per iscriversi alla Serie A (della stagione soppressa a causa del conflitto mondiale del 1943/44) si sarebbero affrontati in un girone di andata e ritorno nel campionato dell’Alta Italia, mentre nel Meridione, non essendoci un numero sufficiente di club di vertice si organizzò il campionato del Centro-Sud, ammettendo sia le squadre di Serie A che quelle di Serie B, con il medesimo criterio del titolo sportivo pre-bellico. Al termine dei due campionati le prime quattro classificate di entrambi i raggruppamenti si sarebbero affrontate in un girone unico nazionale con partite di andata e ritorno che avrebbero determinato la vincitrice del campionato e assegnato lo scudetto, che andrà al Grande Torino, al suo terzo titolo, il secondo consecutivo se non si considera il periodo di pausa dovuto al secondo conflitto mondiale. Una citazione a parte meritano però Andrea Doria e Sampierdarenese, che tornavano entrambe a disputare separatamente la massima competizione nazionale. Nel girone dell’Alta Italia, dove si sfidarono tutte le squadre di serie A del Nord, vinto anche quello dal Toro davanti alla Juventus, la Sampierdarenese arrivò 14ª, e quindi ultima (anche se fra le migliori), mentre l’Andrea Doria, che aveva costruito una squadra ambiziosa, si classificò addirittura in 9ª posizione. Tutto ciò era stato possibile perché nel frattempo era successo che lo stesso 25 aprile del 1945, il giorno della Liberazione, in seno alla FIGC si era costituita una commissione straordinaria per l’Alta Italia presieduta su indicazione del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) da Giovanni Mauro, allo scopo di prendere atto delle ingiustizie sportive che il regime aveva generato nel ventennio e rendere ad ogni società la giusta categoria di merito persa, ristabilendo tutti i diritti sportivi violati.
Ed è proprio al commissario straordinario Mauro che dobbiamo il ritorno alle denominazioni di Genoa, Inter e Milan in luogo di Genova 1893, Ambrosiana-Inter e Milano, nonché la soluzione del nodo genovese. Mauro infatti era persuaso a considerare una prevaricazione la nascita del club La Dominante, poi Foot Ball Club Liguria, risultato della fusione imposta alla più quotata e borghese Andrea Doria dalle autorità fasciste a vantaggio della Sampierdarenese, ipoteticamente favorita in quanto espressione della località (di Sampierdarena) dove si era formato il Secondo Fascio più antico d’Italia, dopo quello di Milano fondato da Benito Mussolini. Per l’effetto, come misura antifascista, accolto il reclamo degli ex dirigenti dell’Andrea Doria, il sodalizio biancoblu fu ammesso a partecipare – con il titolo sportivo del 1927 – al Campionato dell’Alta Italia nel 1945/46 dove così bene poi figurerà. La stessa autorizzazione fu concessa dal commissario straordinario Mauro, alla Sampierdarenese, che conserverà il titolo sportivo dell’Associazione Calcio Liguria, a quel punto sciolta. Concluso quindi l’estenuante campionato del 1945/46 la FIGC ritenne possibile tornare nell’edizione 1946/47 alla formula del girone unico di Serie A, ma dovette affrontare non poche discussioni sul titolo a parteciparvi da parte di diversi club che chiedevano il riconoscimento di aspettative basate sui risultati conseguiti nei cosiddetti campionati di guerra, come ad esempio la cosiddetta Coppa Federale vinta dalla squadra dei Vigili del Fuoco de La Spezia (che sconfissero niente meno che il Grande Torino e il forte Venezia), senza ottenere alcun riconoscimento posteriore né la tanto agognata Serie A.
Tramontata l’ipotesi di adottare un formato a 22 squadre, presa in considerazione dalla FIGC allo scopo di accontentare il maggior numero di piazze, si giunse alla decisione di permettere l’iscrizione alla nuova Serie A post-bellica della stagione 1946/47 “solo” a 20 club, ripescando il Bari e la Sampierdarenese, che aveva ereditato il titolo sportivo dell’Associazione Calcio Liguria, mentre l’Andrea Doria avrebbe dovuto ricominciare nella migliore delle ipotesi dalla Serie B, nonostante i brillanti risultati della stagione precedente. A Sampierdarena tuttavia c’era poco da festeggiare, infatti il sodaliziodi casa si trascinava da tempo e senza soluzione di continuità in uno stato di profonda crisi finanziaria, e pur potendo contare su un pubblico affezionato e un sostegno diffuso a corredo del titolo sportivo che le garantiva la partecipazione alla Serie A del 1946/47, non sembrava in condizione di iscriversi al campionato entro il termine previsto, non avendo in cassa il necessario quattrino. Si trovava nella situazione opposta l’Andrea Doria, la dirigenza del club doriano infatti era tradizionalmente accorta e attenta nella gestione, sostenuto da alcune famiglie della ricchissima borghesia cittadina, come i Rissotto, il club si era radicato nell’elegante quartiere cittadino di Carignano, e aveva condotto un mercato estivo importante, col risultato di rafforzare una rosa già competitiva, che infatti nell’ultimo Campionato dell’Alta Italia era arrivata alle spalle delle grandi squadre metropolitane. Tuttavia ripartire dalla Serie B non avrebbe permesso ai biancoblu, un sodalizio prestigioso ma con un seguito popolare molto ridotto e senza uno stadio “di casa”, di far quadrare i conti, imponendo lo smantellamento della squadra. Era il tempo di assumere decisioni impegnative e d’individuare soluzioni creative.
Fu così che i soci dell’Andrea Doria e la Sampierdarenese iniziarono a parlarsi e i dirigenti si misero al lavoro per trovare una soluzione, tratteggiando un accordo in grado di soddisfare le comuni aspettative superando ogni dualismo in vista dell’imminente campionato di calcio di Serie A. La fama che gli abitanti di Genova si guadagnarono fin dal Medioevo, è testimoniata da un antico proverbio latino: Genuensis, ergo mercator, un detto che sintetizza alla perfezione quel mercanteggiare così famoso nel mondo, sul quale i genovesi basarono il proprio impero coloniale. In nome del rischio del fallimento in un caso e dell’anonimato nell’altro i due club – fino al giorno prima acerrimi rivali – trovarono un’intesa soddisfacente: l’unione avrebbe fatto la forza. Adesso però occorreva mettere i patti nero su bianco e prendere alcune decisioni dirimenti: a cominciare dal nome del nuovo sodalizio, da comunicare alla FIGC iscrivendolo per tempo al campionato. I doriani in virtù del conferimento dei capitali necessari a investire e alla dote di ottimi giocatori come Giuseppe Baldini e Adriano Bassetto – che formeranno il leggendario attacco atomico, in grado di proiettarli in Nazionale – pretendevano di anteporre Doria nel nome del neonato club, ma “Doria-Samp” non piacque ai sampierdarenesi che, pur avendo perso il sorteggio dedicato, si indispettirono e decisero di non transigere. Alla fine, forti della proprietà del titolo sportivo, i ponentini vollero anteporre la sigla Samp, che nelle loro intenzioni legava idealmente il club alla loro delegazione, che era stato comune autonomo e dal 1865 elevato a città del Regno. Sampierdarena, anticamente un minuscolo borgo di pescatori e agricoltori, derivava infatti il suo nome dalla piccola chiesa di San Pietro dell’Arena, che lambiva il mare circondata da poche povere case, era diventata imposta uno dei luoghi di villeggiatura più celebri d’Europa, trasformandosi nella cosiddetta Manchester d’Italia per la straordinaria concentrazione e il successo industriale della sua economia. I sampierdarenesi desideravano fortemente rivendicare il loro prestigio anche attraverso la Sampdoria, così la pensavano dalle parti del Bar Roma di Piazza Vittorio Veneto.
Secondo la tradizione, l’equipaggio della nave che per ordine del re longobardo Liutprando nel 725 trasportava i resti mortali di Sant’Agostino dalla Sardegna per trasferirli a Pavia, toccata terra sulla spiaggia sampierdarenese, decise di ricoverare le reliquie del santo in una cella nella chiesetta del borgo, in attesa di riprendere il viaggio a piedi verso la capitale longobarda. Con la costruzione ordinata nel XII secolo dalla potente famiglia genovese dei D’Oria della nuova chiesa di Santa Maria della Cella, l’antica chiesetta sarà soffocata dallo sviluppo delle costruzioni del complesso monastico sortole via via attorno (e rivedrà la luce solo a causa delle bombe cadute nel 1944 che diraderanno diverse costruzioni). Proprio a partire dalla fine del XII secolo, alla tradizionale attività della pesca si affiancò la cantieristica navale che raggiunse un alto livello di specializzazione nella costruzione di galee per la repubblica genovese poi impiegate nelle crociate dell’epoca, offrendo un primo grande impulso allo sviluppo dell’economia di quel borgo che godeva di una posizione incantevole. Non a caso dal Cinquecento alla fine del Settecento l’area di Sampierdarena divenne una prestigiosa residenza suburbana per le ricche famiglie patrizie genovesi, e uno fra i luoghi di villeggiatura più conosciuti d’Europa. All’epoca sul principale asse viario del borgo, sorsero sontuosi palazzi che suscitarono l’ammirazione di illustri viaggiatori, in particolare la Villa Imperiale Scassi, detta “la Bellezza” per il fasto della sua struttura architettonica e dei suoi interni e per lo scenografico parco che risaliva fin quasi al culmine del colle di Promontorio, la Villa Grimaldi, detta “la Fortezza” a motivo della sua massiccia e severa struttura, con pochi decori esterni, e di aspetto monumentale e la Villa Lercari Sauli, detta “laSemplicità” per la linearità delle sue forme che con semplici arcate e colonnine conferivano all’edificio una perfetta armonia.
Queste antiche dimore nobiliari formano il gruppo delle ville cinquecentesche noto come “triade alessiana” perché costruite secondo i dettami architettonici dal celebre architetto perugino, traendo spunto dalla magnifica Villa Giustiniani Cambiaso di Albaro concepita e disegnata proprio da Galeazzo Alessi. Era successo che del XVI secolo, con il consolidarsi della ricchezza in città, gli appartenenti alle famiglie dell’oligarchia che governava la repubblica, iniziarono a far costruire grandi palazzi di villeggiatura nei dintorni di Genova, chiamando a progettarli i migliori architetti dell’epoca. Addirittura l’Alessi concepì e introdusse a Genova un modello architettonico innovativo: il cosiddetto cubo alessiano. Si trattava di un edificio compatto, a base quadrata e senza corte interna ma con un ampio salone al centro del piano nobile, la copertura piramidale e alte logge aperte nel prospetto principale o nella facciata posteriore, che determinavano un nuovo rapporto con lo spazio esterno. Il cubo diveniva elemento dominante nel paesaggio genovese, sorgendo principalmente sulla collina di Albaro e a Sampierdarena, località prossime alla città, ma anche nei centri rivieraschi più vicini, a levante da Quarto a Nervi e a ponente da Cornigliano a Voltri e nelle valli del Polcevera e del Bisagno che erano i siti di villeggiatura preferiti dai genovesi più abbienti, che qui avevano casa e che d’estate erano usi appunto a recarsi in villa per trascorrere la stagione calda. Inizialmente legate a fondi agricoli, nel tempo molte di esse sono state trasformate in vere e proprie dimore nobiliari di altissimo pregio, arricchite da preziose opere d’arte e da parchi e giardini curatissimi.
Con la fine dell’indipendenza di Genova che di fatto passava sotto il controllo della Francia, in una città assediata e affamata dagli austriaci e bombardata dagli inglesi e poi ripresa dai francesi, Sampierdarena perdeva molto del suo prestigio. Infatti, durante l’occupazione napoleonica, molte ville a ponente di Genova vennero trasformate in depositi, ospedali o presidi militari, subendo un inevitabile degrado. Con la caduta dell’imperatore corso, e il successivo Congresso di Vienna, Genova riconquistò un’effimera indipendenza, durata meno di un anno, prima dell’annessione della Liguria intera al Regno di Sardegna governato dai Savoia che a quel punto però su Genova investiranno molto. Nel 1853 infatti per volontà del governo sabaudo, che ne finanziò interamente la costruzione, veniva realizzata la ferrovia Torino-Genova, per collegare la capitale del Regno al “suo” porto, attraverso la realizzazione di un’opera che costituì un avvenimento di importanza eccezionale ed ebbe risonanza anche al di fuori dei confini italiani. Per attraversare l’appenino fu infatti costruita la Galleria dei Giovi, un traforo di 3 254 metri all’epoca il più lungo d’Italia. Sampierdarena sarebbe stata attraversata da un lungo viadotto ad archi lungo l’intero abitato da Ponente a levante, in una posizione intermedia tra i due assi viari, interessando l’area già occupata dai giardini delle ville patrizie. Pochi anni dopo, parallelamente alla ferrovia veniva realizzato un nuovo asse stradale (l’odierna via Giacomo Buranello), che divenne il nuovo centro commerciale del borgo, determinando lo spostamento a monte del centro urbano.
L’apertura di nuove strade e della linea ferroviaria sia passeggeri che merci ponevano le premesse per il definitivo sviluppo industriale della zona e il previsto incremento dei traffici portuali giustificava un progetto di straordinario ampliamento del porto commerciale, che sarà presentato la prima volta nel 1874, quando Sampierdarena contava già numerose aziende manifatturiere tessili, corderie, oleifici, saponifici e zuccherifici, ma arrivarono e si erano insediate le prime industrie legate alla lavorazione del ferro. La prima era stata la fonderia dei fratelli Joseph-Marie e Jean Balleydier insediatasi nel 1832 alla Coscia, lì dove era più comodo l’approvvigionamento delle materie prime, che all’epoca provenivano quasi esclusivamente via mare dall’isola d’Elba. Pochi anni dopo, nel 1846 era stata la volta della grande fabbrica meccanica Taylor e Prandi per la costruzione di locomotive e materiale rotabile, insediata nella zona – un tempo conosciuta come i prati dell’Amore – della Fiumara. Il governo sabaudo nel 1853 ne favorirà lo sviluppo incoraggiando una cordata di imprenditori genovesi, formata da Carlo Bombrini, Raffaele Rubattino, Giacomo Filippo Penco e dal giovane ingegnere Giovanni Ansaldo, che ne assunse la direzione legandovi il suo nome, a rilevarla. Nascerà così la Gio. Ansaldo & C., che acquisirà in breve tempo una posizione preminente nel panorama dell’industria metalmeccanica nazionale rendendo Genova una delle capitali industriali d’Italia.
Proprio nella grande fabbrica dell’Ansaldo alla Fiumara venne costruita dall’Ansaldo la prima locomotiva interamente prodotta e assemblata in Italia: la FS 113, chiamata proprio Sampierdarena. Sul piano sociale, a causa della presenza e dello sviluppo incessante delle grandi industrie, la popolazione registrò un incremento vertiginoso, a Sampierdarena arrivarono maestranze specializzate da tutta Italia, mentre sopravvivevano attività tradizionali, come quelle legate alla pesca e alla ristorazione, accanto agli operai salariati. Senza praticamente soluzione di continuità, oltre la zona del Campasso, dove c’erano mulini e alcune industrie tessili, anche la zona di Campi divenne un grande polo industriale. In quegli anni, e in particolare nel 1897, l’imprenditore piemontese Ferdinando Maria Perrone acquistava Il Secolo XIX, il prestigioso quotidiano fondato nel 1886 a Genova. Con tale acquisizione, Perrone intendeva sostenere una politica protezionistica in favore dell’allora giovane industria italiana, scegliendo Luigi Arnaldo Vassallo come direttore. Si trattava di uno dei più autorevoli e importanti giornalisti dell’epoca, con lui il giornale raggiunse le 45 160 copie giornaliere e fu il primo in Italia ad uscire con una foliazione di sei pagine, anziché le tradizionali quattro. Perrone acquisirà così da editore ulteriori conoscenze e competenze, sviluppando le sue notevoli capacità relazionali che gli servirà per arrivare all’inizio del Novecento al vertice dell’Ansaldo.
Orti e frutteti che caratterizzavano il tipico paesaggio agrario genovese erano oramai scomparsi per far posto a capannoni, magazzini e ciminiere. La politica della cosiddetta Sinistra storica di Urbano Rattazzi, Agostino Depretis, Francesco Crispi e Giovanni Giolitti che vedeva proprio nella crescita industriale, sostenuta dallo Stato, le premesse per fare dell’Italia una solida potenza economica a Genova si estrinsecò in particolare nel ponente cittadino. A Campi, tra Sampierdarena e Cornigliano, l’Ansaldo nel 1897 acquisirà un’officina siderurgica, della Società Italiana Delta, e successivamente a partire dal 1902 al 1912 prima Ferdinando Maria Perrone divenuto nel frattempo proprietario dell’Ansaldo e poi i suoi figli amplieranno l’impianto con nuove attrezzature, capannoni e magazzini allargandosi a macchia d’olio su tutto il territorio della bassa Val Polcevera, con il disegno di poter controllare tutti i processi produttivi legati alle trasformazioni del materiale ferroso: dallo scavo del carbone, che avveniva nelle miniere e nello stabilimento di Cogne, alla realizzazione dell’acciaio per la produzione dei prodotti finiti. In essi l’Ansaldo produrrà, nel tempo, dalle locomotive alle automobili, dalle macchine fotografiche alle turbine a vapore, dai proiettili di artiglieria alle strutture necessarie alla realizzazione delle grandi navi da guerra e passeggeri fini a quando non sarà travolta dalla crisi post bellica. Il destino di quella parte di città oramai era nell’acciaio, infatti nel 1934 nascerà con il nome di Società Italiana Acciaierie di Cornigliano (SIAC) un polo industriale con l’obiettivo di raggruppare e razionalizzare tramite l’IRI le attività siderurgiche dell’Ansaldo avviate sin dal 1898 e incentrate negli stabilimenti di Campi.
Il processo di industrializzazione del territorio provoca non solo ma soprattutto a Sampierdarena il rapido incremento della popolazione, già al censimento del 1861 infatti San Pier d’Arena risultava il comune più popoloso dell’area genovese (escluso il capoluogo) con 14 339 abitanti, che risulteranno in costante aumento alle rilevazioni successive: la popolazione conterà 34 084 residenti nel 1901 e 51 977 nel 1921, alla vigilia dell’annessione a Genova e in un tessuto sempre più congestionato. Il flusso migratorio proveniente in particolare dal Meridione, la formazione di un piccolo ceto imprenditoriale legato all’indotto delle grandi industrie e, per la prima volta, l’impiego massivo di manodopera femminile sempre più emancipata, determinarono un forte antagonismo sociale originando le società mutualistiche a difesa dei diritti dei lavoratori: la più antica di queste sarà la Società Operaia di Mutuo Soccorso (SOMS) Universale Giuseppe Mazzini fondata nel 1851, mentre nel 1872 Giovanni Bosco istituirà a Sampierdarena un Oratorio salesiano, ancora oggi noto come Istituto Don Bosco, fra i più articolati e importanti d’Italia. Nel pieno dell’espansione industriale poi un gruppo di cittadini fonderà il 29 luglio 1898 la Pubblica Assistenza (PA) Croce d’Oro, per assicurare il primo soccorso e il trasporto agli ospedali dei malati e delle vittime dei numerosi infortuni sul lavoro, un’associazione benemerita di volontariato, attiva ancora oggi nel primo soccorso e più in generale nel volontariato socio-sanitario. Era nata invece pochi anni prima, il 6 giugno 1891, la Società Ginnastica Comunale Sampierdarenese, fondata su ispirazione di alcuni appassionati della SOMS Universale e di un’associazione ginnica tra numerosi studenti. Il sodalizio si aprirà presto a molte altre discipline raggiungendo livelli di assoluto prestigio, inviando i suoi atleti addirittura alle Olimpiadi. Naturalmente si arriverà anche alla pratica del calcio, dedicandogli una apposita sezione, costituita il 19 marzo 1899 fra l’entusiasmo generale di tutta Sampierdarena.
Gli appassionati sampierdarenesi di football tireranno i primi calci al pallone al campo delle Fornaci ove, nella zona dell’odierna via Rota, c’era una grande fornace di mattoni e nell’ampio spiazzo andavano ad esercitarsi i primi giocatori della neocostituita Sampierdarenese e poi, qualche anno dopo, i militi della Croce d’Oro. Il Genoa, prima di trasferirsi nel 1897 al campo sportivo di Ponte Carrega, disputava proprio lì vicino i suoi primi incontri nella cosiddetta Piazza d’armi del Campasso. Era un vasto prato incolto di proprietà di due industriali scozzesi, che lo avevano concesso al Genoa e così permisero in futuro alla Sampierdarenese di utilizzarlo, tale John Wilson e tale Alexander Maclaren, e si estendeva dall’argine del torrente Polcevera al Belvedere. Il nome della zona – il Campaccio – aveva una connotazione dispregiativa e descriveva una zona allora poco abitata dove, anche quando ne erano sorte ovunque non venne mai costruita alcuna villa nobiliare, a motivo di un ambiente ritenuto insalubre e acquitrinoso percorso dai ruscelli che discendevano dalla collina di Belvedere e sferzato del vento che lì soffia irruento in tutte le sue direzioni: la tramontana, il grecale, il maestrale, il libeccio e lo scirocco. La Piazza d’armi sarebbe stata poi completamente coperta, quindi tagliata verticalmente dalla ferrovia, occupata dal parco ferroviario e da altre fabbriche, ed infine da case (per ultime, quelle dei ferrovieri). Intanto nel 1900 la Sampierdarenese disputerà le eliminatorie per partecipare al suo primo campionato nazionale, ma sulla sua strada troverà niente meno che il Genoa, detentore del titolo, che le infliggerà una lezione molto severa: la partita terminerà con la vittoria per 7-0 dei genoani, e la Sampierdarenese da allora non risulta aver disputato alcun campionato fra il 1901 e il 1915, anno di inizio della Grande Guerra, mentre la sezione calcio della polisportiva di era comunque organizzata nel 1911 un club autonomo.
Era da poco terminata la prima guerra mondiale quando a causa di una crisi finanziaria l’Associazione del Calcio Ligure – vivace realtà valpolceverina in cui erano confluite l’Enotria di Bolzaneto e l’Itala di Rivaloro Ligure – rinunciava a continuare la propria attività sportiva e confluiva nella Sampierdarena conferendole in dote diversi giocatori, fra loro il futuro capitano Ercole Carzino, i suoi colori sociali, in onore ai quali la Sampierdarenese ritenne doveroso aggiungere la banda rossa ligure sulle divise da gioco, fino a quel momento bianconerocerchiate, e soprattutto il titolo sportivo che permetterà al club di Sampierdarena l’iscrizione alla Prima Categoria. Si può perciò affermare che il rosso, dei quattro colori tradizionali dell’odierna Sampdoria, sia derivato non direttamente dalla Sampierdarenese, ma dall’antico club Ligure e ancor prima dall’Enotria di Bolzaneto e dall’Itala di Rivarolo. La Sampierdarenese nel 1919 si trasferirà nello Stadio di Villa Scassi, un impianto sportivo ricavato nel parco a monte della cinquecentesca villa Imperiale Scassi, detta La Bellezza. La struttura poteva ospitare sulle tribune in legno 5 000 spettatori stipati come in una scatola: proprio a scàtoa de pìloe diventerà il soprannome con cui i sampierdarenesi inizieranno a chiamare affettuosamente il loro fortino, teatro di un primo periodo di grandi soddisfazioni per la Sampierdarenese. Inaugurato con un derby vinto 4-1 contro l’Andrea Doria, in quegli anni allo Stadio di Villa Scassi scenderanno squadre importanti e per nessuna sarà mai semplice, cadrà una volta anche la Juventus, mentre verranno sconfitte in più di un’occasione tutte le squadre più accreditate dell’epoca: i grigi dell’Alessandria, i nerostellati del Casale, il Genoa, l’Inter, il Milan, la Pro Vercelli e il Torino, con la Sampierdarenese protagonista di alcune apparizioni nella massima serie nazionale, con l’exploit del 1922 quando addirittura dopo aver eliminato la SPAL di Ferrara in semifinale, raggiungerà la finale del campionato di Prima Categoria organizzato dalla FIGC, pareggiando a Sampierdarena e a Novi Ligure, perdendo poi lo spareggio sul campo neutro di Cremona contro la Novese, che si laureerà Campione d’Italia.
Simbolo di quell’indomita Sampierdarenese era propio il suo capitanoErcole Carzino, un figlio del suo tempo, nato proprio a Sampierdarena dove la sua famiglia si era trasferita dal Monferrato in cerca di lavoro. Il padre era un socio della SOMS Universale, e avvierà tutti i figli verso la pratica del calcio. Ercole era un mancino, giocatore combattivo, addirittura rude quanto di inesauribile energia, che giocò principalmente come mediano, in grado di galvanizzare i compagni di squadra e particolarmente abile nel gioco di testa, tanto da venir soprannominato testa di bronzo. Carzino vestì anche la maglia azzurra, giocando la sua unica partita ufficiale in Nazionale il 6 novembre 1921 contro la Svizzera. Quella Sampierdarenese bene allenata dall’austriaco Karl Rumbold si fece conoscere e apprezzare, ospiterà allo stadio di Villa Scassi il TSVMünchen 1860, l’Olimpique Marsiglia, il Borussia Dortmund che in tournée per l’Italia vollero affrontarla, mentre l’anno successivo – prima fra le squadre italiane – sarà invitata al prestigioso Torneo Internazionale di San Sebastián, famosa in località basca, gemellata con Biarritz, di villeggiatura internazionale, dove si farà onore affrontando e vincendo la semifinale contro gli indiscussi campioni belgi dell’epoca, il Royale Union Saint-Gilloise, perdendo in finale solo coi padroni di casa della Real Sociedad di San Sebastián. La Sampierdarenese si toglierà anche la soddisfazione di alzare al cielo la Coppa Cesare Alberti, un torneo calcistico a cui prendevano parte le squadre di Genova, vinto sconfiggendo proprio il Genoa che la coppa l’aveva messa in palio. Poco dopo sarebbe intervenuto lo scioglimento disposto dalle autorità sportive fasciste per dare vita a La Dominante, abbandonando il campo di casa che verrà demolito nel 1928 per fare spazio all’apertura dell’attuale via Antonio Cantore.
E infatti, dopo la poco felice parentesi della Dominante e del FBC Liguria, la Sampierdarenese, continuerà a giocare allo Stadio del Littorio di Cornigliano, un impianto all’inglese dedicato esclusivamente al gioco del calcio, che poteva contenere fino a 15 000 spettatori (e nei caldi mesi estivi, trovandosi in riva al mare, era sede di spettacoli operistici). Il club manterrà tuttavia la storica casacca biancocerchiata di rossonero e sarà protagonista di una scalata avvincente, partita dalla terza serie nella stagione 1931-1932, quando sotto la guida del grandissimo allenatore austriaco Hermann Felsner, già due volte campione d’Italia con lo straordinario Bologna che tremare il mondo fa, otterrà l’immediata promozione in Serie B. Nella stagione 1933-1934 arriverà poi la storica promozione in Serie A, dopo un campionato estenuante giocato a 26 squadre, fino all’ultimo atto di uno spareggio contro il Bari, giocato sul campo neutro di Bologna che la Sampierdarenese affronterà in tenuta verde: una muta di maglie donata dal presidente del Bologna Renato Dall’Ara, visto che entrambe le squadre si erano presentate in divisa bianca. Dopo altri tre campionati nella massima serie, tuttavia, il regime fascista impose al club di assorbire Rivarolese e Corniglianese, nonché assumere la denominazione Associazione Calcistica Liguria, comprendendo Corniglianese e Rivarolese, allo scopo si disse allora di permettere all’Ansaldo di sostenere un sodalizio non più espressione di un solo quartiere, sia pure importante, ma dell’intera città pur consentendo di mantenere i colori della Sampierdarenese, a rimarcare la continuità fra i due sodalizi.
Quella squadra era stata affidata al piemontese Adolfo Baloncieri, campione d’Italia dieci anni prima in campo col Torino del trio delle meraviglie, e considerato unanimemente tra i più grandi calciatori d’ogni epoca, al pari di Giuseppe Meazza e Valentino Mazzola. Approdato al Liguria nel 1937, ottenne importanti risultati nella stagione 1938/39 quando la squadra fu artefice di un campionato al vertice e duellò per il titolo col Bologna prima di declinare nel girone di ritorno, chiudendo il campionato al sesto posto, un piazzamento al di là di ogni previsione iniziale, che lo rese il tecnico del momento, portandolo a Napoli in polemica con la dirigenza del club ligure a causa di un dissidio legato alla cessione di un giocatore. Tornò dunque dopo due stagioni al Liguria che nel frattempo era retrocessa, in tempo per vincere il campionato di Serie B, dopo un inizio stentato, con un fenomenale girone di ritorno e risalire così in massima serie, e l’anno dopo una tranquilla salvezza in Serie A con un onorevole 11º posto. Il teatro di quelle gesta sportive sarà danneggiato dagli eventi bellici in arrivo, così lo Stadio del Littorio sarà parzialmente recuperato ed utilizzato come campo di allenamento dalla Sampdoria nei primi anni di attività, e intitolato nel 1950 al portiere del Grande Torino, il ligure Valerio Bacigalupo, per essere poi definitivamente demolito nel 1958 sul sito che tristemente poi ospiterà la rimessa degli autobus dell’azienda di trasporto pubblico genovese.
Ma torniamo all’estate del 1946. Il nome della nuova formazione si faceva attendere e stilata la lista delle 20 partecipanti al nuovo campionato a girone unico, la FIGC che doveva preparare il calendario inserì la nuova formazione con la sigla provvisoria “Samp” non avendo ricevuto indicazioni diverse tanto che lo stesso statuto del club in copertina e all’articolo 1 si riferirà prudentemente al neocostituito club come Unione Calcio Sampierdarenese-Doria “Sampdoria”, intanto dopo lo scorporo della sezione calcio a seguito della fusione del 12 agosto 1946, la Società Ginnastica Andrea Doria ha proseguito la sua attività di polisportiva mentre un gruppo di ex soci della Sampierdarenese decise di istituire nel giugno dello stesso anno l’Unione Sportiva Dilettantistica Sampierdarenese 1946, una società che da quel momento in avanti mantiene in vita il ricordo del club biancorossonero, senza però rivendicare alcuna continuità storica con esso. Anche la divisa del neonato sodalizio rispecchiò entrambi i rami fondatori, che ne crearono una davvero originale. La casacca della Sampierdarenese, bianca con fascia rossonera – anche se il rosso era in realtà l’eredità del precedente assorbimento, quello dell’Associazione del Calcio Ligure, avvenuto nel 1919, andò a miscelarsi con l’uniforme dell’Andrea Doria, ripartita verticalmente a metà tra bianco e blu. Il risultato finale fu una maglia di un blu intenso attraversata da una particolare fascia colorata, in cui le tinte andavano a combinarsi, nell’ordine, in blu-bianco-rosso-nero-bianco-blu; al centro della citata fascia colorata campeggiava lo scudo di San Giorgio, già sul petto dell’Andrea Doria, segno di appartenenza cittadina trattandosi della bandiera genovese.
Poiché le maglie risultavano a sfondo blu marchiate dal caratteristico anello di fasce disposte in orizzontale, rosso e nero, molto in alto sul petto e listato di bianco, i giocatori sampdoriani sono da sempre chiamati con l’appellativo di blucerchiati. Questa fascia, inizialmente era fissa all’altezza del cuore, ma a partire dai primi anni 1980 ha ciclicamente variato la sua posizione, più in alto o più in basso, per far posto ai marchi degli sponsor. I pantaloncini da gioco della Sampdoria sono generalmente bianchi o più raramente blu, mentre i calzettoni, per anni composti da iconiche righe orizzontali biancoblu sono col tempo diventati prima più spesso blu con risvolti bianchi, poi monocromatici blu o bianchi o intonati alla divisa come i pantaloncini. Un’altra caratteristica singolare era rappresentata dai numeri sulla schiena che erano sovrapposti alle fasce colorate, mentre spesso un colletto a polo con scollo chiuso da bottoni, altrimenti detto all’inglese, dava alle divise una rifinitura spesso rimpianta dai tifosi sampdoriani. Tra i principali simboli sampdoriani c’è poi un’altra peculiarità: il Baciccia, il marinaio che appare nel logo della Sampdoria. Ma chi è davvero questo signore che vediamo raffigurato con una pipa in bocca e la barba folta?
Baciccia è il diminutivo, forse originato dalla pronuncia infantile di Battista, di un nome molto diffuso a Genova, nelle sue diverse varianti: Giovanni Battista, Giovan Battista o Giambattista o anche nella parlata locale Gio Batta. Essendo Genova la città portuale per eccellenza, in termini grafici il Baciccia è stato raffigurato in una silhouette di colore nero con il profilo tipico del marinaio, stilizzato con barba, un caratteristico berretto in testa, la pipa e i capelli spettinati dal vento. Lo si vede all’interno del logo societario che con l’inizio della stagione 1980/81 viene introdotto per la prima volta sopra le maglie blucerchiate, inizialmente sul lato sinistro del petto. Poi, nel corso degli anni, il suo posizionamento è cambiato varie volte, arrivando anche ad essere posizionato sul braccio. Nel capoluogo ligure il diminutivo ha un significato identico di balilla cioè il nomignolo del patriota genovese Giovan Battista Perasso che nel 1746 con il suo “Che l’inse?” dette il via alla rivolta popolare contro le truppe occupanti dell’Impero asburgico, e pure nelle cronache dello scrittore inglese Charles DickensPictures from Italy il Baciccia è identificato e citato: “In consequence of this connection of Saint John with the city, great numbers of the common people are christened Giovanni Baptista, which latter name is pronounced in the Genoese patois Batcheetcha like a sneeze. To hear everybody calling everybody else Batcheetcha, on a Sunday, or festa-day, when there are crowds in the streets, is not a little singular and amusing to a stranger”.
Quattro colori: il blu, il bianco, il rosso e il nero. Ripetuti in sequenza, per creare un’alchimia ipnotica e magica. La maglia della Sampdoria, lo hanno sancito giurie e riviste più o meno accreditate è ritenuta fra le più bella in assoluto, certamente aggiungendole uno stemma inconfondibile possiamo definirla originale. Oltre al soprannome dei suoi giocatori, quello di blucerchiati, proprio in virtù della caratteristica fascia colorata che attraversa orizzontalmente la maglia blu, sono caratteristici altri due storici appellativi, quelli de la Samp e il Doria, nati – uno declinato al femminile e l’altro al maschile – come contrazione della denominazione sociale, ma sono anche evocativi della due radici del club: quella della Sampierdarenese e l’altra dell’Andrea Doria. Meno conosciuto è l’appellattivo più in voga soprattutto nel secondo dopoguerra, agli albori del club e usato soprattutto dalle tifoserie rivali, soprattutto quella del Genoa che lo utilizza tuttora per denigrare i rivali cittadini definendoli “Ciclisti”, perché rimanda alla somiglianza tra la casacca sampdoriana con quelle usate nel mondo del ciclismo, anch’esse in gran parte disegnate con una fascia sul petto. Per sdrammatizzare, occorrerebbe aggiungere che Fausto Coppi, piemontese di nascita e tifoso del Grande Torino, ma genovese d’adozione, per aver vissuto a Sestri Ponente, aveva una spiccata simpatia calcistica proprio per la Sampdoria, lasciandosi immortalare spesso con la maglia blucerchiata, che tutto considerato forse gli ricordava quella iridata di campione del mondo, che rappresenta il Campionissimo meglio di qualsiasi altra.
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La passione e il tifo per la squadra di calcio del Torino, i cui giocatori indossano la casacca granata, dal 2008 è definita in Treccani fra i neologismi: granatismo, sostantivo maschile.
Giusto. Infatti l’identità di una squadra passa anche dalla divisa, anzi nel calcio i due concetti si fondono. È tramite la maglia, la divisa appunto, che si identifica la squadra, il suo colore è un simbolo intimo, che anima il tifoso in ogni città o nazione, e rappresenta la storia, la missione e gli obiettivi di un sodalizio. Proprio la maglia della squadra del cuore permette all’individuo di sentirsi gruppo, e di condividerne con altri il culto, così centrale nel calcio. Allora, veniamo al colore di quella del Toro, di maglia. Non lo sappiamo con certezza, perché nessuno l’ha scritto inequivocabilmente e sopravvivono quindi alcune teorie sul perché la scelta del colore cadde sul granata. Alcuni parlano di un possibile riferimento al club svizzero del ServetteFootball Club 1890, la squadra che deve il nome a un quartiere di Ginevra, una delle formazioni più forti all’epoca dei pionieri del calcio, soprannominata les Grenat [i granata] e molto amata dalla comunità elvetica, così vivace a Torino. Altri sostengono un’altra teoria, che evoca l’omaggio alla casacca maroon degli inglesi dello SheffieldFootball Club, riconosciuta nella storia di questo sport come la più antica squadra di calcio al mondo, fondata nel lontano 1857 nella cornice della città inglese dell’acciaio. Peraltro c’è un’altra spiegazione possibile, molto più romantica, che vede nella gradazione scelta dai fondatori del Toro un richiamo alla Brigata Savoia, magnifica protagonista della difesa di Torino in occasione del tremendo assedio franco-spagnolo del 1706. E vale la pena di raccontarla bene, questa storia.
“È senz’altro l’invenzione di osservatori superficiali la leggendaria monotonia della città, come un mascheramento da cui l’ingenuo e l’impaziente si lasciano ingannare. Invece, sotto quell’apparenza così ovvia, Torino è una città per intenditori”. Così definiscono la città sabauda ne La donna della domenica, uno dei loro capolavori, Carlo Fruttero e Franco Lucentini. Città per intenditori, quindi. Non potrebbe essere altrimenti. Una città fiera e quasi straniera al resto del Paese dove quasi tutto è nato: l’automobile, il cinema, il cioccolatino, la gianduia, il grissino, la radio, la televisione, il tramezzino, il vermut e l’Unità nazionale. Una città considerata magica, dai conoscitori dell’occulto, che incarna e racchiude una profonda tensione verso il mistero, sullo sfondo di una metropoli ordinata e precisa, ammantata di grazia, densa di riserbo e chiaroscuri, agiata senza sfarzo, elegante ma discreta, golosa di piccoli piaceri accompagnati da un’energia non manifesta, che cela un cuore folle. E un cuore Toro. A proposito, proprio a Torino, in Italia, è nato (anche) il calcio.
La società calcistica più antica d’Italia è il Genoa, come i rossoblu genovesi dichiarano orgogliosamente. Ed è vero, naturalmente. Tuttavia occorrerebbe una precisazione. Infatti il Genoa è certo la squadra più antica d’Italia, ma fra le quelle ancora in attività. Per amor di verità bisogna riferire che, al tempo della fondazione del glorioso sodalizio del Grifone – avvenuta nel 1893 a Genova – in quel di Torino si palleggiava già da un bel pezzo. Francesco Crispi nel 1887 formava il suo primo governo, Giuseppe Verdi tornava a scrivere e trionfava alla Scala con l’Otello. Invece l’Italia, che aveva appena festeggiato i suoi primi 25 anni dall’unificazione, rinnovava il trattato della Triplice Alleanza con Germania ed Austria-Ungheria. E sempre in quel 1887 Edoardo Bosio, un ragioniere di origine elvetica, impiegato presso la sede torinese della grande casa inglese di tessuti Thomas & Adam, rientrando a Torino dopo una lunga trasferta presso la casa-madre a Nottingham, portava con sé un vero pallone di cuoio brevettato per il gioco del calcio e una copia delle regole dell’associationfootball, che lui aveva praticato ed era capace di giocare. Bosio aveva in effetti l’intenzione di creare un’organizzazione che consentisse la diffusione della pratica di quel gioco, e per questo fondava il primo undici italiano, il più antico sodalizio d’Italia in assoluto, che in quel 1887 indossava una camicia a righe rossonere, un berretto in testa e lunghi calzoni: era il Torino Football & Cricket Club, che aveva sede in piazza Solferino, nel salotto di casa del fondatore.
Un paio d’anni dopo, nel 1889, veniva approvato con l’unanimità dei voti in Parlamento il cosiddetto CodiceZanardelli che aboliva la pena di morte (ancora in vigore nei principali Stati europei) per tutti i reati, e consentiva la libertà di sciopero, in condizioni non-violente e anti-intimidatorie. Inoltre introduceva la libertà condizionale, il principio rieducativo della pena ed aumentava la discrezionalità del giudice al fine di adeguare la pena alla effettiva colpevolezza del reo, ammettendo inoltre l’infermità mentale certificata come causa di esonero dal processo, rendendo quella italiana una società più liberale. In quello stesso anno, venne fondato, per volontà del grande ammiraglio, esploratore e alpinista italiano Luigi Amedeo di Savoia, futuro Duca degli Abruzzi, il Nobili Torino. La seconda squadra più antica d’Italia, che permetteva ai rappresentanti dell’aristocrazia cittadina di cimentarsi con il calcio, sfoggiando una maglia a strisce gialle e nere. E sempre allora Friedrich Nietzsche, ebbe un crollo mentale, proprio mentre si trovava a Torino, città che il grande pensatore amava più di ogni altra. Successe che trovandosi in Piazza Carignano, nei pressi della sua casa, dove aveva scritto L’Anticristo, Il crepuscolo degli idoli ed Ecce Homo, vedendo un cavallo adibito al traino di una carrozza fustigato a sangue dal cocchiere, Nietzsche intervenne in difesa dell’animale. Dopo averlo abbracciato, avergli sussurrato qualcosa di incomprensibile e baciato, il grande filosofo cadde a terra in preda a violenti spasmi, e fu soccorso. Dopo questo singolare episodio di follia in pubblico Nietzsche verrà condotto lontano da Torino, per essere ricoverato in Svizzera e non si riprenderà fino al termine dei suoi giorni dal devastante accesso di follia che l’aveva colto nella città sabauda, ma la sua lucida dottrina verrà considerata la più influente nel plasmare la mentalità occidentale fra il XIX e il XX secolo.
Fondendosi poi nel 1891 con il Nobili, il Torino Football & Cricket Club assumerà la denominazione di International Football Club e sarà la squadra protagonista delle prime due edizioni del campionato italiano di calcio, che inizierà nel 1898. Il nuovo club adotterà brevemente una casacca di colore granata, ispirata alla divisa maroon dello Sheffield Football Club, il più antico club di calcio al mondo, salvo poi abbandonarla in favore di una maglietta a strisce bianche e nere. Il 16 marzo 1898 a Torino si era costituita intanto la Federazione Italiana Football (Fif),che poi sarebbe diventerà Federazione Italiana Giuoco Calcio (Figc): ancora non lo poteva immaginare nessuno, ma questo nuovo sport stava per entrare prepotentemente in modo decisivo nell’immaginario e nella vita degli italiani, diventando fenomeno sociale e culturale, e non semplicemente sportivo. Sempre a Torino, poco più di due mesi dopo la nascita della federazione, l’8 maggio 1898, al Velodromo Umberto I veniva organizzata la prima edizione del Campionato italiano di calcio, con 4 squadre partecipanti. Sarà il Genoa ad imporsi, unico sodalizio non torinese, inaugurando la prima – benché breve – rivalità del nostro calcio, quella contro l’International, che perderà la finale ai tempi supplementari contro i genovesi, mentre nel successivo campionato il Genoa difenderà il titolo ripetendo la stessa finale, ma questa volta sconfiggendo l’International di stretta misura. Quest’ultima società poi, a causa di una crisi finanziaria, si fonderà nel 1900 con un altro sodalizio cittadino, che aveva mosso i primi passi già nel 1894 come sezione calcistica del Circolo Pattinatori del Valentino, club di pattinaggio e hockey su ghiaccio nato vent’anni prima, e poi diventata autonoma nel 1897 con il nome di Torinese, grazie all’intervento del duca degli Abruzzi, quel Luigi Amedeo di Savoia, che era già stato ispiratore dei Nobili Torino.
La fusione con l’International diede i suoi frutti, tanto che il nuovo Football Club Torinese arrivò a giocare la finale del terzo campionato nazionale, contendendo l’edizione del 1900 al solito Genoa, che tuttavia prevarrà nettamente e sarà per la terza volta consecutiva campione d’Italia, mentre a Enrico Bosio – che dovremmo considerare il padre del football, in Italia – sempre sconfitto in tre finali su tre, rimarrà la soddisfazione di aver segnato il primo gol ufficiale nella storia del calcio italiano. Intanto, nella città sabauda oramai si stava affermando un’altra squadra: la Juventus, nata nell’autunno del 1897 come “società civile per gioco, per divertimento, per voglia di novità”, su iniziativa di alcuni giovani studenti della terza e quarta classe del liceo classico Massimo d’Azeglio. I ragazzi si davano appuntamento in prossimità di una panchina non distante dalla loro scuola, di fronte alla pasticceria Platti verso il corso Duca di Genova, oggi corso Re Umberto, all’angolo di corso Vittorio Emanuele II, per discutere di sport, e in particolare del football, che dalla Gran Bretagna si stava diffondendo nel resto d’Europa. I ragazzi si ritrovavano poi nella vicina piazza d’armi del quartiere Crocetta per giocare a calcio, e lì scelsero la prima divisa sociale che prevedeva una camicia bianca e pantaloni alla zuava, che sarà presto sostituita da una camicia rosa con cravattino nero, finché nel 1903 arrivarono da Nottingham, sempre Nottingham!, delle divise da gioco più moderne, quelle del Notts County a strisce verticali bianche e nere.
Nel 1906, l’anno in cui il Torino vedrà la luce, proprio la Juventus era la squadra campione d’Italia, avendo vinto nella primavera dell’anno precedente il titolo nazionale, sconfiggendo il Genoa nella partita decisiva. In Europa invece il clima stava cambiando, e iniziava proprio quell’anno una vera e propria “corsa agli armamenti”. Successe quando la Royal Navy britannica varò il 10 febbraio, presso l’arsenale di Portsmouth, la HMSDreadnought [il cui nome significa: “che non teme nulla”]. Fu una nave così rivoluzionaria per l’epoca che il suo nome di battesimo divenne il termine generico per indicare le navi da battaglia moderne, che avevano pensionato le precedenti. La sua introduzione innescò infatti una vera e propria gara ad armarsi tra la Gran Bretagna e le altre marine militari del mondo, in particolare quella della Germania imperiale, circostanza che gli storici considerano una delle cause della prima guerra mondiale. Il 7 febbraio del 1910 quella la nave fu poi il teatro di una burla che all’epoca fece molto “rumore”, perché organizzata da Horace de Vere Cole, un ricco cittadino anglo-irlandese considerato un gran burlone, i cui scherzi avevano ampia risonanza mediatica. Egli inviò addirittura un falso telegramma alla Royal Navy proponendo di accettare una visita a bordo della temibile nave militare da parte di alcuni membri della casa reale abissina durante il loro viaggio in Inghilterra che lui aveva organizzato.
Questi in realtà erano cinque amici di Cole, tra cui c’era la scrittrice Virginia Woolf, vestiti con abiti tribali e con il volto dipinto di nero. I falsi diplomatici durante l’intera visita mostrarono di non comprendere una sola parola di inglese, e si espressero rivolgendosi ai disorientati ufficiali della Royal Navy solo in un incomprensibile idioma di fantasia ricco di termini greci e latini esclamando ripetutamente “Bunga! Bunga!”, come segno di ammirazione per la potenza della nave da guerra e dei suoi apparati. L’espressione, fece allora il giro del mondo, e quasi cento anni dopo, tornerà agli onori delle cronache in Italia, per altri motivi. Invece, sempre in Italia ma al confine con la Svizzera, il 19 maggio del 1906 venne inaugurato dal re Vittorio Emanuele III e dal presidente elvetico Ludwig Forrer, un’imponente opera di ingegneria: all’epoca della costruzione, e per i successivi 76 anni, la più lunga galleria ferroviaria del mondo. Il traforo del Sempione. Il traffico regolare dei treni iniziò in realtà solo il successivo primo giorno di giugno, quando l’opera – che avrebbe permesso al mitico Orient Express di collegare Parigi a Istanbul, senza attraversare la Germania – fu celebrata nel corso dell’Esposizione Universale che si tenne in quello stesso anno a Milano, in grandiosi padiglioni ed edifici appositamente costruiti nell’area alle spalle del Castello Sforzesco, l’attuale Parco Sempione. Appunto.
La sera del 3 dicembre di quello stesso 1906 poi un gruppo composito di sportsmen si diede finalmente appuntamento a Torino, nei locali della birreria-ristorante “Voigt” di Via Pietro Micca, sotto i portici del Palazzo Fiorina. Si tratta di un edificio splendido, concepito nel 1860 e ancora oggi esistente, la cui costruzione venne finanziata dalla famiglia Fiorina, che lo fece arricchire con magnifiche decorazioni tra il liberty e il tardo-barocco ed eleganti porticati con capitelli neoclassici. Il rossiccio condominio fu sede dell’omonimo Grand Hotel Fiorina, per molti anni il più lussuoso di Torino, e della storica libreria Slavia, poi nel 1872 rinominata Petrini, dove Edmondo De Amicis scrisse il suo capolavoro: il libro Cuore. I commensali quella sera erano di diversa estrazione, ma tutti animati dal desiderio di contendere alla Juventus, quell’anno sconfitta in finale dal Milan per non essere voluta scendere in campo, ma già campione d’Italia la stagione precedente, il primato cittadino. C’erano alcuni soci del FootballClubTorinese, perché il sodalizio giallo e nero era oramai prossimo allo scioglimento, e altrettanti soci dissidenti della Juventus, guidati niente meno che dal suo ex presidente. Alfredo Dick, che da poco era stato estromesso dalla maggioranza dei soci bianconeri. Questi ultimi nonostante gli ottimi risultati sportivi e di gestione mal sopportavano un’impronta sempre più autoritaria e il crescente ostracismo espresso da Dick verso gli italiani, criticati per il loro stile di vita, da lui giudicato troppo distante dal rigore svizzero che avrebbe dovuto caratterizzare la “sua” Juventus.
Alfredo Dick era un affermato imprenditore del settore calzaturiero, dove aveva fondato la società anonima Manifattura di Pellami e Calzature – M.P.C., sviluppando diverse partnership commerciali e diventando nel 1909 presidente della neonata Associazione dei Fabbricanti Italiani di Calzature, alla quale aderirono i più grandi calzaturieri di quel periodo: Oreste Vitale (Borri e Vitale di Busto Arsizio), Giovanni Gilardini di Torino, Ermenegildo Trolli (calzaturificio Di Varese) e il cavalier Pietro Giulini di Vigevano. Si trattava di un uomo rigoroso, con un carattere difficile e spigoloso. Ad esempio, nel 1906 fece perdere alla Juventus, campione in carica, la finale contro il Milan a tavolino, per non averla fatta scendere in campo, per principio. Non essendogli stata rinnovata la presidenza Dick, risentito, abbandonò la Juventus e le tolse il terreno di gioco – il Velodromo Umberto I – che lui aveva preso in affitto personalmente, per offrirlo al Torino, che contribuì a fondare, prima di morire. La tragedia accadde nel 1909 quando, come amministratore delegato della Manifattura Pellami e Calzature, Dick aveva compiuto una serie di errori tecnici nelle emissioni degli ordini, a causa dei quali l’azienda perse quasi centomila lire. Dick allora si assunse la responsabilità dei propri errori di fronte al consiglio d’amministrazione e, sconvolto più dalla vergogna che dal danno economico – non irreparabile – il giorno successivo si recò nei suoi uffici, presso il Velodromo Umberto I, e si suicidò sparandosi a una tempia. Aveva solo 44 anni e lasciava la moglie e quattro figli.
Ma adesso torniamo qualche anno indietro, alla sera del 3 dicembre 1906, quando presso la birreria Voigt (oggi bar Norman) in via Pietro Micca, venne costituito il direttivo della nuova società: vicepresidente Alfredo Dick (ex Juve), segretario Walter Streule (ex Juve) e tesoriere Kuster; consiglieri furono scelti Oreste Marzia (ex Juve), Muetzell e Federico Ferrari-Orsi mentre i revisori sarebbero stati Pletscher, Emilio Valvassori e Enrico Debernardi. E così a soli dieci minuti dallo scoccare della mezzanotte, un brindisi festoso consacrava lo svizzero Franz Josef Schönbrod, eletto dagli altri soci all’unanimità, primo presidente del Foot Ball Club Torino, il nuovo sodalizio cittadino cosi fortemente voluto da Dick, il cui statuto, “espressamente esclusa ogni questione politica o religiosa”, fissava i colori sociali nel “granata e bianco”. È giunto quindi il momento di avanzare un’altra ipotesi oltre a quelle già tratteggiate circa la scelta del colore. Il granata, appunto. E quella che segue di ipotesi è senz’altro la più romantica, e a parer mio la più probabile. Infatti, nel 1906 correva il bicentenario dell’assedio di Torino, evento epocale nella storia del Piemonte, avvenuto appunto nel 1706 – durante la Guerra di successione spagnola – quando oltre 44 mila soldati francesi accerchiarono Torino, difesa da circa 10 mila soldati sabaudi che combatterono strenuamente dal 14 maggio fino al 7 settembre, quando l’esercito a difesa della città, comandato dal Principe Eugenio e dal duca Vittorio Amedeo II, costrinse i nemici francesi alla ritirata. Il fallito tentativo di conquistare la città, che gli storici considerano l’inizio del Risorgimento, e la sconfitta dell’esercito del Roi Soleil, il potentissimo Luigi XIV di Francia, fece conquistare ai piemontesi il rispetto di tutta Europa.
E proprio al duca Vittorio Amedeo II, che a seguito di questa vittoria diventerà il primo re della dinastia di casa Savoia, dobbiamo forse l’iconica maglia del Toro. Difatti, mentre infuriava la battaglia decisiva per le sorti dell’assedio, i due Savoia – Eugenio e Vittorio Amedeo II – dopo aver studiato attentamente la loro tattica, dall’alto della collina di Superga, decisero di attaccare il nemico su più fronti, contemporaneamente, per rompere gli equilibri militari e la morsa dei francesi. Quindi dall’alba fino al pomeriggio del 7 settembre francesi e piemontesi si scontrarono presso Lucento, esattamente dove oggi ha sede il centro sportivo della Continassa e si allena la Juventus, e presso la località detta in piemontese Madòna ‘d Campagna. Vinsero i piemontesi, su entrambi i fronti. E tuttavia trovandosi a distanza e non riuscendo a comunicare a vista, fu un cavalleggero della Brigata Savoia, partito al galoppo, a portare le informazioni necessarie da un comando all’altro. Attraversando le linee nemiche in rotta il soldato sabaudo venne però ferito gravemente e arrivò morente al cospetto del Duca, con la divisa intrisa di sangue, per riferire il messaggio che fu solo in grado di sussurrare, prima di spirare fra le braccia del nobile condottiero: “Savoie bonne nouvelle”. Savoia buone notizie: abbiamo vinto, Torino è salva. E fu così che Vittorio Amedeo II, prendendo in mano la stoffa della divisa intrisa dal sangue del giovane, si commosse e stabilì che da quel giorno, a ricordo del sacrificio di quel soldato e della vittoria dei piemontesi, la Brigata Savoia avrebbe indossato un fazzoletto di colore granata, come il sangue versato.
Allora, quale miglior colore per la divisa del Foot Ball Club Torino? La scelta convinse tutti i soci, e se alla sua prima partita, un’amichevole giocata il 16 dicembre 1906 contro la Pro Vercelli, non è certo che il Torino sia sceso in campo con un completo granata, è sicuro che – agli ordini del capitano Johann Friedrich Bollinger – il Toro sfoggiò la sua iconica divisa il giorno della sua prima gara ufficiale, con poco più di un mese di vita alle spalle. Era appena iniziato il 1907 e in Piazza Castello aveva aperto la Buvette Mulassano, che sarebbe stato eletto a elegante ritrovo della nobiltà torinese, ma anche degli artisti del vicino Teatro Regio, fra splendidi specchi, tavoli in marmo e ricche decorazioni, quando il 13 gennaio, sul campo del Velodromo Umberto I, in zona Crocetta, nella cornice invernale offerta da un clima rigido a causa delle precedenti nevicate, il Toro affrontò e sconfisse la Juventus per 2-1, nella prima stracittadina della storia, fra bianconeri e granata: il cosiddetto derby della Mole. La Juventus fu così eliminata dal campionato nazionale proprio dal neorivale Torino che al primo successo abbinò anche quello nella partita di ritorno, ottenuto con un roboante 1-4 siglato da Hans Kämpfer che segnò tutte le 4 reti, stabilendo un record rimasto imbattuto e portando il Toro al girone finale dove per un soffio, un solo punto di differenza, la formazione granata non si laureerà campione d’Italia al primo tentativo, cedendo il prestigioso alloro al Milan.
E allora, una volta ancora: buon compleanno, Toro.
Le immagini digitali e/o fotografiche utilizzate nel blog invece sono estratte in rete e principalmente dalle pagine https://it.m.wikipedia.org/ dove si legge la dichiarazione che le fotografie sono nel pubblico dominio poiché il loro copyright è scaduto o altrimenti possano essere riprodotte in osservanza dell’articolo 70 comma 1 della legge 22 aprile 1941 n. 633 sulla protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio, modificata dalla legge 22 maggio 2004 n. 128, in ragione delle mere finalità illustrative e per fini non commerciali, non costituendo concorrenza all’ipotetica utilizzazione economica dell’opera che rappresentano.
Gli anni Ottanta sono stati un’epoca considerata superficiale a motivo di uno stile di vita frivolo, teso al raggiungimento della felicità individuale e dell’affermazione personale. L’esatto opposto del decennio precedente – gli anni Settanta – ricordato come un periodo di grande impegno politico e, sebbene attraversato dalla degenerazione dell’ideologia e dal terrorismo, prolifico di pensieri desiderosi di cambiare il destino di un’intera generazione. In particolare, il passaggio dai Settanta agli Ottanta comportò in Italia una cesura brutale, a cui ci si riferisce definendola riflusso, per comprendere la quale occorre fare un passo indietro, ai Sessanta. Quelli furono gli anni del miracolo economico, quando si propose per la prima volta, dal punto di vista politico, il superamento del centrismo, attraverso l’allora inedita alleanza tra il partito della Democrazia cristiana (Dc) e il Partito socialista (Psi). La novità, a quel tempo rivoluzionaria e dalla portata storica, fu permessa dalla somma di una serie di fattori esterni. Intanto era mutato il quadro internazionale, e in quel momento se non una distensione nei rapporti tra l’Occidente e il blocco sovietico c’era un dialogo. Infatti dopo le lunghe lotte per il potere seguite alla morte di Iosif Stalin, NikitaChruščëv divenne il capo dell’Unione Sovietica e fu il primo segretario del Partito comunista dell’URSS a denunciare pubblicamente i crimini staliniani, dando avvio alla cosiddetta destalinizzazione, e il primo leader sovietico a visitare gli Stati Uniti, con cui intese stabilire dal 1958 un rapporto di pacifica, sebbene competitiva, coesistenza. In quello stesso anno al soglio pontificio era salito Giovanni XXIII, il papa buono, che aveva ammorbidito la posizione della Chiesa e quindi dei cattolici impegnati nella politica nostrana, nei confronti dei socialisti, i quali a loro volta erano andati acquisendo sempre più autonomia allontanandosi dal Partito comunista italiano (Pci), condannandolo quindi irrimediabilmente all’opposizione parlamentare. Intanto anche negli Stati Uniti gli americani avevano scelto di voltare pagina: nel 1961 era stato eletto presidente John Fitzgerald Kennedy, brillante e cattolico, il giovane leader chiese alle nazioni del mondo di unirsi nella lotta contro i comuni nemici dell’umanità, la tirannia, la povertà, le malattie e la guerra.
Fu quindi con il primo governo del democristiano Aldo Moro che si realizzò nel 1963 in Italia un esecutivo di centro-sinistra generando nell’opinione pubblica, a torto o a ragione, l’auspicio di una stagione nuova di grandi riforme in grado di accompagnare i progressi realizzati in campo economico negli anni del boom. Non sarà così, purtroppo. Infatti, mentre l’Inter, la Grande Inter presieduta dal petroliere milanese Angelo Moratti, guidata in panchina dall’allenatore argentino Helenio Herrera, detto il Mago, si affermava in Italia e in Europa come una delle migliori squadre di sempre, laureandosi fra il 1963 e il 1966 per tre volte campione d’Italia e per due consecutive campione d’Europa, vincendo la Coppa dei Campioni, contro gli spagnoli del Real Madrid e i portoghesi del Benfica, e campione del Mondo, vincendo la Coppa Intercontinentale, per due volte contro gli argentini dell’Independiente de Avellaneda, il governo del Belpaese stentava, offrendo risultati modesti o almeno percepiti come tali. Furono create grandi aziende pubbliche, ma queste risultarono poco produttive, molte delle riforme annunciate non furono realizzate o furono realizzate ma delusero le aspettative di quella parte dell’opinione pubblica che le reclamava a gran voce. Così fu ad esempio per la tanto attesa riforma della scuola, e proprio lì ebbe inizio e si radicò negli anni successivi il cosìddetto Sessantotto: la protesta dei giovani contro una società percepita come classista, profondamente ingiusta e reazionaria, sia nella mentalità che nel costume. Gli studenti sommarono le loro mobilitazioni a quelle operaie, che peraltro ottennero migliori condizioni salariali e lavorative, quale anticipazione di quanto sarebbe avvenuto nel 1970 con l’introduzione dello Statuto dei lavoratori che riconosceva il diritto di assemblea, di organizzazione sindacale e di difesa in caso di ingiusto licenziamento, mentre le contestazioni sessantottine ottenevano la liberalizzazione dell’accesso all’università per tutti i diplomati, eliminando nel 1969 la così detta riforma Gentile che subordinava quale condizione imprescindibile per iscriversi agli studi superiori il possesso della maturità classica.
L’espressione anni di piombo richiama efficacemente l’atmosfera plumbea che avvolgeva le città italiane nella seconda metà degli anni Settanta. Diventerà familiare, purtroppo, e tuttavia non è autoctona, derivando invece dalla traduzione dell’omonimo film, premiato a Venezia nel 1981 con il prestigioso Leone d’oro: Die bleierne Zeit (letteralmente, appunto, “Gli anni di piombo”), pellicola della regista e sceneggiatrice tedesca Margharete Von Trotta, ispirata alla vicenda storica delle sorelle Christiane e Gudrun Ensslin. Gudrun, in particolare, fu una terrorista tedesca, cofondatrice insieme ad Andreas Baader, Horst Mahler e Ulrike Meinhof del gruppo armato di estrema sinistra Rote Armee Fraktion(RAF), responsabile di numerose operazioni terroristiche condotte nella Germania occidentale. In particolare, nel 1977 si arrivò ad una vera e propria crisi nazionale conosciuta con il nome Deutscher Herbst (“Autunno tedesco”, appunto), espressione mutuata anche in questo caso da una pellicola cinematografica: Deutschland im Herbst (“Germania in autunno”). Un film collettivo prodotto nel 1978 per iniziativa di una cooperativa di autori tedeschi, che intendevano così esprimere la loro preoccupazione per le restrizioni degli spazi di libertà e di confronto culturale, conseguenti all’emergenza terrorismo, con la pretesa di definire l’atmosfera politica di allora. La RAF, conosciuta dal pubblico semplicemente come la banda Baader-Meinhof, uccise comunque 33 persone, principalmente tra figure di spicco in campo politico ed economico. Un’azione in particolare fece scalpore: il sequestro, dopo un sanguinoso agguato terminato con la morte dei quattro uomini della sua scorta, di Hanns-Martin Schleyer, un alto ufficiale delle Schutzstaffel (SS) ai tempi nazismo, riciclatosi nel dopoguerra come autorevole esponente del Christlich Demokratische Union Deutschlands (CDU), il partito politico di orientamento democratico-cristiano e conservatore che attualmente esprime la leadership di Angela Merkel. Schleyer all’epoca del sequestro era l’onnipotente presidente della Bundesverband der Deutschen Industrie (BDI), la confederazione che raggruppa tutte le federazioni di settore dell’industria tedesca, omologa della Confindustria italiana. Trascorsi quarantatré giorni di prigionia fu ucciso e fatto trovare cadavere il 18 ottobre 1977 in Francia, nel bagagliaio di un’auto, poco oltre il confine tedesco, fu il tragico epilogo di un’azione che ha molto in comune con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, che sarebbe avvenuta solo pochi mesi più tardi in Italia. Anche se più conosciuta, e quasi leggendaria nell’immaginario collettivo per le sue azioni di guerriglia urbana, la RAF condusse meno attacchi terroristici rispetto alle Revolutionäre Zellen (RZ), una formazione ben più attiva e spietata, responsabile di 296 attentati fra il 1973 e il 1995.
In quegli anni Settanta, per somma di risultati, continuità di rendimento e spettacolarità, il Borussia Mönchengladbach è stato forse la squadra di calcio più ammirata nell’arco del decennio, anche più del Bayern di Monaco di Baviera, per tre stagioni vincitore della Coppa dei Campioni. All’epoca queste due formidabili squadre tedesche imperversavano in patria e in Europa, e solo dopo di loro arriveranno il Liverpool di Bob Paisley e il Nottingham Forest di Brian Clough, che vinceranno nei successivi cinque anni la Coppa dei Campioni, tre volte i primi, due volte i secondi. Bisogna fare una premessa peraltro, per spiegare l’ammirazione manifestata verso il sodalizio renano. Infatti anche se anche il Bayern all’epoca sorprese era pur sempre il club espressione di una grande realtà economica e sociale prima che sportiva: niente meno che Monaco di Baviera. Diversamente prima che i Fohlen-Elf (“I puledri”) arrivassero al successo, la gente non sapeva neppure dove fosse la città di Mönchengladbach, tanto che molti all’estero pensavano che il luogo fosse Borussia! Eppure quella squadra di giovani fuoriclasse che annoverava tra gli altri campioni del calibro di Jupp Heynckes, Horst Köppel, Günter Netzer, Uli Stielike, Berti Vogts e Herbert Wimmer, allestita e guidata dal carismatico tecnico Hennes Weisweiler, tra il 1970 e l’autunno caldo del 1977 vincerà ben cinque volte la Bundesliga, il massimo livello del campionato tedesco, una Coppa di Germania e due volte la Coppa UEFA, perdendo invece solo in finale la Coppa dei Campioni, proprio contro gli inglesi del Liverpool, e la Coppa Intercontinentale, contro gli argentini del Boca Juniors, giocata al posto dei Reds inglesi, mentre, sempre nel 1977, uno dei suoi giocatori più rappresentativi, Allan Simonsen, vincerà l’ambito Pallone d’oro creato dalla prestigiosa rivista sportiva France Football nel 1956 e attribuito – dopo che l’anno prima era toccato a Franz Beckenbauer, uno dei più grandi giocatori della storia del calcio, capitano del Bayern Monaco e della Nazionale tedesca, campione del mondo nel 1974 – all’attaccante danese, l’unico calciatore ad aver segnato nelle finali delle tre maggiori competizioni europee, che all’epoca erano la Coppa dei Campioni, la Coppa UEFA e la Coppa delle Coppe.
Sul finire degli anni Sessanta il miglioramento del tenore di vita rese per molti più difficile percepire il peggioramento della situazione economica, che faceva da sfondo alle proteste giovanili del Sessantotto. Intanto gli italiani impararono cosa fosse la moviola che avrebbe cambiato per sempre la loro domenica sera e in conseguenza di ciò il loro lunedì mattina. Moviola era in verità il nome di un sistema elettromeccanico utilizzato per la visione rallentata di filmati cinematografici allora scopo ad esempio di consentire ai montatori di studiare le singole inquadrature, permettendogli di scegliere i punti di taglio più adatti. Il pomeriggio del 22 ottobre 1967 a San Siro si giocava la stracittadina tra i nerazzurri dell’Inter e i rossoneri del Milan, colloquialmente detta derby della Madonnina, dalla caratteristica statua della Madonna Assunta posta in cima al Duomo di Milano. L’Inter era in vantaggio per 1-0 fino a quando Gianni Rivera con un tiro dei suoi colpiva la traversa nerazzurra e la palla rimbalzava in campo vicino alla linea bianca, in prossimità della quale l’interista Tarcisio Burgnich in rovesciata la allontanava. L’arbitro, immediatamente assediato dai giocatori rossoneri, si consulta a a lungo col guardalinee, dopodiché concedeva il gol del pareggio al Milan. Quella stessa sera alla Domenica Sportiva il conduttore, l’indimenticabile Enzo Tortora, annunciava la straordinaria novità: il giornalista della Rai, Carlo Sassi, era in grado di mostrare un’immagine inequivocabile da cui risultava che la palla in realtà non aveva mai superato la linea di porta. Il primo errore arbitrale era appena stato inconfutabilmente dimostrato. L’episodio sportivo può essere considerato di secondaria importanza, perché a fine stagione quel Milan vincerà il suo nono scudetto e non in virtù di quell’ingiusto vantaggio. Il Diavolo infatti era una squadra fortissima e quel campionato nella stagione 1967/68 lo stravincerà con un ampio margine sulla Fiorentina, che tuttavia si imporrà l’anno successivo, quando lo scudetto andrà in riva all’Arno, mentre i rossoneri allenati da Nereo Rocco e guidati in campo da Gianni Rivera trionferanno nell’edizione 1968/69 della Coppa dei Campioni, disintegrando per 4-1 gli olandesi dell’Ajax di Amsterdam, e pure nella Coppa Intercontinentale, dopo aver fatto a botte, contro gli argentini dell’Estudiantes, campioni del Sudamerica. La violenza era nell’aria, si respirava odio ovunque: nel 1968 erano stati assassinati Martin Luter King e Bob Kennedy ed era stata soffocata la cosiddetta Primavera di Praga quando Alexander Dubček diventato segretario del Partito comunista di Cecoslovacchia aveva intrapreso una coraggiosa stagione di riforme, terminata quando un corpo di spedizione militare dell’Unione Sovietica e degli alleati del Patto di Varsavia invase il paese.
Una soddisfazione e un po’ di gioia per gli sportivi italiani arrivò proprio nel 1968 quando la Nazionale, dopo la delusione patita ai Mondiali inglesi nel 1966, la disfatta e l’umiliazione per mano della famigerata Corea bruciava ancora, riuscirà a vincere per la prima volta gli Europei di calcio. Lo farà proprio in casa, in finale allo stadio Olimpico, battendo la Jugoslavia per 2-0, davanti a 70mila tifosi emozionati, e mentre la contestazione giovanile faceva cadere in disuso parole come patria e nazione, con quella vittoria il calcio contribuì a far sì che gli italiani riscoprissero l’orgoglio di sventolare il tricolore. Si trattò solo di una parentesi di festa in un difficile periodo di recessione economica, mentre all’orizzonte si profilavano anni bui, ma con il trionfo azzurro nacque l’uso dei caroselli per le strade italiane: un entusiasmo condiviso che univa migliaia di tifosi, trascinati dall’impresa dei ragazzi azzurri di Valcareggi. Nel novembre dello stesso anno nasceva a Milano il primo gruppo ultras italiano, la Fossa dei Leoni, con canti e slogan direttamente ispirati a quelli dei cortei politici. Calcio e politica extraparlamentare intrecciavano così parte delle loro esperienze, e dopo qualche anno compariranno gli striscioni delle Brigate Rossonere e delle Boys-San, ovvero Boys-Squadre d’Azione Nerazzurre (l’acronimo SAN si riferisce verosimilmente alle Squadre d’azione di Benito Mussolini), del Commando Ultrà Curva Sud (CUCS) a Roma e del Nucleo Armato Bianconero (NAB), forse l’unico gruppo juventino, un pubblico tradizionalmente noto per l’anticampanilismo, paragonabile agli hooligan. La moviola intanto diventava un vero e proprio fenomeno di costume, accrescendo la popolarità dei giornalisti Carlo Sassi e Bruno Pizzul, i quali si alternavano nella conduzione dell’apposita rubrica che dalla stagione di campionato 1969/70 prese un posto fisso all’interno della Domenica Sportiva, diventando uno dei momenti più attesi della televisione italiana, seguito anche da venti milioni di telespettatori. Molti sono gli episodi che ne hanno segnato la storia, memorabile quando la sera del 20 febbraio 1972, l’arbitro Concetto Lo Bello, sempre inflessibile, duro e giusto, messo di fronte alle immagini del calcio di rigore da lui negato al Milan nei confronti della Juventus, sarà costretto ad ammettere il clamoroso errore. Il clima generale in quel fatidico 1969 al quale conviene tornare è denso di contestazioni e contrasti: è il cosiddetto autunno caldo per antonomasia e l’inverno che seguirà purtroppo non sarà da meno. Infatti, il 12 dicembre del 1969 sarà una giornata terrificante: in poco meno di un’ora in Italia si verificheranno ben 5 attentati: tre a Roma e due a Milano. Il più grave sarà la strage di Piazza Fontana, dove una bomba, esplosa nella sede milanese della Banca Nazionale dell’Agricoltura, provocherà 17 morti e 88 feriti.
La strage della Banca Nazionale dell’Agricoltura è considerata il primo e più dirompente atto terroristico dal dopoguerra nonché da alcuni ritenuto l’inizio del periodo passato alla storia in Italia come degli anni di piombo nonché della strategia della tensione, che nel corso degli anni strazierà il Paese: a Brescia il 28 maggio 1974 (8 morti), sul treno Italicus del 4 agosto dello stesso anno (12 morti) e a Bologna il 2 agosto 1980 (85 morti), alzando il livello dello scontro. In un primo momento di questi attentati verranno accusati i nascenti gruppi del terrorismo rosso che si riveleranno invece estranei, mentre emergeranno indizi di collusioni occulte di settori deviati dello Stato, successivamente confermati: si comincerà a parlare allora di stragismo di Stato. All’inizio del decennio dei Settanta, nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970, Junio Valerio Borghese, soprannominato il principe nero, tentava un colpo di stato – il cosiddetto Golpe dell’Immacolata – salvo annullarlo in fase di esecuzione e riparare in Spagna per evitare l’arresto. In quei tristi mesi invernali del 1970 terminava anche la intanto era terminata la splendida parabola del Cagliariscudettato che, se dopo aver schiantato l’Inter a Milano e aver preso la testa del campionato, candidandosi alla vittoria finale manifestando una superiorità indiscussa su tutti i rivali, durante la partita tra Italia e Austria giocata a Vienna il 31 ottobre, a causa di un grave infortunio che ne comprometterà la carriera, perderà il suo impareggiabile fuoriclasse.Gigi Riva era stato il principale artefice dei successi del Cagliari, che senza di lui non riuscirà a difendere il titolo conquistato l’anno prima quando il 12 aprile 1969 chiuse la miglior stagione della sua storia festeggiando il primo e fin qui unico scudetto vinto. Si trattò di una sorpresa, a soli 6 anni dall’approdo in massima serie i rossoblù guidati ai vertici del calcio italiano da Manlio Scopigno, detto il filosofo, con il secondo posto nel 1968/69 e soprattutto con lo storico scudetto del 1969/70, il capolavoro della sua carriera, portavano per la prima volta il titolo di campione d’Italia nel Mezzogiorno, lontano dalle grandi città del Nord e del Centro, conquistando una vittoria ricca di significati per l’intera Sardegna, isola distante – ritenuta patria di pastori e banditi, come ricordava Gigi Riva – praticamente sconosciuta fino a quel momento al resto degli italiani.
Nel quadro della strategia della tensione la società italiana era sempre più divisa e polarizzata in gruppi che facevano politica extraparlamentare e non rifiutavano la violenza, passando dalla clandestinità alla lotta armata. A sinistra erano nate organizzazioni come i Gruppi d’Azione Partigiana (GAP), i Nuclei Armati Proletari (NAP), Prima Linea (PL) e le Brigate Rosse (BR), mentre a destra militavano Avanguardia Nazionale, i Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR), Ordine Nero, Terza Posizione e Ordine Nuovo. Si diffuse un clima di insicurezza e pericolo, perché non furono compiuti soltanto attentati clamorosi o stragi dai loro esecutori, ma uno stillicidio continuo di attacchi contro obiettivi minimi, singoli cittadini e forze dell’ordine, in esecuzione quotidiana di disegni talvolta ignoti e misteriosi. In piazza i manifestanti si presentavano ovunque a volto coperto e spesso armati di spranghe, chiavi inglesi e bottiglie molotov e la violenza poteva scoppiare in qualsiasi istante e ovunque. In quel contesto, iniziarono ad agire le BR compiendo atti di guerriglia urbana e terrorismo contro persone ritenute rappresentanti del potere politico, economico e sociale, operando tra il 1970 e il 1974 prevalentemente attraverso piccoli gruppi all’interno delle fabbriche in modo spesso clandestino, con il compito di fare propaganda in particolare nelle aziende soggette a piani di ristrutturazione o nelle quali il rapporto dei lavoratori con la dirigenza e la proprietà fosse particolarmente conflittuale. I militanti delle BR, oltre a diffondere le proprie idee, presero di mira quadri e dirigenti aziendali, incendiandone le auto o realizzando brevi sequestri, della durata di qualche ora o di pochi giorni, allo scopo di intimidire il rapito e la dirigenza dell’azienda e dimostrare la forza e la spregiudicatezza dell’organizzazione: il primo si realizzò il 3 marzo 1972 a Milano, Idalgo Macchiarini, un dirigente industriale, prelevato di fronte allo stabilimento, fotografato e rilasciato dopo qualche giorno con un cartello appeso al collo dove c’era scritto: “Colpiscine uno per educarne cento!” Sempre in quell’anno, il 5 settembre 1972 a Monaco di Baviera, un commando dell’organizzazione terroristica palestinese Settembre Nero irruppe negli alloggi destinati alle squadre israeliane del villaggio olimpico uccidendo subito due atleti che avevano tentato di opporre resistenza e prendendo in ostaggio altri nove membri della squadra olimpica di Israele, un successivo tentativo di liberazione da parte della polizia tedesca portò alla morte di tutti gli atleti sequestrati, brutale epilogo del Massacro di Monaco di Baviera che aveva insanguinato le Olimpiadi, evento tipico della cultura umana che storicamente addirittura sospendeva ovunque le guerre e la violenza.
In Italia il 12 febbraio 1973 la colonna brigatista torinese compì il sequestro di Bruno Labate, sindacalista legato al Movimento Sociale Italiano dello stabilimento FIAT di Mirafiori, interrogandolo e poi lasciandolo incatenato alla gogna operaia davanti alla fabbrica, guadagnando adesioni e simpatizzanti in tutti gli stabilimenti nelle grandi fabbriche del Piemonte, come già era accaduto in Lombardia. In quei primi anni le BR volevano tramettere segnali di lotta concreti con azioni dimostrative e atti di forza, per conquistare consensi all’interno della classe operaia: era la cosiddetta propaganda armata. Dopo Milano e Torino le BR si allargarono, in particolare a Porto Marghera fu costituita la terza colonna, quella veneta, mentre in Liguria fu creata la colonna genovese. E uscendo dalla logica dello scontro all’interno delle fabbriche i dirigenti brigatisti desideravano incidere direttamente sul processo politico del Paese, e proprio da Genova partì la prima azione condotta contro un esponente dello Stato: il rapimento, avvenuto il 18 aprile del 1974, di Mario Sossi, un magistrato che era stato pubblico ministero in un processo a un gruppo armato genovese. Condannato a morte dalle BR con lo slogan «Sossi fascista, sei il primo della lista!» il magistrato venne poi rilasciato senza ottenere una contropartita: liberato a Milano, tornò a Genova in treno e si consegnò alla Guardia di Finanza. Invece Francesco Coco, il procuratore generale della Repubblica che non aveva voluto trattare con i brigatisti, rifiutandosi di firmare la scarcerazione dei detenuti che i terroristi chiedevano in cambio della liberazione dell’ostaggio, verrà ucciso da un commando guidato da Mario Moretti, esponente dell’ala dura del movimento, che l’arresto di Renato Curcio e Alberto Franceschini avevano catapultato ai vertici dell’organizzazione, in un agguato a Genova, l’8 giugno 1976 insieme a due uomini della scorta: il primo magistrato trucidato durante gli anni di piombo.
Intanto negli stadi la passione degli italiani per il campionato di calcio non conosceva incertezze né si attenuava. Dopo quella memorabile del Cagliari, un’altra impresa infiammò gli animi dei tifosi e catturò l’attenzione degli appassionati: quella Lazio, l’undici capitolino di Giorgio Chinaglia, soprannominato Long John, bomber inarrestabile e simbolo della squadra biancoceleste, guidata in panchina dal tecnico Tommaso Maestrelli, che al termine del campionato del 1973/74 conquisterà lo scudetto. In quello stesso mese di maggio l’Italia votava il referendum voluto promosso dalla Democrazia Cristiana e sostenuto in Parlamento dal Movimento Sociale Italiano e fuori da Comunione e Liberazione, allo scopo di abrogare la legge che permetteva il divorzio. L’esito della consultazione popolare del 12 maggio 1974 fu clamoroso segnando contro le attese la prima grande sconfitta della Democrazia Cristiana e testimoniando come la modernizzazione del Paese introdotta dal boom economico e la contestazione sessantottina dell’etica dominante avesse profondamente inciso anche in Italia sull’evoluzione di costumi e mentalità. L’Italia tuttavia verrà scossa da due tremendi appuntamenti con la devastazione e la morte, il 28 maggio la strage di Piazza della Loggia a Brescia, dove una bomba nascosta in un cestino portarifiuti fu fatta esplodere mentre era in corso una manifestazione, provocando la morte di 8 persone e il ferimento di altre 102, mentre il 4 agosto la strage a bordo del treno Italicus, quando morirono 12 persone e rimasero ferite altre 48 in un attentato dinamitardo presso San Benedetto Val di Sambro, in provincia di Bologna, che avrebbe avuto conseguenze più gravi se l’ordigno fosse esploso nel cuore della Grande Galleria dell’Appennino che si sarebbe trasformata in una fornace, per i circa quattrocento passeggeri dell’espresso. Non successe solo a causa del recupero di tre minuti sul ritardo precedentemente accumulato alla partenza da Roma. Fu comunque un attentato orribile, la quinta carrozza del treno esplose e si incendiò a cinquanta metri dall’uscita della lunga galleria e le persone bruciarono vive, eppure questo tremendo episodio è il meno ricordato, commemorato e considerato dalla storiografia. Mentre nella tragedia, brilla l’eroismo di un giovane ferroviere di 24 anni, il forlivese Silver Sirotti, che munito di estintore, si slanciò tra le fiamme per soccorrere i viaggiatori intrappolati, non pochi si salvarono proprio grazie al suo spirito di servizio: morì eroicamente guadagnando una Medaglia d’Oro al Valor Civile.
Sempre nel 1974 si logora la formula governativa del centrismo e del centro-sinistra, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista quindi iniziarono a parlarsi: era l’alba del dialogo che Enrico Berlinguer aveva suggerito in una serie di pubbliche dichiarazioni alla fine del 1973 rivolgendosi alle forze che rappresentavano la grande maggioranza del popolo italiano. Il terrorismo nero decise di reagire all’ipotesi del compromesso storico fra democristiani e comunisti con le bombe, allo scopo di accresce disordine e panico, con l’auspicio di spingere una parte della società a chiedere un argine alla confusione, favorendo i più intraprendenti – fra questi Edgardo Sogno, con il suo progetto di golpe bianco – che si spinsero a credere di riuscire a instaurare un regime autoritario nel Paese. Quella Lazio, che nella stagione precedente aveva sfiorato il titolo da neopromossa, era figlia dei tempi che correvano, la squadra campione d’Italia era un gruppo turbolento: l’equilibrio del mister Maestrelli infatti si imponeva solo alla domenica, quando c’era da scendere in campo. In settimana invece il quartier generale di Tor di Quinto, il centro sportivo dove i biancocelesti si allenavano, era una vera e propria polveriera. Giorgio Chinaglia era indubbiamente il trascinatore della squadra, ma litigava con tutti, i giocatori si detestavano fra loro, addirittura mangiavano in mense separate e si cambiavano in spogliatoi diversi, caso unico nella storia di questo sport: da una parte la vecchia guardia guidata da Chinaglia e Pino Wilson, dall’altra i ribelli, entrati nel gruppo più recentemente, come Luciano Re Cecconi e Mario Frustalupi. Anche le partite settimanali di allenamento erano conflittuali e finivano in rissa, ogni volta si regolavano i conti in sospeso, e talvolta i calciatori laziali non riuscivano a scendere in campo alla domenica a causa degli infortuni che si procuravano in allenamento. Molti biancocelesti avevano il porto d’armi e si esercitavano al poligono, ma non si facevano scrupoli a portare le pistole in ritiro e sparare anche durante gli allenamenti o a farsi vedere armati in giro per Roma. Comunque, la dirompente ascesa sarà il preludio della fragorosa caduta di quella Lazio, che nella stagione 1974/75 non partecipò nemmeno alla Coppa dei Campioni a causa di una rissa scoppiata negli spogliatoi dell’Olimpico dopo il ritorno dei sedicesimi di finale della Coppa UEFA dell’anno precedente contro l’Ipswich Town che comportò per il club biancoceleste la squalifica dalle competizioni europee. Anche in campionato i biancocelesti non saranno all’altezza delle aspettative e non solo non riusciranno a difendere il tricolore, ma dovranno affrontare circostanze drammatiche che segneranno il declino nelle stagioni a venire: l’omicidio di Re Cecconi durante una rapina, quando il centrocampista, uno dei leader della squadra, fu ucciso da un colpo di pistola in una gioielleria di Roma e ancora oggi non si sa bene perché, la scomparsa dopo lunga malattia del mister Maestrelli oltre all’improvviso trasferimento di Chinaglia negli Stati Uniti.
A partire dai primi anni Settanta una nobile decaduta era tornata competitiva: il Torino. Il presidente della società granata, Orfeo Pianelli, grazie a mirate operazioni di mercato, stava via via costruendo una squadra all’altezza dei rivali cittadini della Juventus, inavvicinabili fino a pochi anni prima, da quando la tragedia di Superga aveva cancellato il Grande Torino consegnandolo al mito. Proprio per invertire quella tendenza alla frustrazione il presidente Pianelli decise di ingaggiare il paròn Nereo Rocco che pur non vincendo nessun trofeo con il Toro nei suoi tre anni di permanenza sulla panchina della squadra piemontese, lasciò un’impronta di forza e la voglia di tornare a competere ai massimi livelli. Nell’estate del 1971 arriverà al Torino Gustavo Giagnoni, sardo di nascita e mantovano d’adozione: sarà immediatamente contagiato dall’amore per il Toro, in quei freddi inverni torinesi il mister prenderà l’abitudine di indossare una sciarpa granata e un colbacco al quale verrà dato un significato politico, che non aveva. Con lui in panchina il Toro ha una marcia in più, e in quella stagione 1971/72 tornerà addirittura a competere per lo scudetto, per la prima volta dal “dopo Superga”. A metà aprile i ragazzi granata erano in testa, davanti alla Juventus, ma la classifica finale premierà i bianconeri che saranno campioni d’Italia, con il Toro staccato di un solo punto e il rammarico di un paio di clamorosi errori arbitrali che avrebbero cambiato le sorti della sfida per il titolo in favore del sodalizio granata. A fine campionato un nuovo termine entrò nell’enciclopedia del calcio italiano: il tremendismo granata. A parere di Giovanni Arpino, scrittore e giornalista: “L’espressione è perfetta per un club che magari non vince, ma è un osso durissimo per chiunque. Una squadra di orgoglio, di rabbie leali, di capacità aggressive, mai doma, temibile in ogni occasione e soprattutto quando l’avversario è di rango”. Ecco, tutto questo significa tremendismo. Giagnoni infatti aveva con la sua aria un po’ truce, la grinta e la sua personalità, aveva trasmesso alla squadra un gioco incisivo e una mentalità aggressiva, il Toro non mollava mai, e l’allenatore col colbacco entrava definitivamente nella mitologia granata in un derby del dicembre 1973: a un certo punto del match, Giagnoni non riesce più a resistere alle continue provocazioni di Franco Causio, così una volta raggiunto il giocatore juventino a bordocampo, spostando il guardalinee, lo colpisce con un cazzotto sullo zigomo e lo stende. A fine partita, l’allenatore sardo, pentito del suo gesto, teme le reazioni della stampa e una pesante squalifica, ma intanto i tifosi granata lo attendono impazienti, per portarlo in trionfo e gridare: “Questo è il Toro!”
Intanto alle elezioni amministrative del giugno 1975 la straordinaria avanzata in termini di preferenze del Partito Comunista fece ritenere vicinissimo il sorpasso sulla Democrazia Cristiana e provocò un terremoto nelle amministrazioni locali, dove si andavano radicando maggioranze di governo sempre più apprezzate fra socialisti e comunisti. In un anno segnato dalla fine della guerra in Vietnam, con la caduta di Saigon e relativa ritirata americana, e in cui i sindacati e gli operai parlavano di scala mobile per adeguare i salari all’inflazione, sulla panchina granata arriva un innovatore: il giovane Gigi Radice. Il prussiano, così lo chiamano per gli occhi chiari, vuole uno stile di gioco votato al pressing a tutto campo, a imitazione del calcio totale dell’Olanda di Cruijff e compagni, e sarà l’uomo giusto al momento giusto, nel posto giusto. Nei rituali da seguire prima delle partite c’è il consueto cinque che Radice scambia con tutti i giocatori, al momento dell’ingresso in campo, tutti tranne uno, perché il mister quando si trova davanti Pulici non gli dà la mano, ma vuole un testa contro testa col suo bomber che quando entra in campo fa esplodere la Curva Maratona in un boato impressionante. Poco dopo l’inizio di quel campionato, nella notte tra il 1º e il 2 novembre del 1975, fu ucciso in maniera brutale, percosso e travolto dalla sua stessa auto sulla spiaggia dell’Idroscalo di Ostia, vicino a Roma, Pier Paolo Pasolini. Era considerato tra i maggiori artisti e intellettuali del XX secolo, attento osservatore dei cambiamenti della società italiana e figura a tratti controversa, per la radicalità dei suoi giudizi assai critici nei riguardi delle abitudini borghesi come nei confronti del Sessantotto e dei suoi protagonisti. Il suo rapporto con la propria omosessualità – all’epoca nemmeno tollerata in Italia – fu al centro del suo personaggio pubblico, mentre lui, innamorato della sua squadra del cuore, il Bologna, considerava i pomeriggi trascorsi a giocare a pallone i più belli della sua vita. In quella stagione del 1975/76 il Torino sarà Campione d’Italia: una redenzione attesa per ventisette anni dopo Superga, raccogliendo grazie alla leadership di Gigi Radice i frutti maturati nel corso delle stagioni precedenti, facendo convivere e valorizzando al meglio sia generosi gregari che raffinati esteti come Sala – il poeta – e Pecci, un centrocampista d’assalto come il gentleman Zaccarelli e implacabili cannonieri, come i gemelli del gol Pulici e Graziani, insieme al giaguaro Castellini, un estremo difensore di grandi qualità, secondo solo a Zoff in Nazionale. Quattordici vittorie su quindici in casa, con un solo pareggio proprio nell’ultima e decisiva giornata, ma soprattutto una cifra di gioco eccezionale ed una velocità mai viste prima. Il sogno del presidente Pianelli era finalmente realtà: aveva restituito la gioia al popolo granata. Nel Paese, arrivati a giugno, trascorsa un’infuocata campagna elettorale in un clima di contrapposizione frontale, sembrò prossimo il sorpasso del Partito Comunista sui democristiani e nell’attesa da un lato della vittoria finale dei progressisti sui moderati e dall’altro di una rinnovata paura per il pericolo rosso, la mobilitazione in favore della Democrazia Cristiana fu senza quartiere e coinvolse anche Indro Montanelli, che dalle colonne del suo il Giornale ammonì i lettori con uno slogan poi rimasto celebre: turatevi il naso ma votate DC!
Ed effettivamente andò proprio così: la Democrazia Cristiana dimostrò grandi capacità di recupero, conservando la maggioranza ma indebolendo i tradizionali alleati, mentre a sinistra il Partito Comunista non sfondò ma ottenne il miglior risultato elettorale della sua storia, anche in quel caso a scapito degli alleati socialisti e dell’estrema sinistra. A settembre intanto l’Italia del tennis tornava da Santiago del Cile dove aveva vinto per la prima volta la Coppa Davis, la massima competizione mondiale di questo sport, avendo rischiato fino a pochi giorni prima di non giocarla nemmeno. La gara, infatti, la finalissima, era prevista contro la nazionale cilena proprio in Cile, paese retto dalla brutale dittatura di Pinochet e per giunta, il campo di gioco si trovava nel complesso dello Stadio Nazionale, divenuto uno dei simboli della repressione del regime, usato, negli anni precedenti, come campo di concentramento per i prigionieri politici. E in Italia, dove la polarizzazione delle posizioni sembra insanabile, cortei e manifestazioni si susseguivano al grido Non si giocacon il boia Pinochet, mentre Adriano Panatta, il nostro tennista più forte e rappresentativo, veniva accusato di essere miliardario e fascista mentre era diventato benestante col talento e mai si era identificato con i progetti della destra liberale, figurarsi con quella estrema. I parlamentari socialisti sono contrari a partecipare e Domenico Modugno canta in favore del boicottaggio, mentre il governo di Giulio Andreotti non prende posizione, aspetta. L’estrema sinistra spinge per il rifiuto, non vuole giocare. Ma il capitano della Nazionale, Nicola Pietrangeli, e i tennisti vogliono giocare, Andreotti allora fa decidere al CONI, che a sua volta si affida al parere della FIT, la Federazione italiana del tennis. La Federazione, che ha da poco nominato Paolo Galgani nuovo presidente, aspetta di vedere da che parte tira il vento e alla fine si fa convincere da Enrico Berlinguer, l’ideatore dell’euro-comunismo, che si muove in direzione contraria rispetto all’Unione Sovietica, che ha boicottato la Coppa Davis e si aspetta lo stesso dall’Italia.
Il carismatico segretario del Partito comunista matura la decisione dopo essersi in qualche modo consultato con il leader comunista cileno, Luis Corvalán infatti gli suggerisce di non procedere con un boicottaggio che si sarebbe potuto rivelare vantaggioso per Pinochet, verso il quale il consenso nazionalistico all’epoca cresceva. A quel punto il Rubicone è oltrepassato: si va in Cile per vincere. Nel corso del doppio Adriano Panatta, noto per le sue simpatie politiche di sinistra, decise di giocare con una maglietta rossa, in omaggio alle vittime della repressione di Pinochet, convincendo il suo compagno Bertolucci a fare lo stesso: la prima Davis italiana diventa realtà. Dopo la pausa, alla fine del terzo set, Panatta e Bertolucci si erano cambiati, abbandonando la maglietta rossa. Il trionfo imminente andava celebrato in azzurro. Intanto si ragionava nei palazzi della politica circa la necessità di un governo di “solidarietà nazionale”, invece in California nasceva nell’estate del 1976 Apple Computer, Inc. quando Steve Jobs e Steve Wozniak, a Cupertino nella Silicon Valley, si organizzarono, coi pochi soldi di cui disponevano, allo scopo di sviluppare e vendere il personal computer Apple I: nel giro di pochi anni Jobs e Wozniak avevano assunto uno staff di progettisti di computer e avevano una linea di produzione, che dopo molti anni sarebbe arrivata a cambiare lo stile di vita della maggior parte dell’umanità, niente meno. Era iniziato puntualmente il campionato del 1976/77 che appassionerà come sempre tutto il Belpaese e si rivelerà fin da subito un furibondo testa a testa fra il Toro e la Juventus, fino all’ultima giornata, fra sorpassi e controsorpassi. Alla fine, la squadra granata raggiungerà la stratosferica cifra – in un campionato a 16 squadra – di cinquanta punti, cinque più della stagione precedente, ma la Juventus per loro sfortuna ne farà uno in più. Delusione difficilissima da smaltire, da aggiungere alla cocente quanto rocambolesca eliminazione in Coppa dei Campioni, agli ottavi terminando in otto con Ciccio Graziani in porta la partita di ritorno, per mano dei fortissimi tedeschi del Borussia Mönchengladbach. Il Toro si avvierà da allora verso un nuovo lento declino, mentre i rivali della formidabile Juventus guidata da Giovanni Trapattoni, inizieranno uno straordinario ciclo di vittorie in Italia e, più tardi, in Europa.
Oramai nel Paese divampava il conflitto politico e culturale in tutti i luoghi del sociale. Gli effetti della politica d’austerità varata dal primo governo di “solidarietà nazionale” portarono allo scoperto una composita area di dissenso, indicata col nome generico di movimento del 77 che tracciava un perimetro all’interno del quale convivevano posizioni anarcoidi, rifiuto del lavoro e operaismo, istanze pacifiste e teorizzazione dell’illegalità di massa, che costituirono il diffuso retroterra ideologico ispiratore dello scontro frontale con le istituzioni. In particolare, ci fu un’avvisaglia: il 17 febbraio la violenta contestazione rivolta contro il segretario della CGIL Luciano Lama si trasformò in scontro aperto con il servizio d’ordine del sindacato. Gli scontri per violenza e intensità causarono lo scioglimento anticipato del comizio e l’abbandono della città universitaria da parte del segretario e della delegazione della CGIL, l’evento diverrà famoso e ricordato come la cacciata di Lama dall’Università La Sapienza di Roma, oramai occupata e ingovernabile e, in conseguenza di quell’episodio, consegnata dal rettore alla polizia, mentre una fitta serie di episodi di violenza si susseguiranno nelle principali città d’Italia, senza soluzione di continuità. L’11 marzo 1977 a Bologna studenti della sinistra extraparlamentare affrontarono le forze dell’ordine intervenute a difesa di un’assemblea di CL, durante gli scontri fu ucciso Francesco Lorusso, militante di Lotta Continua e studente universitario.
La notizia della morte del giovane si diffuse rapidamente e ne seguì l’affluire di migliaia di studenti verso la zona universitaria che venne barricata in un clima di incredulità, dolore e rabbia. In risposta alle proteste ed ai gravi disordini scoppiati in città, il Ministro dell’Interno, Francesco Cossiga, dispose l’invio di mezzi blindati nelle strade del centro di Bologna, finendo così per accentuare lo scontro politico, vista la profonda impressione suscitata nell’opinione pubblica nel vedere – nel cuore della capitale dell’Emilia, cingolati per il trasporto truppe che furono generalmente percepiti come carri armati. Tutte le iniziative di protesta lanciate nei giorni successivi furono duramente represse, anche attraverso l’esecuzione di numerosi arresti e fermi di polizia. Il 12 marzo dello stesso anno si svolse a Roma una grande manifestazione nazionale di protesta contro la repressione, che per la tensione e la rabbia accumulate nelle ore precedenti, sfociò in violentissimi scontri di piazza e gravi episodi di guerriglia urbana, caratterizzati da assalti e dal lancio di bottiglie molotov contro banche, esercizi commerciali, ambasciate, comandi delle Forze dell’ordine e sedi della DC, considerata politicamente responsabile della situazione. In quel particolare momento va riconosciuto un argine alla violenza: la dura presa di posizione manifestata dalle organizzazioni e dai partiti della sinistra storica, frattura che si rese particolarmente evidente a seguito del forte appoggio fornito dal Partito comunista alle manifestazioni contro la violenza organizzate dai sindacati confederali, dove per fortuna iniziava a guadagnare terreno una più realistica percezione delle esigenze economiche, e tra i lavoratori si diffondevano il disagio e l’insofferenza per il carattere esclusivamente politico delle manifestazioni di protesta.
A seguito della carcerazione di Renato Curcio, fondatore insieme ad altri e ideologo, le BR si riorganizzarono decidendo di accentuare la caratterizzazione “militare” in vista di una nuova fare operativa incentrata su azioni terroristiche violente e di forte impatto, e fu così che durante l’anno ci sarà una vera e propria escalation di ferimenti e omicidi. A Venezia intanto la notte più drammatica fu quella del 31 marzo 1977: i problemi cominciarono nel pomeriggio, ai violenti scontri con la polizia e al lancio delle bottiglie molotov seguirono le devastazioni e i saccheggi di negozi di lusso, e un attacco incendiario al Comando della Guardia di Finanza oltre ad un attentato dinamitardo rivolto alla sede della giunta regionale del Veneto, mentre Marghera, Mestre, Padova, Rovigo e Vicenza venivano messe a soqquadro per quasi due anni quando, durante le così dette notti dei fuochi, una serie di attentati volevano sfruttare il malcontento della classe operaia inducendola a simpatizzare coi terroristi, secondo i programmi degli agitatori. Nel frattempo iniziava a Torino il processo ai “capi storici” delle BR – tra cui Renato Curcio e Alberto Franceschini – ed era accaduto un fatto mai verificatosi in precedenza in Italia: tutti gli imputati detenuti si proclamarono militanti dell’organizzazione comunista Brigate Rosse e combattenti comunisti assumendo collettivamente e per intero la responsabilità politica di ogni sua iniziativa passata presente e futura disconoscendo qualunque presupposto legale per quel processo, revocando il mandato ove già conferito e minacciando di morte i legali che avessero accettato la nomina come difensori di ufficio, rendendo di fatto il processo “impossibile” in mancanza della difesa tecnica, quale garanzia costituzionale, e inducendo il presidente della Corte d’Assise, constatate le difficoltà di pervenire alla nomina di difensori, a incaricare della difesa d’ufficio il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino, l’avvocato Fulvio Croce, il quale pur essendo un avvocato civilista e consapevole dei gravissimi rischi a cui si esponeva, onde non rallentare il corso di un processo così importante, accettò l’incarico dimostrando grande coraggio e assoluta fiducia nella forza della legge.
Nel primo pomeriggio del 28 aprile del 1977, pochi giorni prima della data fissata per l’udienza del processo, un gruppo di fuoco delle BR uccise l’avvocato Croce nei pressi del suo studio legale in via Perrone a Torino, colpendolo mortalmente con cinque colpi di pistola che lo raggiunsero alla testa e al torace. Intanto in quel 1977 dagli Stati Uniti verso il resto inizia una saga cinematografica che non avrà uguali con l’omonimo film Guerre stellari, sottotitolato retroattivamente Episodio IV – Una nuova speranza. Il film, ambientato diciannove anni dopo la fondazione dell’Impero Galattico, narra le avventure dello Jedi Luke Skywalker e del suo maestro Obi-Wan Kenobi, impegnati nella lotta contro il Lato Oscuro della Forza, a fianco dell’Alleanza Ribelle, guidata dalla Principessa Leila, in modo da porre fine al potere dell’Imperatore sulla Galassia. Dopo un inizio in sordina, distribuito in pochi cinema americani, Guerre stellari si rivelò un successo senza precedenti sia al botteghino sia nel modo in cui si radicò nel cuore della coscienza pubblica. La maggior parte della critica spese parole d’elogio giudicandolo capace di immergere gli spettatori nel suo mondo fantastico e di coinvolgere con una narrazione semplice, ma solida ed entusiasmante, coadiuvata da effetti speciali spettacolari come raramente si erano visti prima, la saga poi sarebbe diventata un fenomeno culturale di massa, oramai è un dato storico, fin dall’uscita del primo film, e ha avuto un forte impatto sulla moderna cultura pop e le sue citazioni si sono radicate nell’uso quotidiano: frasi come la Forza sia con te o Io sono tuo padre sono diventate parte integrante del lessico della popolazione, mentre la Forza e Lato Oscuro sono state incluse nell’Oxford English Dictionary.
Il 30 ottobre 1977 anche il mondo dello sport vive una giornata straziante, quando alla stadio Comunale Pian di Massiano il Perugia di Ilario Castagner ospita la Juventus di Trapattoni. All’epoca la squadra dei grifoni faceva sognare tutta l’Umbria, e il giovane Renato Curi in particolare era entrato nel cuore dei tifosi quando il 16 maggio dell’anno precedente un suo destro al volo all’ultima giornata aveva superato Zoff, togliendo lo scudetto ai bianconeri e consegnandolo al Toro di Radice. Il 30 ottobre invece era una giornata da lupi: il cielo sopra Perugia era nero e gonfio di pioggia, che poi inizierò a cadere flagellando senza tregua i giocatori, ma al quinto minuto della ripresa, sullo zero a zero, dopo una rimessa laterale per gli umbri e uno scatto nel tentativo di raggiungere la palla, dal cerchio di centrocampo, Renato Curi si accascia improvvisamente al suolo, come fulminato, allarmando i compagni e gli avversari che gli si avvicinano, gli juventini Roberto Bettega e Gaetano Scirea spaventati gesticolano freneticamente per chiamare soccorso, entrano immediatamente in campo i sanitari e si intuisce che si sta compiendo un dramma sportivo e umano. Non servono il massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca, il centrocampista esce in barella privo di sensi sotto una pioggia sempre più forte: morirà poco dopo stroncato da un arresto cardiaco, all’età di ventiquattro anni, nella commozione generale. Tutta Italia peraltro stava per vivere un altro momento epocale: il 16 marzo 1978 avvenne l’agguato di via Fani a Roma, quando lo sterminio della scorta, fu il preludio al sequestro e al successivo assassinio dell’allora presidente della DC Aldo Moro, consumato il 9 maggio 1978, e definito dalle BR “l’attacco al cuore dello Stato”. Si chiudeva così il sequestro più drammatico della storia dell’Italia repubblicana, durato ben 55 giorni, che gettò il Paese nel panico e stroncò definitivamente la maturazione del progetto politico che Aldo Moro aveva abbozzato: cioè inserire nell’area democratica prima e nelle responsabilità di governo poi il PCI. Questi tempi sembravo non finire mai, dal giugno 1978 al dicembre 1981 aumentarono gli agguati, le uccisioni e i ferimenti terroristici. Le statistiche segnalarono una continuità di attentati mai conosciuta in Europa: il numero delle organizzazioni armate attive in Italia era passato da 2 nel 1969 a 91 nel 1977 fino a 269 nel 1979, mentre in quello stesso anno si registrò la cifra record di 659 attentati. Tuttavia l’anno con più vittime sarà il 1980, quando moriranno 125 persone, di cui 85 solo nella strage della Stazione Centrale di Bologna.
L’Italia era allo stremo, ma a quel punto a Genova successe qualcosa di imprevedibile e imprevisto, tanto da cambiare il corso degli eventi. Lo scopriremo nel seguito del racconto…
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“Sheffield, I suppose, could justly claim to be called the ugliest town in the Old World”. Nel 1937 a detta di George Orwell la città di Sheffield poteva ambire al titolo di più brutta fra tutte le altre città d’Europa. A onor del vero la capitale britannica dell’acciaio, soffocata dai fumi delle sue industrie, non doveva essere in effetti una città straordinariamente attraente. Va detto peraltro che Orwell – privo di qualsiasi interesse per il football – non avrebbe potuto cogliere in una città tanto industriale altri motivi di fascinazione. Peggio per lui! Sheffield infatti è un nome che evoca emozioni speciali in ogni appassionato dello sport più amato al mondo: il calcio. Le squadre maggiormente seguite in città, all’epoca di Orwell, erano già iconiche: lo Sheffield United, la più giovane, era stata fondata nel 1889, vincitrice di un campionato inglese e quattro volte della FA Cup (la prestigiosissima coppa nazionale inglese), disputava le partite casalinghe a Bramall Lane, il più antico stadio al mondo fra quelli in grado ancora oggi di ospitare partite di calcio professionistico. Lo Sheffield Wednesday, l’altra squadra, fondata addirittura nel 1867 con un giorno della settimana nel proprio nome – dovuto a quello di riposo in cui gli artigiani che componevano la squadra disputavano le loro partite – ha vinto ad oggi quattro campionati inglesi, tre volte la FA Cup, una League Cup (la coppa della lega dei professionisti) e in una occasione il CharityShield (il piatto d’argento in palio nel match fra i vincitori del campionato e della coppa nazionale). Ma non è tutto…
A Sheffield c’era vita – calcisticamente parlando – addirittura prima degli Owls (i gufi) del Wednesday e delle Blades (le lame) dello United: infatti, nella città che ha inventato l’acciaio inox, si era già tenuto nel 1861 il primo derby della storia del calcio, disputato tra le due squadre in assoluto più vecchie al mondo, oggi ancora in attività nelle serie minori del calcio inglese. Quasi dimenticate, ma indimenticabili. Si tratta dello Sheffield Football Club, nato il 24 ottobre 1857, e dei suoi rivali di sempre dell’Hallam Football Club, fondato il 4 settembre del 1860, niente meno – quest’ultima – che la vincitrice della prima competizione calcistica della storia: la Youdan Cup, anch’essa disputata a Sheffield (e dove altrimenti?) e messa in bacheca battendo il Norfolk Football Club nella finale giocata sul terreno di Bramall Lane il 5 marzo 1867, secondo le regole note come Sheffield Rules, un altro primato della Steel City, la città dell’acciaio: il primo tentativo di regolamentare lo sport del calcio, prevedendo l’off-side, il calcio di punizione (anche se indiretto), la traversa di legno (prima era una corda, appena tesa fra i due pali), il corner e la rimessa in gioco, nonché il divieto di sgambettare l’avversario. L’Hallam Football Club, espone quello storico trofeo d’argento nella club house accanto al terreno di casa di sempre: il Sandygate Road, riconosciuto dal Guinness World Records – il libro che raccoglie tutti i primati del mondo, da quelli naturali a quelli umani, a quelli più originali – come il più vecchio campo di calcio della storia, dove il 29 dicembre del 1862 si giocò la prima partita di football ufficialmente riconosciuta, tra i bluescountrymen – padroni di casa – e i cugini maroons dello Sheffield Football Club, vinsero i secondi. Forse. Comunque, alla faccia di Orwell.
Trascorsi pochi mesi dal così detto Rules derby giocato a Sandygate Road si verificò un altro momento decisivo nella storia del football, quando il solicitor – si chiamano così gli avvocati che nel sistema giudiziario inglese si dedicano esclusivamente all’attività di consulenza – Ebenezer Cobb Morley, un eccellente sportsman tra l’altro: calciatore e canottiere nel quartiere londinese di Barnes, decise di dare vita nel 1862 al Barnes Football Club e, come capitano del neonato sodalizio, di scrivere al quotidiano Bell’s Life lanciando l’idea di creare un organismo in grado di governare il fenomeno del football, che stava crescendo in maniera dirompente ma confusa. Non esistevano infatti regole universali per il gioco del calcio, le squadre prossime a Sheffield avevano le proprie rules, ma molti altri club e varie associazioni territoriali stilavano le proprie e queste si aggiungevano le une alle altre senza cancellarsi a vicenda: ciascuno poteva infatti liberamente decidere quale sistema di rules adottare, così a Nottingham come a Derby o Birmingham, senza considerare che non erano in pochi, sull’esempio del Blackheath Football Club, a propugnare la possibilità di giocare il pallone con le mani contro chi, contemporaneamente, ne proponeva il divieto, e via discorrendo.
Insomma, la sollecitazione dell’avvocato Cobb Morley non cadde nel vuoto: i tempi erano maturi per una codificazione unitaria e l’invito venne raccolto da varie personalità, che decisero di incontrarsi alla Freemasons’ Tavern, una public house nel West End londinese, dando così luogo il 26 ottobre del 1863 alla prima riunione della neocostituita TheFootball Association inglese, la mitica TheFA. All’esito poi dei successivi incontri, organizzati nella zona di Covent Garden, sempre a Londra, vennero codificate sotto l’attenta supervisione del neopresidente Cobb Morley, partendo dalle Sheffield Rules, la prima versione delle Laws of the Game. Le Regole del Gioco! In particolare: il divieto di utilizzare le mani per colpire o passare la palla, stabilito a quel punto inequivocabilmente, starà stretto a qualcuno che si alzerà sbattendo la porta, determinando la nascita, il 26 gennaio 1871, della Rugby Football Union che codificherà le regole di quell’altro magnifico sport “da bestie, ma giocato da gentiluomini” come ama ripetere chi lo pratica: il rugby. Tornando però al calcio, successe che la FA insieme alle omologhe federazioni scozzese, gallese e nordirlandese, crearono a Manchester, il 6 dicembre 1882, l’International Football Association Board: l’organismo guardiano del calcio mondiale, conosciuto attraverso l’acronimo IFAB e deputato tutt’oggi a custodire le Laws of the Game, modificarle ed eventualmente deliberarne di nuove a livello internazionale e nazionale, vincolando alla loro osservanza tutte le federazioni, organizzazioni e associazioni calcistiche, a livello professionale e dilettantistico, escluso il solo livello amatoriale: un enorme potere! È giusto notare che la Fédération Internationale de Football Association, che tutti conosciamo come FIFA, nata a Parigi il 21 maggio del 1904, attualmente l’organizzazione calcistica più importante a livello mondiale con 211 federazioni associate, dichiarò a suo tempo che avrebbe aderito alle regole stilate dall’IFAB per ogni sua competizione, partecipando alle riunioni dell’organismo supremo attraverso un proprio rappresentante, che oggi fa parte a pieno titolo del board dei pasdaran del calcio, che nel frattempo ha stabilito la propria sede da Londra a Zurigo, nella neutrale Svizzera.
Certo il football ha tante radici e molto antiche, un po’ come la ruota. Se sono stati i Sumeri infatti primi a trasmetterci l’immagine di una ruota – attraverso il così detto Stendardo di Ur, il magnifico reperto archeologico ritrovato durante gli scavi eseguiti in Iraq nel 1928, oggi custodito al British Museum di Londra – non furono loro a inventarla, come si pensava un tempo. Oggi invece gli studiosi concordano: l’idea della ruota nacque dall’osservazione che oggetti circolari, come i tronchi d’albero, rotolano con facilità. È inverosimile quindi che la ruota abbia avuto un singolo inventore, è molto più probabile che sia nata dalla lenta e progressiva evoluzione di una prima, rudimentale e anonima idea. Una invenzione semplice che fa girare il mondo!, si potrebbe dire: un po’ come il football. O no? Celia a parte, tanto per farsi un’idea sulle “radici” del calcio: a partire dal III secolo a.C. in Cina si praticava il così detto Ts’u-Chü, un gioco popolare specialmente tra i soldati, perché fungeva da addestramento militare. Bisognava spedire un pallone ripieno di piume e capelli di donna in uno spazio delimitato da due canne di bambù, utilizzando unicamente i piedi. Questa remota pratica è stata riconosciuta dalla FIFA, nella sua didattica, come il più antico gioco riconducibile al calcio moderno. E vale la pensa di sottolineare con forza – alla luce di quella modalità – che in Cina venne concepito, concettualmente e prima che altrove, l’idea di “fare” goal, che non è affatto banale. Mi spiego: anche in Giappone esisteva un gioco con la palla: le prime notizie riguardanti il Kemari risalgono al 664! Era uno sport molto fisico, ma curiosamente non competitivo, i giocatori infatti cooperavano tra loro, allo scopo di mantenere in aria una sfera – di pelle di cervo, con il pelo rivolto all’interno, ripiena di chicchi di orzo e avvolta ancora in una pelle di cavallo – cercando di impedire che cadesse al suolo, colpendola, a turno fra i partecipanti, con la testa, i piedi, le ginocchia, la schiena e i gomiti, ma non utilizzando le mani. E senza fare goal!
Fu in Grecia che si affermò intorno al IV secolo a.C. quello che è considerato il padre europeo del football (e del rugby): un gioco molto violento, soprattutto nella versione praticata nella città di Sparta, una delle più influenti poleis mediterranee dell’antichità. In seguito alla conquista delle città greche, il “gioco” si diffuse a Roma e si trasformò nell’harpastum, che deriva appunto il suo nome dal termine greco arpazo, con il significato di strappare con forza e afferrare. Si affrontavano due squadre in un campo rettangolare delimitato da linee di contorno e da una linea centrale, con l’obiettivo di depositare una palla oltre la linea di fondo del campo avversario: allo scopo erano permessi lanci e passaggi, sia con le mani che con i piedi, fra ogni giocatore che ricopriva tuttavia in campo un ruolo ben preciso. A testimoniare la diffusione e l’importanza dell’harpastum è tra gli altri Marco Valerio Marziale, poeta romano ritenuto il più importante epigrammista latino, che ci lascia una descrizione dei palloni usati a quei tempi: la pila paganica, fatta di cuoio e piena di piume e la follis, sempre di cuoio ma con una primordiale camera d’aria all’interno, costituita da una vescica animale. I praticanti della disciplina erano soliti ritrovarsi nello sphaeristerium (da cui è derivato il nome sferisterio, che ancora oggi designa molti campi di gioco del pallone nonché il magnifico teatro all’aperto di Macerata) oppure nel campus, come il Campo Marzio di Roma. Addirittura, Svetonio – grande storico e biografo romano dell’età imperiale – ci racconta, nell’opera De vita Caesarum, che l’imperatore Augusto, nipote, figlio adottivo ed erede designato da Caio Giulio Cesare, praticava l’harpastum: “Al termine delle guerre civili rinunciò agli esercizi militari dell’equitazione e delle armi e, inizialmente si diede al gioco di palla e pallone”.
Una pratica sportiva così virile non poteva fare altro che piacere in una società tanto marziale e fare proseliti per centinaia di anni, specialmente tra gladiatori e legionari. Specialmente questi ultimi lo portarono dalla capitale ai limes dell’Impero, probabilmente anche in Britannia, dove si radicò nelle abitudini ludiche degli autoctoni: giochi di squadra con la palla, spesso di carattere molto violento, infatti, sono documentati nel Medioevo, dopo la dissoluzione dell’Impero romano, in diverse regioni d’Europa – al di fuori dell’Italia – soprattutto in Inghilterra e in Francia, dove in Normandia e Piccardia, era diffusissima la soule: un gioco che coinvolgeva interi villaggi, ogni squadra poteva consistere anche di 200 partecipanti, incaricati di portare un pallone di cuoio in una determinata località, distante anche molti chilometri dal luogo dove iniziava la partita, naturalmente valeva quasi tutto: botte da orbi prima di tutto, e per bloccare gli avversari una sorta di lotta libera. Tuttavia il continuatore diretto dell’harpastum romano, sembrerebbe il così detto calcio in costume, talmente diffuso nella seconda metà del Quattrocento tra i giovani fiorentini che questi lo praticavano in ogni strada o piazza della città, improvvisando sfide cruente e mettendo in pericolo anche i più pacifici cittadini. Con il passare del tempo, proprio a causa dei problemi di ordine pubblico che derivavano dalla pratica, si andò verso una maggiore organizzazione e il calcio, chiamato fiorentino, cominciò ad istituzionalizzarsi: svolgendosi periodicamente nelle piazze più importanti di Firenze, coi giocatori, detti calcianti, spesso nobili, che scendevano in campo e vestivano le sfarzose livree dell’epoca, secondo regole e squadre, che diedero poi il nome di calcio in livrea a questo sport. La partita più famosa, cui si ispirano le moderne e vivaci rievocazioni, da non perdere almeno una volta nella vita, è sicuramente quella giocata il 17 febbraio 1530, quando i fiorentini assediati dalle truppe imperiali di Carlo V, affamati e assetati, davvero allo stremo, vollero dare sfoggio di noncuranza e sprezzo mettendosi a giocare alla palla in piazza Santa Croce.
Gli inglesi – adesso è più chiaro – non hanno fatto tutto da soli, ma non glielo si può né si deve negare: se non hanno inventato il calcio, hanno fissato loro le prime regole essenziali di quello “moderno” esportandolo quasi ovunque nel mondo. In ragione di ciò si sono sentiti – forse comprensibilmente – superiori a tutti, in un teorico rapporto tra maestri e allievi, tanto da snobbare le competizioni internazionali. Questo volontario isolamento ha generato il mito dell’invincibilità, sorretto peraltro da ben pochi riscontri concreti, tutti peraltro risalenti a fine Ottocento o ai primi del Novecento, quando la concorrenza era ancora ai rudimenti della tecnica e del tutto digiuna di tattica. In seguito comunque altre realtà confuteranno la pretesa superiorità inglese, che se è sempre stata una “scuola” di tutto rispetto, alla prima partecipazione alla Coppa del Mondo, avvenuta nel 1950, fu eliminata dagli sconosciuti ma volenterosi dilettanti statunitensi, una vera e propria onta per i maestri. Tuttavia è dalla Gran Bretagna, a bordo delle navi mercantili di Sua Maestà, che il football inizia il suo viaggio per il mondo, approdando sia sulle rive del continente europeo che su quelle sudamericane dell’Oceano Atlantico, dove i marinai britannici, una volta sbarcati a terra, impiegavano il tempo libero sfidandosi fra loro, sollecitando prima la curiosità dei passanti e poi l’emulazione dei residenti. Le città europee porti commerciali o militari erano quindi naturalmente predisposte a recepire il football, e per questo motivo spesso hanno visto nascere i sodalizi che poi sono stati i primi testimoni del nuovo gioco: in Francia a Le Havre nel 1872 nascerà il Le Havre Athletic Club, in Germania nella grande città portuale di Amburgo nel 1887 vedrà la luce l’Hamburger Sport-Verein, nella Spagna andalusa a Huelva nel 1889 ecco il Recreation Club mentre, all’altro capo della penisola iberica, nei Paesi Baschi nel 1898 nasceva l’Athletic Club Bilbao, in Italia i britannici arriveranno nel 1893 a Genova creando il “loro” Genoa Cricket and Athletic Club, imbattuto per anni contro le varie rappresentative torinesi, dove in realtà – sotto la Mole – il football era arrivato anche prima, grazie a Edoardo Bosio, un piemontese purosangue, ma – non a caso – pur sempre di ritorno da Nottingham!
Dall’altra parte dell’Atlantico, la prima partita di cui abbiamo notizia la organizzarono in Sudamerica i banchieri inglesi – e fratelli – Thomas e James Hogg, impegnati a promuovere la pratica del football nella capitale dell’Argentina, presso la vasta comunità britannica ivi residente, alla quale appartenevano, che tuttavia preferiva dedicarsi al cricket e al polo. È grazie a loro se nel 1867 sul grande prato del parco di Palermo, presso il più esclusivo circolo del cricket di Buenos Aires, si affronteranno sedici ragazzi, tutti britannici – otto per squadra – suddivisi fra White Caps e Red Caps: lo spettacolo non desterà alcun entusiasmo a dire il vero, ma la strada era segnata. Infatti, nel 1882 arriverà in Argentina dalla Scozia un insegnante, Alexander Watson Hutton, che fonderà la Buenos Aires English High School, allo scopo di mettere in pratica le sue idee riguardo alla corretta educazione dei ragazzi: associare allo studio il football, quale unica attività ricreativa del suo istituto. Dopo qualche tempo – insieme coi suoi studenti nel frattempo cresciuti – creerà nel 1898 l’Alumni Athletic Club, capace di vincere ben dieci campionati nazionali sui quindici disputati, e di imporsi – fino al suo scioglimento – come uno dei club più importanti della storia del calcio argentino. A proposito di anglosajonización, vale la pena registrare che presso l’Asociación del Fútbol Argentino, fondata nel 1893 a Buenos Aires, non era permesso parlare spagnolo!, era l’inglese la sola lingua ufficiale, anche in campo: addirittura il giocatore colpito dall’avversario poteva accettare le sue scuse solo quando fossero “sincere e formulate in inglese corretto” come previsto dal regolamento voluto dal fondatore e primo presidente. Chi?, ma Alexander Watson Hutton, naturalmente: considerato a buon diritto il padre del fútbol argentino!
Questo accadeva sulla sponda occidentale del Río de la Plata, mentre su quella orientale nel 1881 si disputava la prima partita di football fra il Rowing Club (del 1874), e il Cricket Club (del 1861), entrambe celebri istituzioni polisportive di Montevideo, ma sarà dieci anni dopo che si inizierà a fare sul serio: il 1º giugno del 1891 gli allievi della English School di Montevideo fonderanno l’Albion Football Club, nomen omen del club più antico fra quelli che si dedicheranno esclusivamente al gioco del calcio, che anche in Uruguay in principio parlava solo inglese. Infatti, pochi mesi dopo, sempre nel 1891, un centinaio fra impiegati e operai della società ferroviaria a capitale britannico, in Uruguay dal 1878, la Central Uruguay Railway, fonderanno il Central Uruguay Railway Cricket Club che pochi anni dopo cambierà denominazione – troppo ostica per gli appassionati di calcio ispanofoni – diventando il Club Atlético Peñarol, in onore dell’omonimo quartiere di Montevideo, il cui toponimo traeva origine dalla cittadina piemontese di Pinerolo. Come in Argentina, anche in Uruguay nei venti anni successivi alla scoperta del football saranno i britannici a diffonderlo – in parallelo con la costruzione e lo sviluppo delle reti ferroviarie in quegli spazi a occidente e a oriente del Rìo de la Plata: Asunción, Córdoba, Paranà, Rosario, Santa Fe o Tandil – nonché gli indiscussi protagonisti dei primi tornei calcistici, finché alcuni intraprendenti amici decideranno di reagire. Così a Montevideo nel 1899 – a sottolineare la vocazione nazionale di quello che sarebbe stato il primo club criollo (creolo, nel senso di autoctono) dell’America Latina – nascerà il Club Nacional de Football, esempio seguito dopo qualche anno anche in Argentina, dove con lo stesso spirito criollo nascerà il fortissimo Racing Club de Avellaneda, El Primer Grande.
Los británicos non lo ricordano molto volentieri ma dal punto di vista degli elementi del gioco sono proprio gli argentini a segnare negli anni Trenta del secolo scorso un punto di indiscussa importanza a loro favore. Infatti se nessuno può mettere seriamente in discussione il primato degli inglesi a proposito della codificazione e diffusione del football, il pallone “moderno”, la palla come lo conosciamo oggi, non ha visto la luce in Germania, Francia o appunto in Inghilterra, ma in Argentina nella città di Bell Ville, una località immersa nella Pampa, a metà strada fra Córdoba e Rosario. Questa località remota è abitata in virtù della sua funzione strategica – come stazione di posta – a partire dal 1529, quando vi si stabilirono alcuni accompagnatori della spedizione del veneziano Sebastiano Caboto, cosmografo dell’Impero spagnolo diretto in Perù. All’epoca però il villaggio non si chiamava Bell Ville ma Fraile Muerto (Frate Morto, avete capito bene)!, perché – così narra la leggenda – una certa mattina i contadini, appena fuori dall’abitato, si imbatterono nel cadavere di quello che era stato un frate, del quale non si seppe mai il nome né la congregazione, sbranato dal temibile giaguaro andino, il yaguareté, che evidentemente aveva sorpreso il mite religioso all’imbrunire, mentre tornava dai campi armato del solo crocifisso. Sarà niente meno che Domingo Faustino Sarmiento, il presidente della Repubblica argentina – fermatosi alla stazione ferroviaria di Fraile Muerto durante il viaggio verso Córdoba nel 1871, per inaugurare la Primera Exposición Industrial Argentina – a suggerire la modifica di un toponimo così funesto, che diventò così il molto più accattivante Bell Ville, in virtù del cognome di due illustri cittadini: i fratelli scozzesi Anthony Maitland Bell e Robert Anderson Bell, che da qualche anno, dopo aver comprato due grandi fattorie (Árbol Chato e La Escondida) nei dintorni della città, avevano investito le loro risorse con successo iniziando a introdurre nuove tecniche di agricoltura e allevamento moderno, attirando proprio a partire da quegli anni una cospicua immigrazione, specialmente italiana.
Una domenica pomeriggio come tante altre a Bell Ville gli amici Antonio Tossolini e Juan Valbonesi come loro abitudine erano andati allo stadio per sostenere i biancocelesti di casa del Club Atlético Argentino e soprattutto il loro amico Luis Romano Polo, che giocava come centravanti. Il sodalizio cittadino era sotto di un goal, quando a pochi minuti dalla fine, complice una serie di rimpalli, con un rimbalzo irregolare la palla si impennava al centro dell’area offrendo a Polo l’occasione di pareggiare la partita: l’attaccante era solo davanti al portiere avversario. Il pubblico già in piedi per esultare trattenne il respiro, e fece bene perché l’urlo di liberazione che segue ad ogni gol – in tutto il mondo – era destinato a rimare strozzato in gola a tutti e a lasciar spazio alla frustrazione. Polo infatti invece di saltare per colpire di testa il pallone e battere a rete, decise di lasciare che la sfera toccasse terra, permettendo così ai difensori avversari di riguadagnare la posizione impedendogli il controllo della palla e di inquadrare lo specchio della porta obbligandolo a calciare a lato. Ma cosa era successo? Perché Polo aveva rinunciato a proiettandosi verso la palla per colpirla di testa e segnare il goal del pareggio? Era successo che Polo aveva preferito non ferirsi al viso. All’epoca i palloni da calcio erano naturalmente molto diversi da come li vediamo oggi, ma anche da come potremmo immaginarli. La palla infatti era realizzava avvolgendo la camera d’aria – non più lo stomaco di un animale, ma di gomma vulcanizzata, grazie alla scoperte di Charles Goodyear – all’interno di sezioni di pelle bovina, gonfiandola poi iniettando dell’aria attraverso una cannuccia, poi ripiegata all’interno. Solo a quel punto il tutto era rivestito esternamente e chiuso tramite delle stringhe di cuoio, un po’ come si fa quando si allaccia una scarpa! Conseguentemente i palloni non potevano essere perfettamente sferici a causa di quella “cerniera” e del volume sottostante, anzi potevano prodursi un rimbalzo e una traiettoria che in qualche circostanza potevano diventare imprevedibili. Inoltre, non essendo impermeabili i palloni in caso di pioggia o campo fangoso si appesantivano rendendo il controllo a volte molto difficile, mentre colpirli di testa era non solo molto doloroso, ma poteva diventare pericoloso perché il malcapitato poteva ferirsi la fronte a causa del tiento, lo spesso cordoncino di cuoio che serviva da “laccio”, in grado di lacerare la pelle tesa del viso. Ecco perché ogni tanto capita di vedere, nelle vecchie fotografie, i giocatori con la fronte bendata. Non era un vezzo, ma una necessità.
Amareggiato per la sconfitta della sua squadra, Luis Romano Polo, nato nel 1901 dai genitori friulani emigrati da Forni di Sotto, quella sera stessa ebbe un’intuizione e ne discusse i giorni seguenti con gli amici di sempre: Antonio Tossolini, nato nel 1900 da Olivo e Maria Zampa, friulani pure loro, emigrati da Felettano di Tricesimo (il cognome con due s è un errore di trascrizione) e Juan Valbonesi, di origini piemontesi, che nella sua officina fu capace di realizzare l’idea che Polo aveva avuto, applicando una semplice valvola alla camera d’aria inserita nella palla, modificando poi le cuciture interne, così da stabilizzarla e gonfiarla poi attraverso un ago, eliminando definitivamente il tiento e rendendo la palla perfettamente sferica e praticamente impermeabile. Luis Romano Polo l’11 marzo e il 20 aprile del 1931 brevettò l’invenzione presso gli uffici competenti e a quel punto i tre amici divennero anche soci in affari, tramite la Tossolini, Polo, Valbonesi & Cie. produttrice e distributrice unica del Superball: cambiando la loro vita professionale e soprattutto la pratica di tutti i futuri giocatori di calcio. A proposito, la prima partita giocata con il Superball – un vero e proprio collaudo – sarà quella fra i colleghi dell’azienda dove Polo era operaio, mentre l’esordio ufficiale avverrà con il clásico di Bell Ville – fra l’Argentino e il Bell – giocato il 24 maggio del 1931. Il successivo 17 giugno il Superball sarà utilizzato nella partita fra Club Atlético Belgrano e Newell’s Old Boys de Rosario, prologo alla consacrazione del pallone “moderno”: il 5 settembre infatti lo useranno a La Bombonera i padroni di casa del Boca Juniors e i loro avversari di giornata dell’Estudiantes de La Plata. Nel frattempo la Federazione Italiana Giuoco Calcio ordinerà attraverso l’Ente centrale di approvvigionamento sportivo una dozzina di Superball per valutarne l’impiego nei Mondiali che organizzerà (e vincerà) nel 1934, dove in effetti si giocherà con il pallone sin tiento, anche se, invece di Superball, si preferirà chiamarlo “autarchicamente” Federale 102. Oramai comunque il pallone sin tiento si era affermato: nel 1935 verrà adottato dalla Confederação Brasileira de Futebol, che lo utilizzerà anche ai Mondiali di casa del 1950, quelli del Maracanazo, su cui torneremo!, e nel 1937 – finalmente – dall’Asociación del Fútbol Argentino, che di fatto lo utilizzava già da qualche anno. È cosa nota: difficile essere profeti in patria.
Maracanazo, appunto. In portoghese Maracanaço, per la cronaca. Il termine si riferisce alla sconfitta patita contro ogni pronostico del Brasile contro l’Uruguay il 16 luglio del 1950 allo stadio Maracanã di Rio de Janeiro, all’esito della gara decisiva del girone finale della quarta edizione dei Mondiali, che assegnò alla Celeste il suo secondo titolo di campione del mondo, mentre i giocatori brasiliani, umiliati al cospetto di duecentomila connazionali presenti allo stadio e di tutto il Paese, si dovranno accontentare dell’orologio d’oro che la loro federazione aveva consegnato a ciascuno alla vigilia della gara, con incisa la dedica sul retro: Ai campioni del mondo. Invece diventeranno dei reietti dopo la tremenda sconfitta cui seguiranno ben tre giorni di lutto nazionale, e molti drammi personali in tutto il Paese: si tolsero la vita chi per la delusione, chi perché aveva perso tutto scommettendo i propri averi sulla vittoria della Seleção, alla fine sarebbero stati certificati 34 suicidi e 56 morti per arresto cardiaco in tutto il paese. I giornalisti brasiliani descrissero il Maracanazo come a pior tragédia na história do Brasil (la peggiore tragedia nella storia del Brasile) e lo scrittore brasiliano Nelson Rodrigues lo definì Nossa Hiroshima (la nostra Hiroshima).
Inoltre la federcalcio decise di cambiare i colori della divisa della Seleção, una maglietta bianca con colletto blu, pantaloncini e calzettoni bianchi, sostituendoli con la casacca Verde e Amarela, che tutti conosciamo. Addirittura, al colmo dell’assurdo, si stabilì di non convocare mai più un portiere di colore, ritenendola una caratteristica di cattivo auspicio, per aver identificato in Moacir Barbosa il principale responsabile della tragédia, mentre era unanimemente considerato il miglior portiere della sua epoca: coraggioso e dotato di senso della posizione. Sfortunatamente per i suoi colori – dopo un rendimento impeccabile, durato tutto lo svolgimento della competizione – Barbosa si fece sorprendere da un tiro di Alcides Ghiggia, aspettandosi un cross anziché la conclusione in porta, che invece fisserà il risultato sul 2-1 in favore dell’Uruguay, condannando il Brasile. L’atleta verrà emarginato e isolato, considerato da tutti uno sciagurato, cadrà in depressione, dichiarando spesso, prima di morire per un attacco cardiaco: “la sentenza più pesante in Brasile è trent’anni, ma la mia prigionia ne è durata cinquanta per un crimine che non ho mai commesso”. Va detto comunque che la fiducia dei brasiliani nella loro vittoria del Mondiale si poggiava – oltre che sul fattore campo – sull’elevato livello tecnico della loro nazionale, divennero poi forti più di certezze che di speranze dopo aver assistito all’eliminazione dell’Inghilterra, che partecipava per la prima volta alla rassegna iridata, ed era arrivata in Brasile come una delle favorite – se non la favorita – al titolo. Infatti, la nazionale inglese allenata dal 1947 da Walter Winterbottom, aveva collezionato ben 22 vittorie sulle 29 partite disputate in preparazione, e che vittorie: 8-2 contro l’Olanda ad Huddersfield, 10-0 contro il Portogallo a Lisbona, 5-2 contro il Belgio a Bruxelles, 6-0 contro la Svizzera a Londra e 4-0 con l’Italia a Torino, contro la formazione campione del mondo in carica, che nella circostanza schierava per gran parte i giocatori del Grande Torino.
Ebbene, anche gli inglesi avranno il loro Maracanazo nel 1950, passato alla storia come The Miracle of Belo Horizonte. La più grande sorpresa del Mondiale infatti arriverà della fase preliminare, quando i supposti maestri dell’Inghilterra, dopo l’esordio vittorioso contro il Cile, perderanno incredibilmente contro gli Stati Uniti, in quello che è considerato uno dei più grandi upset della storia della competizione e persino del calcio mondiale: i nordamericani infatti erano dei dilettanti e contavano su una squadra formata principalmente da postini, lavapiatti e immigranti, e proprio uno di loro – tale Joe Gaetjens, nato ad Haiti – segnò il goal della vittoria yankee, alla quale molti tifosi inglesi, leggendo i quotidiani l’indomani, non vollero credere, immaginando un refuso di stampa, addirittura il segretario generale Joe Barriskill, alla lettura del telegramma che avvisava la federazione statunitense della vittoria, rimase talmente incredulo che decise di telefonare in Inghilterra alla The Football Association – che non la prese benissimo – per sincerarsi della veridicità della notizia, anche perché addirittura The New York Times si era rifiutato di pubblicare il risultato della partita credendola una fake news. Molti inglesi ritengono quello il momento più scioccante nella storia sportiva dei Lions, tanto che la loro nazionale, che aveva giocato l’incontro indossando una casacca azzurra, non vestirà mai più questo colore.
Un esemplare di Superball è esposto come ricordo della storica vittoria contro l’Inghilterra presso la National Soccer Hall of Fame di Oneonta, in prossimità di New York City: il museo, istituito al fine di omaggiare tutti coloro che abbiano contribuito in maniera significativa all’immagine del calcio negli Stati Uniti, come gli atleti che disputarono il mitico campionato NASL – la North American Soccer League – negli anni Settanta del secolo scorso, per esempio Franz Beckenbauer, George Best, Roberto Bettega, Giorgio Chinaglia o Pelé, conserva fra i cimeli, per l’appunto, il pallone sin tiento che agli inglesi andò di traverso, quel 29 giugno del 1950. C’è un libro che qualsiasi appassionato di calcio (e letteratura) metterà sempre nella classifica dei più belli mai scritti attorno al pallone: è El fútbol a sol y sombra di Eduardo Galeano, in italiano Splendori e miserie del gioco del calcio. Lì il grande scrittore e saggista uruguaiano, fra le più autorevoli personalità sudamericane, racconta un aneddoto. Un giornalista chiese alla teologa tedesca Dorothee Solle: “Come spiegherebbe a un bambino che cos’è la felicità?” “Non glielo spiegherei,” rispose, “gli darei un pallone per farlo giocare». Un pallone, appunto.
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