Se la città di Roma e la squadra della Roma non sono la stessa cosa intanto hanno lo stesso nome e gli stessi colori: l’identificazione quindi è fortemente legittima, quasi scientifica. Lo scrittore Sandro Bonvissuto questo concetto lo sviluppa in un libro che ogni tifoso, di qualsiasi squadra, dovrebbe leggere: La gioia fa parecchio rumore, scritto per Einaudi. Questo bel romanzo de noantri canta di un amore assoluto per la squadra del cuore e mi ha ricordato di quando avevo scoperto quello che rimane(va) del glorioso Campo Testaccio, anzi cosa non ne rimane(va): il leggendario stadio della Roma, infatti, quello “dove nessuna squadra ce passerà”, era ridotto a un cratere, come se non fosse mai esistito. Il quartiere del Testaccio, invece, seppure in continua evoluzione, è riuscito a conservare intatto il suo spirito genuino e popolare che lo rende il quadrilatero della romanità per eccellenza, oggi all’avanguardia nella produzione culturale capitolina, ma al tempo stesso capace di evocare romantiche memorie sportive: quelle della giovane Roma testaccina, squadra amatissima e gagliarda, tutta “petti d’acciaio, astuzia e core”.
A poca distanza dall’imponente Porta di San Paolo, uno dei varchi meridionali della cinta muraria aureliana, si scorge il Sepulcrum Cestii un monumento funerario singolare quanto incongruo, si tratta di una tomba a forma di piramide egizia, costruita tra il 18 e il 12 a.C. e dedicata a Caio Cestio Epulone, un ricco magistrato romano. La piramide, completamente rivestita di lastre di marmo di Carrara, dà il nome alla fermata della metropolitana che si trova al lato di piazzale Ostiense, ed oramai è inglobata nel perimetro delle mura, accanto al suggestivo Cimitero Acattolico. Il camposanto, nascosto da maestosi alberi secolari, è il luogo dove riposano per sempre i non cattolici, soprattutto britannici, come Keats e Shelley, e tedeschi, come il figlio di Goethe, e pure tanti illustri italiani: tra gli altri Gadda, Lussu, Gramsci e Camilleri, il creatore di Montalbano, che qui trascorreva molto tempo a meditare passeggiando in solitudine fra le tombe, in prossimità della piastrella che ricorda il luogo di sepoltura del gatto Romeo, già ospite della vicina colonia, un felino molto amichevole e benvoluto dai visitatori, che in vita era diventato una vera e propria mascotte.
Verso il fiume Tevere, lasciata la quiete del camposanto, si attraversa dapprima piazza Testaccio, il cuore commerciale del rione, e quindi piazza Santa Maria Liberatrice, al centro della sua verace socialità, che ospita l’unica parrocchia del quartiere, Santa Maria Liberatrice appunto, il Teatro Vittoria e un vasto giardino, dove una significativa porzione è stata ri-battezzata, a furor di popolo, piazza Francesco Totti, con tanto di segnaletica. Proseguendo la passeggiata, si raggiunge l’Emporium, dove si trovava niente meno che il grande porto fluviale dell’antica Roma: ne restano alcuni tratti molto ben conservati, incassati nel muraglione del Lungotevere Testaccio, una banchina lunga addirittura mezzo chilometro con gradinate e varchi da cui si accede(va) a due file di magazzini che si affaccia(va)no su un corridoio criptoportico. Le dimensioni dell’infrastruttura non devono sorprendere, perché qui arrivavano le merci provenienti da tutto il bacino del Mediterraneo destinate a Roma, che una volta sbarcate al porto di Ostia proseguivano il loro viaggio a bordo di zattere trainate lungo la terra ferma da grandi buoi che risalivano il Tevere fino all’Urbe, che nel II secolo d.C. con oltre un milione e mezzo di abitanti era la più grande città della storia dell’umanità.
Poco distante dall’attuale indirizzo del Roma Club Testaccio, il primo circolo dei tifosi giallorossi, fondato nel quartiere addirittura nel 1969, dopo una sosta al nuovo mercato rionale, polo gastronomico dal design minimale e contemporaneo, ci si tuffa nella storia della Roma, intesa come squadra, non solo in quella di Roma. E allora, se il tema della passeggiata diventa la squadra giallorossa, c’è un posto imperdibile da visitare, un’atmosfera da respirare: bisogna salire al Monte Testaccio, approfittando delle visite guidate i cui partecipanti si raccolgono ai piedi di quello che viene chiamato familiarmente il Monte dei Cocci. Naturalmente non è un monte, ché a Roma ci sono solo colli, bensì una vecchia discarica a cielo aperto. Già, proprio così: un enorme accumulo di materiale di scarto. Questa collina artificiale, alta poco più di 50 metri con una circonferenza di circa un chilometro, è difatti una grande area archeologica di immenso valore, formata interamente da cocci, che in latino si chiamano testae, da cui evidentemente il toponimo Testaccio. Ma da dove arrivano tutti questi cocci? Questi cocci sono nient’altro che i frammenti di oltre cinquanta milioni di anfore. Tante sono quelle utilizzate nell’arco di qualche secolo per trasportare l’olio d’oliva dalle provincie africane e iberiche fino a Roma.
Queste grandi anfore a causa della rapida alterazione dei residui d’olio un tempo contenuto all’interno, non erano più riutilizzabili e quindi andavano smaltite, come si direbbe oggi. Una volta svuotate venivano quindi frantumate a poca distanza dall’Emporium e i resti, dopo essere stati trattati con calce al fine di impedire lo sviluppo dei batteri portati dalla decomposizione del contenuto, erano accumulati gli uni sugli altri, favorendone la coesione e così raggiungendo, a partire dal X secolo, l’attuale conformazione: una collina, diventata la sede ideale dei festeggiamenti carnascialeschi, ispirati alle antiche festività romane dei Saturnali, che prevedevano addirittura la celebrazione di cruente corride concluse con la mattanza di maiali e tori, fra l’ebbrezza generale. In seguito emerse una funzione religiosa del Monte dei Cocci, che consisteva nella rappresentazione della Via Crucis fino sulla sommità del colle, come testimonia la croce in ferro che dal 1914 si trova lì. Tutta l’area che chiamiamo Testaccio ancora nel medioevo era una vasta zona soggetta alle alluvioni del Tevere, comunque malsana a causa della malaria e, pur dentro le mura, popolata da contadini, emarginati dalla città e poveri.
Nonostante il degrado che caratterizzava l’area, il territorio pianeggiante e la presenza di collegamenti fluviali e terrestri furono alla base della decisione, assunta nelle pieghe del primo piano regolatore di Roma, di prevedere le operazioni di bonifica necessarie a destinare il territorio all’insediamento di una serie di attività industriali, quali ad esempio il grande mattatoio cittadino, i mercati generali agroalimentare e ittico e il parco ferroviario. Il rione nacque quindi come propaggine residenziale destinata agli operai addetti alle attività che si andavano via via insediando lungo l’asse dell’Ostiense: in un contesto di urbanizzazione programmata, che a Roma non aveva precedenti. Lo spazio tra il Monte dei Cocci e le mura aureliane venne lasciato ad uso pubblico, consacrandolo a destinazione tradizionale delle gite domenicali e delle “ottobrate” dei romani dove il vino scorreva a volontà, e proprio la particolare conformazione della collina che permette la circolazione dell’aria al proprio interno, favoriva la conservazione dei vini, offrendo un incentivo ai residenti più intraprendenti che avviarono l’attività di numerose fraschette, le tipiche aree di ristoro e svago dei romani, e che forse sono le remote antenate dei tanti locali che ancora oggi si trovano ai piedi dell’ottavo colle e che richiamano i festeggiamenti di un tempo.
Peraltro, la crescita tumultuosa del quartiere determinò un abusivismo edilizio caotico che deturpò gran parte di quella zona un tempo destinata a prati, al punto che alla fine degli anni Venti dello scorso secolo si rese necessario un intervento di recupero. Così, all’interno di quel perimetro ai piedi del Monte dei Cocci grazie alle risorse di Renato Sacerdoti, un facoltoso imprenditore che decise di investirvi, fu realizzato il Campo Testaccio, progettato sul modello degli stadi all’inglese, in particolare quello dei campioni d’Inghilterra dell’epoca, l’Everton Football Club, il mitico Goodison Park. Una volta realizzato, ben sette ingressi si affacciavano su via Nicola Zabaglia alla base della tribuna principale lunga 112 metri e coperta nella parte centrale da una tettoia di 64 metri sorretta da 6 pilastri. Era il luogo destinato alle autorità, ai soci vitalizi e alla stampa, potendo contenere in tutto 5000 persone disposte su 21 gradoni, mentre al di sotto di essa si trovavano vari locali di servizio e gli spogliatoi da cui i giocatori accedevano al campo attraverso un passaggio sotterraneo. La tribuna opposta, denominata dei “distinti”, era lunga 120 metri, aveva 31 gradoni e poteva contenere fino a 8000 spettatori ed era dotata ai fini della sicurezza del pubblico di un impianto che, sotto il peso della folla, indicava il raggiungimento della massima capienza. Dietro le porte del campo si alzavano le gradinate definite “popolari” che erano sopraelevate di 4 metri dal suolo e lunghe 60 metri per 10 di altezza e 15 gradoni che potevano contenere circa 2000 persone ciascuna.
Fra le tribune e la rete che delimitava l’area di gioco si ricavarono poi due “parterre” leggermente inclinati lunghi ciascuno 120 metri e larghi 7 ove potevano trovare sistemazione in piedi, e quindi a un prezzo più contenuto, altri 6000 spettatori. L’impianto comprendeva anche l’abitazione del custode e dell’allenatore della squadra, un edificio sul cui muro esterno era dipinto un grande stemma della Roma, verniciato di giallo oro e rosso pompeiano. Il terreno di gioco era ricoperto da un soffice tappeto erboso dotato per l’epoca di un innovativo sistema di drenaggio, costituito da un reticolo di canaletti sotterranei che permettevano l’irrigazione e il deflusso dell’acqua piovana, mentre sotto il prato era stato collocato uno strato di carbonella, che insieme alla struttura a schiena d’asino, consentiva che non si formassero delle pozzanghere. L’ingente investimento per la costruzione della casa della Roma era stato sopportato da un personaggio centrale nella storia del sodalizio capitolino, il cosiddetto banchiere di Testaccio, Renato Sacerdoti, che ne diventerà il secondo presidente, dopo il fondatore. I prezzi erano abbastanza elevati per l’epoca, e tuttavia lo stadio che poteva contenere fino a 23 000 spettatori era spesso esaurito, mentre chi era senza biglietto saliva al Monte dei Cocci da dove si vedeva meno della metà del campo a causa della tettoia della tribuna, ma spesso si riunivano sino a 5000 persone. Tanto per dare un’idea della passione che suscitava la giovane Roma basti pensare che se il mezzo più usato all’epoca per raggiungere lo stadio era il tram, su 26 linee in funzione allora nella Capitale d’Italia ben 11 consentivano di arrivare al Campo Testaccio.
L’entusiasmo popolare e la passione travolgente per la neonata squadra capitolina hanno una spiegazione, che ci porta a ricordare e spiegare la nascita della Serie A. Infatti, erano più o meno trent’anni che in Italia si organizzavano tornei di calcio: quello che è considerato il primo vero campionato risale al 1898, venne disputato in un’unica giornata tra quattro squadre e vinto dal Genoa. Negli anni successivi i campionati inclusero più squadre, si articolarono meglio, nacquero categorie diverse, gironi regionali e successive finali sino all’ultima partita della stagione che assegnava il titolo di campione d’Italia. Il tutto sotto la lente della Federazione Italia Giuoco Calcio, la FIGC, che tuttavia non riusciva a trovare l’accordo delle società iscritte a realizzare un assetto più razionale. Il problema era inoltre che le squadre del Nord Ovest erano nettamente più forti di quelle del Nord Est, del Centro e del Sud, ed ogni edizione era in qualche modo diversa nella sua formula dalle precedenti, dal momento che allo scopo di assegnare il titolo nazionale la FIGC cercava di coinvolgere tutto il paese, organizzando degli spareggi tra le squadre vincitrici dei diversi campionati, che peraltro vedevano prevalere sempre le grandi squadre lombarde, piemontesi o liguri, che avrebbero desiderato limitare il torneo a un girone che coinvolgesse esclusivamente il Nord Italia, scatenando l’opposizione di quelle squadre più piccole che si opposero e nel 1921 si arrivò addirittura a una scissione e si disputarono due campionati diversi, uno vinto dalla Novese (quello ufficiale, con le squadre minori) e uno dalla Pro Vercelli. I due campionati furono ricomposti l’anno successivo e si adottò una soluzione di compromesso che prevedeva una Lega Nord e una Lega Sud, con una finale tra le vincitrici, ma il divario tecnico tra le due leghe era incolmabile, e a vincere era puntualmente la squadra del Nord: Internazionale, Milan, Juventus, Pro Vercelli e Genoa non avevano rivali, tanto che la prima squadra di un’altra regione a vincere il campionato sarebbe stata il Bologna solo nel 1925, mentre il primo sodalizio non del Nord sarà la Roma, addirittura nel 1942.
Nel frattempo il fascismo aveva preso il potere, tratteggiando l’idea di un campionato unico, più adatto ai sentimenti autarchici e nazionalisti propagandati dal regime. I progetti per l’unificazione delle diverse competizioni regionali erano però complicati dal fatto che, oltre alla prima divisione, l’impianto del campionato di calcio doveva prevedere strutture simili anche per le divisioni minori, a cui partecipavano squadre piccole per cui era logisticamente difficile, o impossibile, prendere parte a campionati di maggiori dimensioni e ambizioni. Tuttavia una scintilla venne in soccorso del regime e fornì il pretesto necessario a legittimare un intervento radicale. Infatti una grave crisi di sistema aveva colpito il mondo del calcio e quasi travolto la FIGC nel 1926, quando giunse al termine un campionato (per la cronaca, vinto dal Torino e poi revocato per una presunta frode che avrebbe determinato un dirigente granata a comprare un derby poi vinto dal Toro 2 a 1 contro la Juventus) rovinato dalle cosiddette “liste di ricusazione”, ovvero sia elenchi stilati dai club che ponevano all’indice arbitri a loro non graditi. Proprio lo sciopero arbitrale che ne seguì portò di fatto il regime, tramite il presidente del CONI dell’epoca Lando Ferretti, ad organizzare una speciale commissione cui venne dato l’incarico di riorganizzare il calcio italiano, nel frattempo ammorbato da sospetti e violenze, che culminarono nella finalissima fra Genoa e Bologna dell’anno precedente, detta “delle pistole”, e vinta alla quarta ripetizione della sfida dai felsinei, in un clima inaudito. Riunitisi in Versilia, in una sala del municipio di Viareggio, e alla presenza dell’on. Leandro
Ferretti presidente del CONI, la speciale commissione composta da Paolo Graziani, Italo Foschi e Giovanni Mauro, presidente dell’Associazione Italiana Arbitri, redasse un documento che venne pubblicato ed approvato dal CONI il 2 agosto del 1926: la cosiddetta “Carta di Viareggio”, che rivoluzionò in maniera sostanziale il calcio italiano, fino ad allora formalmente sport dilettantesco. Con quel documento, per iniziare, si riorganizzò la classe arbitrale, si approvò il professionismo e si cercò di disciplinare il calciomercato.
Venne inoltre ristrutturata la FIGC il cui presidente era Leandro Arpinati, vicesegretario del Partito Nazionale Fascista, e si stabilì di procedere all’organizzazione di un vero e proprio campionato nazionale. Attraverso la “Carta di Viareggio” si dispose fu la chiusura delle frontiere, ispirata dalle idee nazionalistiche propugnate dal fascismo questa decisione colpì duramente i club, che all’epoca contavano più di ottanta calciatori provenienti dall’estero, per lo più da quella Scuola Danubiana che vedeva in austriaci ed ungheresi gli esponenti più illustri, e non piacque ai proprietari più facoltosi di quelle squadre già allora disposte ad effettuare investimenti importanti pur di sopravanzare i propri rivali. Ecco quindi che proprio in risposta all’autarchizzazione del calcio italiano vennero “inventati” gli oriundi. A convincere Benito Mussolini a riconoscere la possibilità di tesserare calciatori figli della “grande Italia al di là degli Oceani” fu Edoardo Agnelli, che di fatto chiese la “grazia” per i figli dei tanti emigrati all’estero nel corso dei decenni precedenti. Così subito dopo che si era arrivati ad annullare il contingente straniero in terra d’Italia, come previsto dalla “Carta di Viareggio”, ecco riaprirsi uno spiraglio nelle frontiere del calcio italiano: nel 1929 furono subito undici gli “stranieri” – ma d’origine nostrana – cui fu permesso di venire a giocare nel Belpaese. Fatta la legge trovato l’inganno, nella migliore tradizione italica.
La ristrutturazione su scala nazionale dei campionati non poteva avvenire in molte realtà locali sulla base delle società esistenti, e non sarà priva di conseguenze, specialmente nelle città del Sud dove vi era una pletora di società di modeste dimensioni e seppure molto amate insignificanti dal punto di vista tecnico. In particolare i maggiori nuclei urbani del Centro-Sud, non esprimevano una singola società che potesse neanche lontanamente competere con i grandi club del Nord. In Toscana ad esempio il calcio si era sviluppato soprattutto lungo la costa a Livorno e Pisa, mentre il capoluogo era sportivamente in ombra, e così pure grandi città come Napoli, Taranto e Bari. Anche nella Roma tanto cara al regime dall’inizio del secolo si era formata una gran quantità di squadre, ma le uniche in grado di imporsi erano la Lazio, l’Alba e la Fortitudo, capaci di vincere in varie occasioni il campionato meridionale ma troppo lontanate dalle squadre del Nord per poterle anche solo impensierire. Quindi per favorire la nascita del campionato nazionale organizzato sulla base di un girone unico, appunto detto all’italiana, dove ogni squadra avrebbe incontrato tutte le altre in casa propria e al loro domicilio allo scopo di determinare la più forte di tutte, si diede avvio a una consistente serie di fusioni fra società della stessa città e nacquero in quegli anni la Fiorentina, il Napoli, la Dominante, che poi si chiamerà Liguria a Genova, il Bari e il Taranto in Puglia, la Fiumana nella città di Fiume, l’Ambrosiana dalla fusione fra l’Internazionale e l’Unione Sportiva a Milano e la Roma.
Il neonato sodalizio capitolino era il risultato della fusione concordata dai dirigenti delle tre società calcistiche che raggiunsero l’intesa: il comm. Italo Foschi, presidente della Fortitudo Pro Roma e promotore della fusione, l’on. Ulisse Igliori, protagonista dell’impresa di Fiume e della Marcia su Roma, squadrista, poi imprenditore e costruttore, presidente dell’Alba Audace, e l’avv. Vittorio Scialoja, raffinato giurista, già ministro della Giustizia e degli Esteri, presidente dell’ Accademia dei Lincei, del Consiglio Nazionale Forense e del Foot Ball Club Roman, che a loro volta avevano aggregato una dozzina di società sportive sorte dal 1900 in avanti e quindi portatrici di un pubblico appassionato e sincero. I colori scelti per caratterizzare la nuova Associazione Sportiva, che nasceva nell’estate del 1927 col nome di Roma, furono il giallo oro e il rosso pompeiano del gonfalone cittadino e il simbolo adottato non poteva che essere la lupa capitolina mentre allatta Romolo, il fondatore di Roma, e suo fratello Remo. Il primo presidente del nuovo sodalizio sarà proprio Foschi che dopo aver pilotato politicamente l’intera operazione, destinato dal regime ad altri incarichi civili lontano da Roma, lascerà lo scranno presidenziale a Renato Sacerdoti, industriale del settore alimentare, un contrabbandiere per i suoi detrattori, certamente un uomo ambizioso e, come il suo predecessore, visceralmente innamorato della Roma, e impegnato nell’impresa di allestire una squadra in grado di competere con gli squadroni del Nord del paese, per questo affidata all’allenatore inglese William Garbutt, il mister per antonomasia, uno dei più prestigiosi e competenti tecnici dell’epoca, che aveva vinto tutto, battendo ogni record, alla guida dell’invincibile Genoa della prima metà degli anni Venti, e che condurrà la neonata Roma alla vittoria della prestigiosa Coppa CONI nel 1928.
acquistando Rodolfo Volk, ottimo centravanti istriano dalla Fiumana, Guido Masetti, eccellente portiere fra i migliori d’Italia dal Verona, e uno dei giocatori più forti dell’epoca, forse il migliore centrocampista del momento, Fulvio Bernardini dall’Inter, che insieme ad Attilio Ferraris IV, primo nazionale e capitano giallorosso, costituirà una coppia affiatata quanto carismatica, il presidente Sacerdoti permetterà alla Roma di contendere la vittoria finale nel campionato 1930/31 alla fortissima Juventus di Edoardo Agnelli, che avrebbe dominato la Serie A per le successive cinque stagioni: il quinquennio d’oro bianconero appunto. Tuttavia il presidente giallorosso non si era perso d’animo e incoraggiando i suoi collaboratori il 1º maggio del 1933 disse loro “Ora possiamo puntare al titolo!”, infatti dopo essere sbarcati al porto di Genova provenienti dal Sudamerica, quella stessa sera arrivarono alla stazione Termini, accolti dai tifosi romanisti in delirio Enrique Guaita e Alejandro Scopelli dall’Estudiantes de la Plata e Andrés Stagnaro dal Racing Club de Avellaneda, acclamati come fra i migliori oriundi in circolazione. Dopo qualche amichevole per integrarsi in un organico già rodato soprattutto Enrique Guaita esploderà letteralmente, conquistando tutti: il 24 settembre 1933 la Roma all’esordio in campionato vincerà a Firenze per 3-1 e l’argentino, oltre a realizzare una doppietta, manderà in visibilio il pubblico con giocate da fuoriclasse.
Guaita inizia a segnare a raffica e diventa lo “spavento delle difese” mentre la Roma terminerà quel campionato solo al quinto posto, dopo il secondo e il terzo degli anni precedenti. Intanto il commissario tecnico della Nazionale, Vittorio Pozzo, arruola proprio l’oriundo Guaita fra gli azzurri, nonostante le 14 presenze già collezionate con la selezione argentina, e la scelta si rivelerà quanto mai azzeccata: il contributo di Guaita, ribattezzato Enrico, risulterà infatti determinante al successo azzurro nei Mondiali di casa del 1934, realizzando il gol decisivo in semifinale contro l’Austria – il fortissimo Wunderteam che aveva superato l’Italia vincendo nel 1932 la Coppa Internazionale – nonché il decisivo assist per Angelo Schiavio, che confezionerà poi la rete della vittoria nella finale con la Cecoslovacchia. L’argentino è ormai un idolo indiscusso del popolo romanista, terminale offensivo implacabile di una squadra che voleva diventare protagonista del calcio italiano. Nel campionato successivo al Mondiale che porterà la Roma al quarto posto, Guaita sarà capocannoniere del torneo con 28 reti in 29 partite (un record ancora imbattuto nei tornei a 16 squadre), e protagonista di imprese memorabili come i tre gol al Torino con cui la Roma espugnerà il Filadelfia o quello a Milano che stenderà l’Inter in casa, o ancora quelli rifilati al Livorno che verrà polverizzato e che gli varranno il soprannome di “Corsaro Nero”, a motivo della maglia utilizzata dalla Roma in diverse occasioni, completamente nera e agitata dalle movenze grintose e veloci dell’argentino.
I tifosi giallorossi erano estasiati dai colpi dell’attaccante ed eccitati dalla possibilità di competere con le rivali per la vittoria dello scudetto, e il presidente Sacerdoti ci credeva davvero al punto di rafforzare ulteriormente la squadra. All’esito della campagna acquisti estiva arriveranno in giallorosso Eraldo Monzeglio dal Bologna e Luigi Allemandi dall’Ambrosiana-Inter, i due terzini della Nazionale. La Roma è ormai pronta, e in molti la candidano come grande favorita del campionato che sta per incominciare, ma a due giorni dall’esordio nel torneo succede l’imprevedibile: i tre argentini della Roma fuggono dall’Italia. Era successo che all’esito della visita di leva – obbligatoria avendo acquisito anche la cittadinanza italiana – i tre erano stati dichiarati abili e arruolati nel corpo dei Bersaglieri. Si trattava di una prassi in realtà ma da quel momento Guaita, che aveva appena ricevuto un considerevole aumento di ingaggio, Scopelli e Stagnaro iniziarono a temere seriamente di dover partire per l’Africa nel contingente italiano diretto in Etiopia ed Eritrea e non credettero alle rassicurazioni della Roma, preferendo la fuga anche a costo di risultare come disertori e non potendo così più tornare non Italia. I calciatori romanisti, si presentarono all’ambasciata dell’Argentina e partirono in automobile per la Liguria e in treno arrivarono in Francia a Marsiglia, imbarcandosi da lì per il Sudamerica su un bastimento merci.
Con la fuga degli argentini, la Roma venne a trovarsi in una situazione di gravissima difficoltà, stante la mancanza della prima punta e del centrocampista offensivo più forte forse del calcio italiano. Ad aggravare la situazione anche la pratica impossibilità di intervenire con qualche acquisto mirato, visto che la campagna acquisti era ormai conclusa: la soluzione andava trovata all’interno dell’organico. Luigi Barbesino non si lasciò travolgere né scoraggiare: in un primo momento l’allenatore giallorosso cercò di ovviare alla bisogna, inserendo un terzino al centro dell’attacco, per poi provare altre soluzioni anche se con scarsi risultati. Per tutto il girone di andata e nella fase iniziale del girone di ritorno la Roma fu condizionata dalla scarsa vena offensiva della squadra che tuttavia si concentrò sulla solidità della difesa dove giganteggiarono Masetti, Monzeglio e Allemandi e De Micheli. A quel punto, l’allenatore giallorosso decise di buttare nella mischia il giovanissimo Dante Di Benedetti, un attaccante del tutto privo di esperienza che tuttavia ripagò la fiducia del mister nel migliore dei modi, mettendo a segno 7 reti nelle 13 partite disputate e conferendo al reparto offensivo l’efficacia necessaria. Col suo innesto la Roma risolse d’incanto i propri problemi offensivi, e spinta dal suo pubblico, nel fortino di Campo Testaccio, inanellò una serie di risultati che la portarono a scalare imperiosamente la classifica, tanto da insidiare il primo posto del Bologna che, infine, riuscì ad avere la meglio per un solo punto vincendo lo scudetto che anche in questo caso la Roma aveva sfiorando, perdendolo beffardamente.
Il Campo Testaccio era il tempio del tifo romanista, dove la passione vivace del popolo giallorosso esplodeva insieme al carattere vigoroso della squadra, tanto che quella leggendaria Roma testaccina è legata in modo indissolubile allo stadio dove si esibiva e imponeva alle avversarie “la legge del Testaccio”, se è vero che dalla partita inaugurale del 3 novembre 1929, vinta 2-1 contro il Brescia, all’ultima gara disputata nel quartiere il 2 giugno 1940, vinta 3-1 contro il Novara, la Roma lì disputerà in poco più di dieci anni 214 partite, fra campionato e coppa nazionale, concludendone la metà senza subire gol dagli avversari, perdendone 30, pareggiandone 34 e vincendo in ben 150 occasioni. In effetti, quando la squadra capitolina usciva dalla botola del sottopassaggio per entrare in campo, le tribune di legno vibravano di un entusiasmo talmente intenso che si diffondeva ai giocatori portandoli ad uno stato di ebrezza agonistica che rimase proverbiale, perché i calciatori sentivano una responsabilità in più: quella dell’appartenenza. Negli spogliatoi Attilio Ferraris IV, il mitico capitano, nonché primo giocatore della Roma a vestire la maglia azzurra della Nazionale italiana, lo ricordava a tutti, quando, mani sul pallone e sguardo fisso negli occhi dei compagni, recitava la formula consolidata del giuramento con la squadra, prima di guidarla in campo: «Chi s’estranea dalla lotta è un gran fijo de ‘na mignotta».
E ci sono gesta di quel tempo che assurgono a leggenda. La sfida Roma contro Juventus del 15 marzo del 1931 è uno di questi casi. Il 15 marzo è un giorno speciale per la storia di Roma antica: sono infatti le Idi di marzo, quando nel 44 a.C., Caio Giulio Cesare viene pugnalato a morte da un manipolo di senatori congiurati scatenando la guerra civile. Invece, tornando al calcio, a solo quattro anni dalla fusione che aveva portato alla nascita del sodalizio giallorosso, per la prima volta, la Roma poteva covare ambizioni tricolori, in quel 1931 le squadre più forti erano i campioni in carica dell’Ambrosiana-Inter dove giocava Giuseppe Meazza, il più forte giocatore italiano dell’epoca, capocannoniere implacabile e Balilla per antonomasia, il Bologna che aveva già conquistato due campionati negli anni precedenti e stava consolidando quel gruppo che sarebbe diventato lo squadrone che tremare il mondo fa, il Genoa e il Torino che stavano esaurendo il loro ciclo di successi degli anni venti – due campionati i rossoblu e uno i granata del trio delle meraviglie – ma erano ancora molto competitive e naturalmente la Juventus che sotto l’egida di Edoardo Agnelli aveva allestito una compagine straordinaria che saprà vincere i successivi cinque campionati inaugurando proprio quell’anno un lungo periodo di supremazia assoluta della squadra bianconera, ossatura della Nazionale italiana vincitrice due volte della Coppa del Mondo nel 1934 e nel 1938 e dell’Olimpiade nel 1936, sotto la guida di Vittorio Pozzo.
C’è grande attesa nella Capitale per un evento mai vissuto prima, lo si attende “cor core acceso”. Non solo è una sfida d’alta classifica, la Juventus infatti si presenta nella Capitale all’incontro valevole per la ventiduesima giornata con 5 punti di vantaggio sulle inseguitrici Roma e Bologna, è qualcosa di più: la Roma infatti non era mai riuscita a vincere contro la Juventus, è una possibilità di riscatto contro la supremazia del Nord nei confronti del resto del paese, è la sfida fra l’energia popolana della giovane squadra romanista composta quasi esclusivamente da romani e l’aristocratica rivale per eccellenza, la squadra più facoltosa e ambiziosa, espressione dell’antica capitale sabauda, contro la nuova capitale d’Italia. Per l’occasione l’allenatore dei giallorossi, l’inglese Burgess, cultore di un calcio dinamico e pragmatico, studiò una mossa per arginare l’ala sinistra bianconera Mumo Orsi, il più temibile degli avversari, spostando nella posizione di mediano laterale destro il capitano giallorosso Tilio Ferraris IV che in linea con il suo carattere spavaldo si impegnò solennemente coi tifosi: “Domani Orsi nun deve beccà palla.” E i tifosi puntuali accorsero riempiendo come sempre al Campo Testaccio, 25 000 presenza si dice, e un paio di migliaia di appassionati sul Monte dei Cocci crearono una cornice di pubblico mai vista prima, in un’atmosfera d’attesa quasi morbosa: sventolavano fazzoletti, spiccavano ovunque macchie sgargianti di giallorosso, e scintille di elettricità si sprigionavano da ogni parte, mentre la folla continuava ad affluire compatta al Testaccio. La Juventus schierava Combi, Rosetta, Caligaris, Barale, Varglien, Vollono, Munerati, Cesarini, Vecchina, Ferrari, Orsi e la Roma rispondeva con Masetti, De Micheli, Bodini, Ferraris, Bernardini, D’Aquino, Costantino, Fasanelli, Volk, Lombardo e Chini.
Ed ecco che la partita è da poco iniziata, ma sospinta da un tifo immenso la Roma passa subito in vantaggio, già al 6’ infatti quando Ferraris IV allunga al fiumano Volk, segue il passaggio di quest’ultimo a Lombardo che lascia partire una sassata e palla in rete! La Juventus tenta una reazione ma il punteggio rimane invariato sull’1-0 sino alla fine del primo tempo. Alla ripresa delle ostilità è ancora la Roma ad andare in rete al 50’: Costantino salta Caligaris e centra rapidissimo a Volk, il primo grande attaccante della storia della Roma, ribattezzato Sciabbolone per i suoi tiri potentissimi, che nella circostanza infila l’angolo alto con un colpo “de testa da fa ‘ncantà”, e così il risultato diventa 2-0, mentre Testaccio esplode in una gioia mai vista prima, del resto con la Juventus i giallorossi non avevano vinto mai, bensì perso in quattro occasioni e pareggiato una volta. I bianconeri non ci stanno e la partita, giocata senza risparmio di colpi duri, s’incattivisce ulteriormente. Cesarini si scontra con Fasanelli e il capitano Ferraris IV si butta nella mischia per difendere il compagno ma viene sgambettato e finisce a terra, cercando poi un contatto non proprio amichevole con Cesarini e così l’arbitro per non sbagliare li espelle entrambi. Al 62’ Caligaris intercetta con le mani un pallone destinato in rete, è rigore e si incarica della battuta Fulvio Bernardini che senza esitazioni tira e fa 3-0. A questo punto il capitano Ferraris IV, che non era rientrato negli spogliatoi ma era rimasto semi-nascosto accomodandosi sulle scale dentro la “buca” dell’ingresso al campo, perché voleva incoraggiare i compagni, facendo capolino, si liberò di coloro che cercavano di trattenerlo per entrare in campo a baciare “Furvio nostro” Bernardini, due icone del calcio giallorosso. La Roma è in trance agonistica mentre la Juventus è alle corde, con un guizzo al 79’ Fasanelli sfrutta un errato retropassaggio della difesa bianconera e insacca agevolmente per il 4-0 mentre all’87’ arriva il definitivo 5-0, in seguito ad un’azione travolgente del duo De Micheli e Costantino, con cross a Bernardini che insacca perentorio: “Cari professori appatentati sete belli e liquidati perché Roma ce sa fa”.
Quel successo avvicinò i giallorossi a soli tre punti dalla Juventus capolista, che quel campionato lo vincerà comunque, in ragione di qualche passaggio a vuoto degli inseguitori dovuto anche ai provvedimenti disciplinari che indebolirono la Roma, squalificandone diversi giocatori, dopo un infuocato derby di maggio pareggiato 2-2 contro la Lazio e terminato in rissa a causa degli schiaffi che volarono fra il difensore romanista De Micheli e niente meno che il presidente della società biancoceleste, il generale Vaccaro. Tuttavia quella goleada inflitta alla Juventus a corredo della prima vittoria contro i bianconeri, ispirò il regista romano Mario Bonnard, tanto è vero che l’anno successivo nel 1932 uscirà nelle sale cinematografiche “Cinque a zero” la prima pellicola cinematografica italiana a parlare di calcio. Il cinema e il calcio intrattengono rapporti a far data da un film inglese del 1911, “Harry the Footballer”, un cortometraggio muto diretto da Lewin Fitzhamon. Quella fu la prima opera di finzione che si conosca mai realizzata sul calcio e fu di fatto la prima rappresentazione cinematografica di questo sport. Tutt’altro che memorabile, verosimilmente. Una stella del calcio è rapita dalla squadra avversaria, finché viene liberato dalla sua ragazza, appena in tempo per giocare una partita e segnare il gol della vittoria. Distribuito dalla Hepworth, il film uscì nelle sale britanniche nell’aprile del 1911, e sappiamo che venne distrutto nel 1924 dallo stesso produttore, Cecil M. Hepworth, che trovandosi in gravi difficoltà finanziarie giunse a tanto per poter recuperare il nitrato d’argento della pellicola. “Cinque a zero” invece è una commedia di circa 70 minuti che racconta del presidente di una squadra di calcio, interpretato da Angelo Musco, all’epoca attore di gran successo, preoccupato perché il capitano della sua squadra è distratto, nella pellicola l’attore Osvaldo Valenti, uno dei protagonisti della cinematografia italiana del ventennio fascista, perché innamorato di una cantante del varietà, interpretata da Milly, pseudonimo di Carolina Mignone, all’epoca conosciuta soubrette d’avanspettacolo. Naturalmente tutto si riconcilierà in un classico lieto fine, addirittura con la conversione della moglie del presidente che si appassionerà al calcio, mentre la squadra del marito trionferà con un largo 5-0, per l’appunto.
Il film fu girato negli stabilimenti della Caesar Film di Roma ed memorabile anche perché alle riprese parteciparono Attilio Ferraris IV, Fulvio Bernardini, Arturo Chini, Bruno Dugoni, Fernando Eusebio, Casare Augusto Fasanelli, Guido Masetti, Attilio Mattei e Rodolfo Volk, impersonando se stessi. Purtroppo questo documento è introvabile dal momento che sono andate distrutte le poche copie conservate, ed è quindi praticamente invisibile. Bonnard, però, non fu l’unico a essere folgorato da quella squadra, capace di tante imprese. Infatti il paroliere Antonio Castellucci le dedicò una canzone, anzi, la “Canzona”, con la “a”, riadattando il tango “Guitarrita” prendendone le note e plasmandole con i nomi dei calciatori romanisti scesi in campo quel 15 marzo. Nasce così all’epoca “La Canzona di Testaccio” che non è frutto di quella creatività collettiva che risiede nelle curve e che tanti capolavori ha regalato alla cultura sportiva italiana, ma che grazie ad una felice intuizione ed alla determinazione di Sandro Ciotti. che consente alle giovani generazioni di conoscere i miti di una Roma bellissima, spesso presa a modello di tenacia e gagliardia, inno arrivato sino a noi.
Infatti l’attuale traccia musicale facilmente rintracciabile su internet non è quella originale ma una versione registrata da Vittorio Lombardi per il popolare radiocronista e giornalista sportivo che l’aveva sentita canticchiare da Aldo Donati, centrocampista di quella Roma testaccina, mentre raccoglieva la sua testimonianza per il documentario sonoro e fotografico del 1980 intitolato “La Roma racconta”. All’interno Sandro Ciotti voleva inserire una rivisitazione della “Canzona di Testaccio” ma si rese conto che non ne esisteva nessuna registrazione. Si rivolse quindi al romano Vittorio Lombardi, un musicista che si era affermato negli anni Sessanta, e che diede la sua disponibilità. La fretta era tanta che Ciotti non volle prenotare uno studio di registrazione, ma raggiunse Lombardi al “Capriccio” una traversa di Via Veneto la sera stessa per incidere il brano direttamente al registratore, ed è proprio il caratteristico fruscio a dare al brano quell’effetto che lo fa sembrare originale. Grazie alla felice intuizione di Ciotti, quel riadattamento di Castellucci è diventato una delle più esaltanti colonne sonore della curva romanista.
Nel 1981, prima di un Roma-Juventus, viene esposto dalla Sud uno striscione a tutta curva: “Roma, Testaccio ti guarda”. E non dovrebbero occorrere altre motivazioni, per gettare il cuore oltre l’ostacolo.
[Disclaimer. Le immagini digitali e/o fotografiche utilizzate sono estratte in rete e principalmente (ma non solo) dalle pagine https://it.m.wikipedia.org/ dove si legge la dichiarazione che le fotografie sono nel pubblico dominio poiché il loro copyright è scaduto o altrimenti possano essere riprodotte in osservanza dell’articolo 70 comma 1 della legge 22 aprile 1941 n. 633 sulla protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio, modificata dalla legge 22 maggio 2004 n. 128, e comunque della normativa vigente, in ragione delle mere finalità illustrative e per fini non commerciali, non costituendo concorrenza all’ipotetica utilizzazione economica dell’opera di chiunque altro].