Nell’Italia del 1938 Árpád Weisz – allora l’allenatore più vincente della sua epoca, e signorile innovatore del calcio italiano – diventa improvvisamente solo un ebreo. In quella allucinata realtà delle leggi razziali non contano doti e talenti, né ha un valore essersi conquistate con il proprio lavoro stima e popolarità ovunque, vincendo da allenatore uno scudetto con l’Ambrosiana-Inter, ad appena trentaquattro anni, e altri due con il Bologna, “lo squadrone che tremare il mondo fa”, così era nominata la squadra felsinea, dominatrice a Parigi delle squadre danubiane e dei maestri inglesi, sconfitti nel 1937 al Torneo Internazionale dell’Expo Universale, vinto magnificamente dai rossoblu.
In anni in cui gli allenatori dirigono gli allenamenti in giacca e cravatta al centro del campo o dalla tribuna, Weisz è il primo a guidare personalmente i giocatori, indossando pantaloncini e maglietta, provando in allenamento i movimenti della squadra, e applicando quelli che solo molto tempo dopo verranno chiamati “schemi”. È il primo Weisz a introdurre carichi di lavoro appositamente elaborati per ciascun giocatore e a studiare la composizione ideale della dieta degli atleti. La cura maniacale con cui svolge comunque garbatamente il suo lavoro lo porta a non trascurare nessun dettaglio, fino a visionare personalmente gli allenamenti e le partite dei ragazzi del settore giovanile. Nel club nerazzurro di Milano, in questo modo Weisz scoprirà un ragazzino di sedici anni, che farà debuttare in prima squadra l’anno successivo, che nella stagione dello scudetto nerazzurro vincerà, a neanche vent’anni, la classifica dei cannonieri: era Giuseppe Meazza, il Balilla, ancora oggi ricordato come il più grande attaccante italiano di tutti i tempi. Fu l’Inter – contrazione di Internazionale FC – obbligata dal delirio fascista a cambiare denominazione in un più autarchico «Ambrosiana», a vincere appunto nella stagione 1929-1930 il primo campionato a girone unico nella storia del calcio italiano, sotto la guida dell’allenatore ungherese che a trentaquattro anni è tuttora il più giovane allenatore straniero ad aver mai trionfato in Serie A. Eppure a una certo punto, all’improvviso, non conteranno più le esistenze individuali: succede che si diventa un numero senza importanza, perché altri hanno deciso così sulla base di incredibili presupposti. E tutti, ma proprio tutti, si adegueranno nell’indifferenza generale, senza avvertire il benché minimo disagio. Questo deve rammentarci il Giorno della Memoria – il 27 gennaio – a ricordo di quel giorno del 1945 quando le truppe dell’Armata Rossa, impegnate nell’offensiva in direzione della Germania, liberarono il complesso del Konzentrationslager di Auschwitz il più grande ed efficiente centro di sterminio della Germania nazista.
La vittoria di ben tre campionati – nelle stagioni 1929/30 con l’Ambrosiana-Inter e 1935/36 e 1936/37 con il Bologna – vale un posto nella storia del calcio italiano, posto che invece Weisz non ha mai occupato, essendo stato letteralmente cancellato, pure avendo avuto un ruolo di profondo innovatore, anche sotto il profilo tattico. Il giovane allenatore ungherese era esponente di quella scuola che allora veniva chiamata danubiana e che sarebbe esplosa negli anni a venire ma già si caratterizzava per passaggi precisi e rasoterra in luogo di avventurosi rilanci in verticale che caratterizzavano il gioco di allora. Iscritto pure senza continuità fra i pochi estimatori nel campionato italiano del famoso Sistema, detto comunemente WM, in ragione della disposizione dei giocatori in campo, ma forse ispirato dalla sintesi tattica realizzata da Hugo Meisl con il Wunderteam austriaco, adotta il quadrilatero di centrocampo, avanzando i due mediani e arretrando le due mezzeali, il peso del gioco viene così redistribuito tra tutti e dieci i giocatori, che hanno compiti sia offensivi che difensivi, e si vedono i primi terzini che attaccano. Il Sistema ideato da Herbert Chapman, il leggendario allenatore dell’Arsenal FC – il cui busto in bronzo si trova ancora oggi all’ingresso della nuova casa dei Gunners, l’Emirates Stadium, trasferitovi dal vecchio stadio di Highbury, sempre a Londra -poi si imporrà come il modulo di gioco che farà grande il Torino, raffinato magnificamente da un altro ebreo ungherese, il mitico Ernest Egri Erbstein, anche lui osannato ma duramente colpito dalle prime leggi razziali fasciste emesse a partire dal 1938.
I campi di sterminio, il cui scopo unico o principale è quello di uccidere i prigionieri che vi giungono, e che erano un sottotipo dei campi di concentramento, furono creati dalla Germania nazista durante la seconda guerra mondiale per attivare la cosiddetta “soluzione finale”, che consisteva nell’uccisione di tutti gli ebrei d’Europa, almeno quelli compresi nel perimetro politico-militare del Terzo Reich. Sulla base di un complesso ed efficiente programma organizzativo, i campi di sterminio nazisti causarono la morte di circa tre milioni di ebrei e costituiscono l’unico caso nella storia di una struttura detentiva studiata appositamente, secondo tecniche scientifiche e pianificazione di tipo industriale, per distruggere un’intera popolazione sulla base di concezioni ideologico-razziali; attività di annientamento che rappresentò la fase culminante e più tragica della Shoah. Tuttavia la politica dello sterminio nel Novecento non è terminata lì ad Auschwitz, purtroppo. Sarebbe sufficiente ricordare i Killing Fields cambogiani del regime comunista di Pol Pot, che a causa dell’elevata mortalità, delle durissime condizioni di vita e delle finalità con cui fu condotto il genocidio, che non consisteva solo nell’eliminazione di ogni nemico politico ma anche nella riduzione della popolazione cambogiana tramite omicidi di massa, sono ricordati con terrore: famigerato il campo S-21, che oggi è un museo dedicato al genocidio, allora luogo di internamento per i prigionieri politici, dove su 17.000 prigionieri sopravvissero solo 7 persone. Più in generale la triste contabilità del genocidio, inteso come atto disumano commesso con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, conta numerosi esempi oltre all’Olocausto e alla “pulizia” dei Khmer in Cambogia, ma annovera, a partire dal Medz Yeghern, il genocidio di quasi due milioni di armeni, che è stato il primo caso moderno di persecuzione sistematica e di sterminio pianificato di un popolo, le storie agghiaccianti dal Ruanda, uno dei più sanguinosi episodi della storia dell’umanità, quando per circa 100 giorni, vennero massacrate sistematicamente almeno un milione di persone, prevalentemente di etnia Tutsi, fino alla Bosnia dove, fra gli altri, il massacro di Srebrenica è stato il genocidio di oltre 8 000 musulmani bosniaci, per la maggioranza ragazzi e uomini, dai 12 ai 77 anni che furono separati dalle donne, apparentemente per essere interrogati dai paramilitari serbi, in realtà per essere uccisi e sepolti in fosse comuni, nel luglio 1995 durante la guerra nei Balcani.
Per non dimenticare mai che all’improvviso diventi solo un ebreo e scompari nell’indifferenza generale è esemplare la storia di quanto successo proprio ad Árpád Weisz. Nessuno fiatò, nemmeno a Bologna, una città di trecentomila abitanti che le imprese della squadra di Weisz avevano reso celebre in tutta Europa, e dove l’ungherese viveva felice con la sua famiglia ed era amato da tutti, apprezzato per il suo tratto umano e non solamente per i successi sportivi. Non fiatò nemmeno Renato Dall’Ara, il presidente del sodalizio rossoblu, un industriale reggiano ben introdotto nel regime fascista, cui ancora oggi è dedicato lo stadio di Bologna. Propio in quello stadio solo dal 2009 verrà posta una targa che ricorda Weisz e la sua famiglia. Allora però, non fiatarono i prestigiosi dirigenti del club, non fiatarono i suoi adorati giocatori, non fiatarono i tifosi che lo avevano idolatrato fino a pochi giorni prima. Non fiatarono i suoi colleghi allenatori, nessuno si scompose, non fiatarono i giornalisti che ne avevano magnificato le gesta e che allora governavano già gli umori delle folle di quello che era già diventato lo sport nazionale per eccellenza. E non fiatarono nemmeno i genitori dei compagni di scuola di suo figlio Roberto, quando improvvisamente non si presentò più a scuola, né fiatarono i suoi vicini di casa. È successo così, a milioni di esseri umani, solo qualche decina di anni fa, e ancora succede ogni giorno, perché il dramma di Auschwitz non è una questione europea, non è nemmeno esclusivamente il simbolo dello sterminio degli ebrei, o esclusivamente degli omosessuali, o dei rom, dei disabili, dei dissidenti politici, ma un ricordo collettivo che trascende ogni appartenenza a minoranze, a stati o a comunità.
Quella del 27 gennaio di ogni anno è la memoria necessaria ad essere umani e coscienti di quale orrore porta l’odio, di quali danni fa la segregazione, di quali atrocità implica la colpevolizzazione della diversità, l’estremismo ideologico, la guerra.
Post Scriptum. È doveroso a conclusione del mio originale contributo segnalare un libro che commuove e indigna, e che va letto tutto d’un fiato. Weisz, per tornare alle riflessioni che ho svolto, non lo conosceva bene nemmeno Enzo Biagi, bolognese autentico e grande tifoso del Bologna. A Matteo Marani ci sono voluti tre anni di scrupolosa ricerca per realizzare questa lettura imperdibile, perché gli pareva di inseguire un fantasma. E ora, giunto alla terza edizione (a cura di Diarkos), questo prezioso libro che si intitola Dallo scudetto ad Auschwitz ha contribuito in maniera determinante alla riscoperta della figura di Árpád Weisz, dopo decenni di oblìo, ed è arricchito di un apparato fotografico all’altezza.
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