Grande Guerra. Chiamiamo così il più grande conflitto armato mai combattuto sul pianeta, fino alla successiva Seconda guerra mondiale. Fu un massacro, ed ebbe inizio il 28 luglio 1914 con la dichiarazione di guerra austro-ungherese rivolta al Regno di Serbia, in seguito all’assasinio dell’arciduca erede al trono d’Austria-Ungheria Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este e della moglie Sophie Chotek von Chotkowa avvenuto il 28 giugno 1914 a Sarajevo durante la solenne celebrazione della festa nazionale serba, per mano del nazionalista diciannovenne serbo Gavrilo Princip. Certo è paradossale: l’arciduca infatti era forse l’unico austriaco autorevole che fosse comprensivo verso i nazionalisti serbi, eppure per un gioco del destino morì. Da questo avvenimento scaturì tuttavia una drammatica crisi diplomatica che infiammò l’Europa, e non solo. A causa del gioco di alleanze formatesi nei decenni precedenti, nella guerra furono coinvolte le maggiori potenze mondiali, e le rispettive colonie, in due blocchi contrapposti: da una parte gli Imperi centrali (quello tedesco, quello austro-ungarico e quello ottomano), dall’altra gli Alleati (principalmente la Francia e la Gran Bretagna, l’Impero russo e quello giapponese). Risultato? Morirono ventiquattro milioni di persone, solo durante il conflitto, fra militari e popolazione civile.
3 agosto del 1914. Quel giorno la Germania dichiarava guerra alla Francia e iniziava le operazioni sul suo fronte occidentale, secondo il cosiddetto “Piano Schlieffen” che prendeva il nome dal suo autore, il capo di Stato Maggiore tedesco e feldmaresciallo Alfred Graf von Schlieffen, appunto. La strategia prevedeva una rapida vittoria sulla Francia attraverso la mobilitazione del potente esercito tedesco, che, senza tenere conto della neutralità di Belgio e Paesi Bassi, doveva di sorpresa – e molto scorrettamente – dilagare attraverso di essi in direzione sud-ovest attraverso le Fiandre verso Parigi, colpendo la Francia in un settore completamente sguarnito. Tuttavia le cose non andarono come previsto, e dopo alcuni iniziali successi i tedeschi iniziarono a rallentare la loro corsa. Intanto i belgi resistettero. Anche se militarmente travolti, i civili di quel paese non si persero d’animo e non collaborarono affatto con l’invasore, sabotandone sistematicamente le manovre: a volte allagando la campagne altre volte trasformandosi in cecchini. E poi l’intervento del Corpo di spedizione britannico: il contingente dell’esercito di Sua Maestà, numericamente ridotto ma ben addestrato ed esperto, inviato in Francia e in Belgio in aiuto dell’esercito francese, si rivelò sorprendente. I britannici si scontrarono la prima volta nella località di Mons il 23 agosto 1914 contro il potente esercito teutonico, e, mentre contemporaneamente l’esercito francese veniva schiantato dalle truppe germaniche nelle Ardenne e in Lorena, inglesi e scozzesi si batterono validamente contro i tedeschi mettendo in mostra disciplina e combattività e infliggendo sensibili perdite al nemico, prima di ripiegare per evitare di essere accerchiati.
In un certo senso, entrambi i contendenti uscirono vincitori a Mons. I britannici, in inferiorità numerica, riuscirono infatti a trattenere per ben 48 ore la I.Armee-Korps, che appariva inarrestabile infliggendole pesanti perdite. Gli inglesi riuscirono anche a ritirarsi con ordine, raggiungendo il loro obbiettivo primario, cioè impedire l’attacco tedesco alla V armée dell’esercito francese, proteggendola. Fu ina prova utile al morale degli uomini, poiché fu il primo scontro sul continente in cui venissero coinvolti soldati inglesi dalla Guerra di Crimea, e vi era grande incertezza su come essi si sarebbero comportati. Al contrario i tedeschi capirono di aver subito un duro colpo da un avversario che precedentemente avevano considerato incapace di opporsi seriamente alla loro avanzata, quasi deridendolo. Mons rappresentò tatticamente una sconfitta per la Germania, ma, comunque, anche una vittoria strategica: nonostante fossero stati temporaneamente bloccati dagli inglesi ed avessero sofferto pesanti perdite, riuscirono lo stesso ad attraversare la barriera costituita dal canale Mons-Condé, quello stesso giorno sia i francesi da Charleroi sia i belgi da Namur cedettero alla pressione tedesca e iniziarono a ripiegare mentre i tedeschi avanzano in territorio francese, trovandosi fin quasi alle porte di Parigi – abbandonata dal governo transalpino, che si era trasferito a Bordeaux, per prudenza – prima di essere bloccati sulla Marna.
La prima battaglia della Marna fu decisiva per il corso degli eventi successivi, e tuttavia sorprendente. Infatti l’esercito tedesco arrivato fino a pochi chilometri dalla capitale francese, venne inaspettatamente contrattaccato dall’esercito francese che, nonostante la precedente sconfitta e la lunga ritirata dalle Ardenne, aveva mantenuto la coesione e lo spirito offensivo. La battaglia si svolse tra il 5 e il 12 settembre 1914 e si concluse con la vittoria anglo-francese grazie anche a una serie di errori strategici abbastanza clamorosi dell’Alto comando tedesco, che indusse l’esercito del Kaiser a ripiegare dietro la Marna e poi sull’Aisne dove francesi e britannici tuttavia non li inseguirono contrattaccando. E anche questo fu sorprendente. La prima battaglia della Marna tuttavia segnò un momento decisivo della prima guerra mondiale, perché decretò il fallimento degli ambiziosi piani tedeschi e delle loro speranze di vittoria entro sei settimane, rinsaldò la resistenza e la volontà degli Alleati, indusse i russi ad attaccare la Germania da est e trasformò la guerra in una lunga lotta di logoramento nelle trincee, che sarebbe continuata nel fango per altri quattro lunghi anni fino alla sconfitta finale della Germania imperiale.
Tornando all’esito dello scontro sulla Marna, nei mesi successivi i due eserciti nemici cercarono di aggirare reciprocamente il fianco settentrionale dell’avversario, per questo i combattimenti si estesero progressivamente verso nord, ancora nella regione belga delle Fiandre, mentre lungo la linea del fronte presero a comparire i primi sistemi di trincee. Alla fine di novembre del 1914, dopo la conclusione della prima battaglia di Ypres, la situazione giunse a un punto di “stallo”: la guerra di movimento voluta dai tedeschi cessò e il fronte si stabilizzò lungo una linea continua di trincee estesa dal Mare del Nord alla Svizzera, dietro cui i contendenti anglo-francesi e tedeschi si ammassarono a difesa dei reciproci territori. Intanto, con l’approssimarsi del primo Natale “di guerra”, furono intraprese diverse iniziative a favore della pace: una Open Christmas Letter [in pratica: una lettera aperta di Natale] fu pubblicamente sottoscritta da un’associazione femminile britannica e indirizzata alle “donne di Germania e Austria” come messaggio di pace, mentre il 7 dicembre 1914, il Papa Benedetto XV avanzava la proposta di sottoscrivere una tregua natalizia tra i governi belligeranti, chiedendo che “i cannoni possano tacere almeno nella notte in cui gli angeli cantano”. Ma la lettera delle donne venne ignorata e la richiesta papalina ufficialmente respinta. L’assurda carneficina sarebbe continuata.
Eppure un «miracolo» avvenne comunque, quel Natale del 1914. Infatti circa 100.000 soldati britannici, francesi e tedeschi furono coinvolti in una cessazione informale delle ostilità, lungo il fronte occidentale. Nei primi mesi del conflitto, quando ancora la tremenda guerra di trincea era agli inizi, gli episodi di tregue spontanee tra le opposte fazioni non costituirono episodi rari: in molti settori si instaurò un rapporto di “vivi e lascia vivere” tra i soldati, e unità opposte schierate a stretto contatto limitarono spesso gli atteggiamenti e permisero cessate il fuoco non ufficiali per permettere il recupero di morti e feriti dalla “terra di nessuno”. Ma a Natale successe qualcosa di più straordinario. La vigilia i tedeschi iniziarono a cantare e gli inglesi a rispondere, cantando a loro volta, ed iniziando timidamente a scambiarsi gli auguri di Natale. Poco a poco, i più intraprendenti iniziarono a incontrasi nella “terra di nessuno” scambiando piccoli doni: alcool, cibo e tabacco, fino a veri e propri souvenir, come bottoni e cappelli del propio esercito. La tregua consentì anche di riportare dietro le loro linee i cadaveri dei commilitoni caduti, allo scopo di dare loro almeno pietosa sepoltura. Britannici e tedeschi concordarono una tregua fino alla mezzanotte di Natale, che invece durò poi fino alla mezzanotte del giorno successivo, offrendo a quegli uomini che si stavano scannando solo poche ore prima, la possibilità di parlarsi e di fare conoscenza amichevolmente. I soldati chiacchieravano, avevano molte cose in comune. Vivevano negli stessi campi, sotto la stessa pioggia e odiavano la guerra. E poi, erano curiosi. Come si stava dall’altra parte? Un ufficiale inglese apprese con sconcerto che il suo omologo tedesco credeva fermamente di combattere per la libertà. “Impossibile”, aveva risposto, “noi combattiamo per la libertà”. Sainsbury’s, la seconda catena di supermercati nel Regno Unito, ricavò dalla memoria di quell’evento un memorabile – quanto criticato – spot natalizio.
Molti tedeschi poi parlavano inglese e così poterono dialogare coi loro nemici, senza tardare molto a scoprire una passione in comune: quella per il football, inventato dai britannici e lì già praticato ad altissimi livelli. In Inghilterra infatti il campionato giunto quell’anno alla 27ª edizione era iniziato il 1º settembre 1914 nonostante la guerra, proprio perché si sperava ovunque che potesse terminare rapidamente, e terminerà il 28 aprile 1915 con la vittoria dell’Everton, al suo secondo titolo, guidato dallo scozzese Bobby Parker, che sarà capocannoniere della First Division, detronizzando i campioni dell’anno precedente del Blackburn. Invece la squadra detentrice della Coppa d’Inghilterra era l’Aston Villa di Birmingham, che nel 1913 l’aveva contesa al forte Sunderland vincendo per 1-0, grazie a un goal di Tommy Barber, che poi la Grande Guerra la combatterà per davvero e trincea, servendo come soldato semplice e partecipando alla battaglia di Bois d’Elville e all’attacco di Bois des Fourcaux nell’estate del 1916, quando si combatterà sulla Somme, dove subirà gravi ferite da arma da fuoco alle gambe che lo faranno tornare in Gran Bretagna, dove morirà per la pleurite e la tubercolosi. Il 17th (Service) Battalion, un battaglione di fanteria del Middlesex Regiment, dove Tommy Barber si arruolò ci racconta un’altra storia affascinante: si trattava infatti di uno dei tanti “Pals Batalion”, appositamente costituiti dell’esercito britannico allo scopo di assecondare uomini che si erano arruolati in unità di reclutamento locali, con la promessa che avrebbero servito la patria, ma insieme ai loro amici, vicini e colleghi, arruolati pure loro, piuttosto che essere arbitrariamente assegnati ad altri battaglioni.
Saranno in molti davvero ad arruolarsi fra i calciatori professionisti, motivo per cui il nome più comunemente usato, “The Football Battalion” designerà tre diversi battaglioni: il 17th e il 23rd (Service) Battalion, che serviranno nel Middlesex Regiment e il 16th (2nd Edinburgh) (Service) Battalion che servirà nei Royal Scots, e conterà niente meno che la prima squadra, quella di riserva, diversi membri del consiglio di amministrazione e dello staff, e un considerevole numero di sostenitori del club professionistico scozzese Heart of Midlothian FC di Edimburgo, che si distingueranno nella battaglia della Somme nel 1916. Un sottotenente del Football Batalion che non passò inosservato fu Walter Tull, a lungo giocatore del Tottenham Hotspur e successivamente del Northampton, niente meno che il primo ufficiale colored arruolato nell’esercito britannico. Purtroppo morirà nei pressi del villaggio di Favreuil il 25 marzo del 1918 durante la battaglia di Baupaume, rimanendo laggiù per sempre. Il suo corpo non fu mai recuperato infatti, nonostante gli sforzi, tra gli altri, di Tom Billingham, suo amico e portiere del Leicester City, il più vicino a lui durante l’azione fatale; il nome e la classe di Tull sono tuttavia ancora ricordati nel memoriale a lui dedicato presso il Sixfields Stadium di Northampton.
Comunque il calcio era naturalmente già molto diffuso e praticato anche in Germania, soprattutto ad Amburgo, Berlino, Duisburg, Lipsia, Norimberga e Stoccarda. La nazionale di calcio era ancora debole e incerta e risentiva di un campionato – la Verbandsliga – giocato in forma di coppa fra i campioni dei sette campionati interregionali della Germania. Tuttavia la passione era già consolidata come l’ammirazione sportiva per gli inglesi, che avevano sempre sonoramente sconfitto – schierando peraltro i “loro” dilettanti – la nazionale tedesca. Il calcio, lo sappiamo, è uno sport di squadra che si può giocare ovunque, universale e istintivo contagia chiunque. Forse era inevitabile. Succede sempre, succede ovunque. Saltarono fuori dei palloni, di fortuna. E alcuni uomini di entrambe le parti liberati per un attimo dai confini delle trincee, iniziarono a tirare calci alla palla su un terreno che il freddo gelido aveva indurito, dopo giorni di pioggia e fango. Quello che seguì, però, leggendario: una vera e propria partita giocata tra britannici e tedeschi, che questi ultimi potrebbero aver vinto sconfiggendo sul campo i maestri indiscussi del gioco, per 3-2. Della tregua e della partita i media dell’epoca non parlarono, in una sorta di comprensibile autocensura, rotta infine il 31 dicembre 1914 dal New York Times e in seguito dai giornali britannici, che riportarono numerosi resoconti degli stessi soldati, ricavati dalle lettere inviate alle famiglie, pubblicando inoltre alcune sorprendenti fotografie degli eventi, in particolare il Daily Mirror, il Manchester Guardian e l’autorevole Times che approvò la “mancanza di cattiveria e la sportività”, dimostrate da entrambe le parti in quel momento felice, – battezzato Christmas truce ovvero in tedesco Weihnachtsfrieden – deplorando “l’assurda tragedia” che sarebbe ripresa dopo la tregua di Natale.
Tutto ciò è interessante perché esemplificativo di un certo carattere nazionale, forse. Infatti colpisce l’accento dei britannici sul fair play che loro intendono come quel comportamento rispettoso delle regole, che garantisce le stesse opportunità ai diversi contendenti, nello sport, nella politica e nei rapporti umani e sociali. Il racconto dell’evento in Germania invece fu smorzato, con molti giornali che espressero critiche nei confronti dei soldati partecipanti alla tregua, e nessuna immagine dell’evento fu pubblicata in ossequio al militarismo teutonico e forse in ossequio a quella visione nietzschiana che il nazionalsocialismo avrebbe strumentalizzato a breve. In Francia, i giornali ristamparono un precedente avviso del governo, secondo cui fraternizzare con il nemico costituiva tradimento, mentre il racconto della “tregua di Natale”, tendeva più che altro a minimizzare la portata e la diffusione degli eventi. Ben cento anni dopo, nella cittadina belga di Ploegsteert, l’allora presidente dell’Uefa Michel Platini inaugurava un monumento a ricordo del giorno in cui il pallone unì i soldati provenienti da due nazioni nemiche, che per qualche ora espressero la loro umanità, giocando insieme al calcio. In chiusura della cerimonia, degli emozionati ex calciatori e fuoriclasse come il tedesco Paul Breitner, l’inglese Bobby Charlton e il francese Didier Deschamps, lessero le lettere alle famiglie scritte da alcuni dei soldati che parteciparono a quella partita nel giorno di Natale.
In futuro non si ripeteranno più episodi tanto clamorosi, e non ci sarà più qualcosa di simile a quella tregua di Natale del 1914, ma come che sia andata davvero la storia quella partita si giocò, e le testimonianze non mancano attraverso le lettere scritte dai soldati di allora che raccontano l’episodio ai propri cari. Anzi, in quei giorni lungo il “fronte” si giocarono altre partite, sempre fra britannici e tedeschi. Purtroppo il calcio non fermò la guerra, ma quella storia ha un immenso valore simbolico, se contestualizzata senza retorica: mostra quali sentimenti dovrebbero sempre prevalere. Invece quasi sempre succede il contrario. A proposito: recentemente è stata scoperta una lettera scritta dal generale britannico Walter Congreve, che racconta alla moglie della tregua e della partita di calcio, anche se ammette di non averla vista con i propri occhi ma di averlo saputo da testimoni oculari. Era un bel momento, ma sarebbe finito presto. Ne dà conto, con una battuta piuttosto macabra, nella stessa lettera: “Uno dei miei uomini ha fumato un sigaro con il miglior cecchino dell’esercito tedesco, un ragazzo non più che diciottenne. Dicono che ha ucciso più uomini di tutti gli altri, è un tiratore infallibile … ma ora sappiamo da dove spara, e domani spero di abbatterlo”. Sì, la guerra sarebbe continuata.
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La passione e il tifo per la squadra di calcio del Torino, i cui giocatori indossano la casacca granata, dal 2008 è definita in Treccani fra i neologismi: granatismo, sostantivo maschile.
Giusto. Infatti l’identità di una squadra passa anche dalla divisa, anzi nel calcio i due concetti si fondono. È tramite la maglia, la divisa appunto, che si identifica la squadra, il suo colore è un simbolo intimo, che anima il tifoso in ogni città o nazione, e rappresenta la storia, la missione e gli obiettivi di un sodalizio. Proprio la maglia della squadra del cuore permette all’individuo di sentirsi gruppo, e di condividerne con altri il culto, così centrale nel calcio. Allora, veniamo al colore di quella del Toro, di maglia. Non lo sappiamo con certezza, perché nessuno l’ha scritto inequivocabilmente e sopravvivono quindi alcune teorie sul perché la scelta del colore cadde sul granata. Alcuni parlano di un possibile riferimento al club svizzero del ServetteFootball Club 1890, la squadra che deve il nome a un quartiere di Ginevra, una delle formazioni più forti all’epoca dei pionieri del calcio, soprannominata les Grenat [i granata] e molto amata dalla comunità elvetica, così vivace a Torino. Altri sostengono un’altra teoria, che evoca l’omaggio alla casacca maroon degli inglesi dello SheffieldFootball Club, riconosciuta nella storia di questo sport come la più antica squadra di calcio al mondo, fondata nel lontano 1857 nella cornice della città inglese dell’acciaio. Peraltro c’è un’altra spiegazione possibile, molto più romantica, che vede nella gradazione scelta dai fondatori del Toro un richiamo alla Brigata Savoia, magnifica protagonista della difesa di Torino in occasione del tremendo assedio franco-spagnolo del 1706. E vale la pena di raccontarla bene, questa storia.
“È senz’altro l’invenzione di osservatori superficiali la leggendaria monotonia della città, come un mascheramento da cui l’ingenuo e l’impaziente si lasciano ingannare. Invece, sotto quell’apparenza così ovvia, Torino è una città per intenditori”. Così definiscono la città sabauda ne La donna della domenica, uno dei loro capolavori, Carlo Fruttero e Franco Lucentini. Città per intenditori, quindi. Non potrebbe essere altrimenti. Una città fiera e quasi straniera al resto del Paese dove quasi tutto è nato: l’automobile, il cinema, il cioccolatino, la gianduia, il grissino, la radio, la televisione, il tramezzino, il vermut e l’Unità nazionale. Una città considerata magica, dai conoscitori dell’occulto, che incarna e racchiude una profonda tensione verso il mistero, sullo sfondo di una metropoli ordinata e precisa, ammantata di grazia, densa di riserbo e chiaroscuri, agiata senza sfarzo, elegante ma discreta, golosa di piccoli piaceri accompagnati da un’energia non manifesta, che cela un cuore folle. E un cuore Toro. A proposito, proprio a Torino, in Italia, è nato (anche) il calcio.
La società calcistica più antica d’Italia è il Genoa, come i rossoblu genovesi dichiarano orgogliosamente. Ed è vero, naturalmente. Tuttavia occorrerebbe una precisazione. Infatti il Genoa è certo la squadra più antica d’Italia, ma fra le quelle ancora in attività. Per amor di verità bisogna riferire che, al tempo della fondazione del glorioso sodalizio del Grifone – avvenuta nel 1893 a Genova – in quel di Torino si palleggiava già da un bel pezzo. Francesco Crispi nel 1887 formava il suo primo governo, Giuseppe Verdi tornava a scrivere e trionfava alla Scala con l’Otello. Invece l’Italia, che aveva appena festeggiato i suoi primi 25 anni dall’unificazione, rinnovava il trattato della Triplice Alleanza con Germania ed Austria-Ungheria. E sempre in quel 1887 Edoardo Bosio, un ragioniere di origine elvetica, impiegato presso la sede torinese della grande casa inglese di tessuti Thomas & Adam, rientrando a Torino dopo una lunga trasferta presso la casa-madre a Nottingham, portava con sé un vero pallone di cuoio brevettato per il gioco del calcio e una copia delle regole dell’associationfootball, che lui aveva praticato ed era capace di giocare. Bosio aveva in effetti l’intenzione di creare un’organizzazione che consentisse la diffusione della pratica di quel gioco, e per questo fondava il primo undici italiano, il più antico sodalizio d’Italia in assoluto, che in quel 1887 indossava una camicia a righe rossonere, un berretto in testa e lunghi calzoni: era il Torino Football & Cricket Club, che aveva sede in piazza Solferino, nel salotto di casa del fondatore.
Un paio d’anni dopo, nel 1889, veniva approvato con l’unanimità dei voti in Parlamento il cosiddetto CodiceZanardelli che aboliva la pena di morte (ancora in vigore nei principali Stati europei) per tutti i reati, e consentiva la libertà di sciopero, in condizioni non-violente e anti-intimidatorie. Inoltre introduceva la libertà condizionale, il principio rieducativo della pena ed aumentava la discrezionalità del giudice al fine di adeguare la pena alla effettiva colpevolezza del reo, ammettendo inoltre l’infermità mentale certificata come causa di esonero dal processo, rendendo quella italiana una società più liberale. In quello stesso anno, venne fondato, per volontà del grande ammiraglio, esploratore e alpinista italiano Luigi Amedeo di Savoia, futuro Duca degli Abruzzi, il Nobili Torino. La seconda squadra più antica d’Italia, che permetteva ai rappresentanti dell’aristocrazia cittadina di cimentarsi con il calcio, sfoggiando una maglia a strisce gialle e nere. E sempre allora Friedrich Nietzsche, ebbe un crollo mentale, proprio mentre si trovava a Torino, città che il grande pensatore amava più di ogni altra. Successe che trovandosi in Piazza Carignano, nei pressi della sua casa, dove aveva scritto L’Anticristo, Il crepuscolo degli idoli ed Ecce Homo, vedendo un cavallo adibito al traino di una carrozza fustigato a sangue dal cocchiere, Nietzsche intervenne in difesa dell’animale. Dopo averlo abbracciato, avergli sussurrato qualcosa di incomprensibile e baciato, il grande filosofo cadde a terra in preda a violenti spasmi, e fu soccorso. Dopo questo singolare episodio di follia in pubblico Nietzsche verrà condotto lontano da Torino, per essere ricoverato in Svizzera e non si riprenderà fino al termine dei suoi giorni dal devastante accesso di follia che l’aveva colto nella città sabauda, ma la sua lucida dottrina verrà considerata la più influente nel plasmare la mentalità occidentale fra il XIX e il XX secolo.
Fondendosi poi nel 1891 con il Nobili, il Torino Football & Cricket Club assumerà la denominazione di International Football Club e sarà la squadra protagonista delle prime due edizioni del campionato italiano di calcio, che inizierà nel 1898. Il nuovo club adotterà brevemente una casacca di colore granata, ispirata alla divisa maroon dello Sheffield Football Club, il più antico club di calcio al mondo, salvo poi abbandonarla in favore di una maglietta a strisce bianche e nere. Il 16 marzo 1898 a Torino si era costituita intanto la Federazione Italiana Football (Fif),che poi sarebbe diventerà Federazione Italiana Giuoco Calcio (Figc): ancora non lo poteva immaginare nessuno, ma questo nuovo sport stava per entrare prepotentemente in modo decisivo nell’immaginario e nella vita degli italiani, diventando fenomeno sociale e culturale, e non semplicemente sportivo. Sempre a Torino, poco più di due mesi dopo la nascita della federazione, l’8 maggio 1898, al Velodromo Umberto I veniva organizzata la prima edizione del Campionato italiano di calcio, con 4 squadre partecipanti. Sarà il Genoa ad imporsi, unico sodalizio non torinese, inaugurando la prima – benché breve – rivalità del nostro calcio, quella contro l’International, che perderà la finale ai tempi supplementari contro i genovesi, mentre nel successivo campionato il Genoa difenderà il titolo ripetendo la stessa finale, ma questa volta sconfiggendo l’International di stretta misura. Quest’ultima società poi, a causa di una crisi finanziaria, si fonderà nel 1900 con un altro sodalizio cittadino, che aveva mosso i primi passi già nel 1894 come sezione calcistica del Circolo Pattinatori del Valentino, club di pattinaggio e hockey su ghiaccio nato vent’anni prima, e poi diventata autonoma nel 1897 con il nome di Torinese, grazie all’intervento del duca degli Abruzzi, quel Luigi Amedeo di Savoia, che era già stato ispiratore dei Nobili Torino.
La fusione con l’International diede i suoi frutti, tanto che il nuovo Football Club Torinese arrivò a giocare la finale del terzo campionato nazionale, contendendo l’edizione del 1900 al solito Genoa, che tuttavia prevarrà nettamente e sarà per la terza volta consecutiva campione d’Italia, mentre a Enrico Bosio – che dovremmo considerare il padre del football, in Italia – sempre sconfitto in tre finali su tre, rimarrà la soddisfazione di aver segnato il primo gol ufficiale nella storia del calcio italiano. Intanto, nella città sabauda oramai si stava affermando un’altra squadra: la Juventus, nata nell’autunno del 1897 come “società civile per gioco, per divertimento, per voglia di novità”, su iniziativa di alcuni giovani studenti della terza e quarta classe del liceo classico Massimo d’Azeglio. I ragazzi si davano appuntamento in prossimità di una panchina non distante dalla loro scuola, di fronte alla pasticceria Platti verso il corso Duca di Genova, oggi corso Re Umberto, all’angolo di corso Vittorio Emanuele II, per discutere di sport, e in particolare del football, che dalla Gran Bretagna si stava diffondendo nel resto d’Europa. I ragazzi si ritrovavano poi nella vicina piazza d’armi del quartiere Crocetta per giocare a calcio, e lì scelsero la prima divisa sociale che prevedeva una camicia bianca e pantaloni alla zuava, che sarà presto sostituita da una camicia rosa con cravattino nero, finché nel 1903 arrivarono da Nottingham, sempre Nottingham!, delle divise da gioco più moderne, quelle del Notts County a strisce verticali bianche e nere.
Nel 1906, l’anno in cui il Torino vedrà la luce, proprio la Juventus era la squadra campione d’Italia, avendo vinto nella primavera dell’anno precedente il titolo nazionale, sconfiggendo il Genoa nella partita decisiva. In Europa invece il clima stava cambiando, e iniziava proprio quell’anno una vera e propria “corsa agli armamenti”. Successe quando la Royal Navy britannica varò il 10 febbraio, presso l’arsenale di Portsmouth, la HMSDreadnought [il cui nome significa: “che non teme nulla”]. Fu una nave così rivoluzionaria per l’epoca che il suo nome di battesimo divenne il termine generico per indicare le navi da battaglia moderne, che avevano pensionato le precedenti. La sua introduzione innescò infatti una vera e propria gara ad armarsi tra la Gran Bretagna e le altre marine militari del mondo, in particolare quella della Germania imperiale, circostanza che gli storici considerano una delle cause della prima guerra mondiale. Il 7 febbraio del 1910 quella la nave fu poi il teatro di una burla che all’epoca fece molto “rumore”, perché organizzata da Horace de Vere Cole, un ricco cittadino anglo-irlandese considerato un gran burlone, i cui scherzi avevano ampia risonanza mediatica. Egli inviò addirittura un falso telegramma alla Royal Navy proponendo di accettare una visita a bordo della temibile nave militare da parte di alcuni membri della casa reale abissina durante il loro viaggio in Inghilterra che lui aveva organizzato.
Questi in realtà erano cinque amici di Cole, tra cui c’era la scrittrice Virginia Woolf, vestiti con abiti tribali e con il volto dipinto di nero. I falsi diplomatici durante l’intera visita mostrarono di non comprendere una sola parola di inglese, e si espressero rivolgendosi ai disorientati ufficiali della Royal Navy solo in un incomprensibile idioma di fantasia ricco di termini greci e latini esclamando ripetutamente “Bunga! Bunga!”, come segno di ammirazione per la potenza della nave da guerra e dei suoi apparati. L’espressione, fece allora il giro del mondo, e quasi cento anni dopo, tornerà agli onori delle cronache in Italia, per altri motivi. Invece, sempre in Italia ma al confine con la Svizzera, il 19 maggio del 1906 venne inaugurato dal re Vittorio Emanuele III e dal presidente elvetico Ludwig Forrer, un’imponente opera di ingegneria: all’epoca della costruzione, e per i successivi 76 anni, la più lunga galleria ferroviaria del mondo. Il traforo del Sempione. Il traffico regolare dei treni iniziò in realtà solo il successivo primo giorno di giugno, quando l’opera – che avrebbe permesso al mitico Orient Express di collegare Parigi a Istanbul, senza attraversare la Germania – fu celebrata nel corso dell’Esposizione Universale che si tenne in quello stesso anno a Milano, in grandiosi padiglioni ed edifici appositamente costruiti nell’area alle spalle del Castello Sforzesco, l’attuale Parco Sempione. Appunto.
La sera del 3 dicembre di quello stesso 1906 poi un gruppo composito di sportsmen si diede finalmente appuntamento a Torino, nei locali della birreria-ristorante “Voigt” di Via Pietro Micca, sotto i portici del Palazzo Fiorina. Si tratta di un edificio splendido, concepito nel 1860 e ancora oggi esistente, la cui costruzione venne finanziata dalla famiglia Fiorina, che lo fece arricchire con magnifiche decorazioni tra il liberty e il tardo-barocco ed eleganti porticati con capitelli neoclassici. Il rossiccio condominio fu sede dell’omonimo Grand Hotel Fiorina, per molti anni il più lussuoso di Torino, e della storica libreria Slavia, poi nel 1872 rinominata Petrini, dove Edmondo De Amicis scrisse il suo capolavoro: il libro Cuore. I commensali quella sera erano di diversa estrazione, ma tutti animati dal desiderio di contendere alla Juventus, quell’anno sconfitta in finale dal Milan per non essere voluta scendere in campo, ma già campione d’Italia la stagione precedente, il primato cittadino. C’erano alcuni soci del FootballClubTorinese, perché il sodalizio giallo e nero era oramai prossimo allo scioglimento, e altrettanti soci dissidenti della Juventus, guidati niente meno che dal suo ex presidente. Alfredo Dick, che da poco era stato estromesso dalla maggioranza dei soci bianconeri. Questi ultimi nonostante gli ottimi risultati sportivi e di gestione mal sopportavano un’impronta sempre più autoritaria e il crescente ostracismo espresso da Dick verso gli italiani, criticati per il loro stile di vita, da lui giudicato troppo distante dal rigore svizzero che avrebbe dovuto caratterizzare la “sua” Juventus.
Alfredo Dick era un affermato imprenditore del settore calzaturiero, dove aveva fondato la società anonima Manifattura di Pellami e Calzature – M.P.C., sviluppando diverse partnership commerciali e diventando nel 1909 presidente della neonata Associazione dei Fabbricanti Italiani di Calzature, alla quale aderirono i più grandi calzaturieri di quel periodo: Oreste Vitale (Borri e Vitale di Busto Arsizio), Giovanni Gilardini di Torino, Ermenegildo Trolli (calzaturificio Di Varese) e il cavalier Pietro Giulini di Vigevano. Si trattava di un uomo rigoroso, con un carattere difficile e spigoloso. Ad esempio, nel 1906 fece perdere alla Juventus, campione in carica, la finale contro il Milan a tavolino, per non averla fatta scendere in campo, per principio. Non essendogli stata rinnovata la presidenza Dick, risentito, abbandonò la Juventus e le tolse il terreno di gioco – il Velodromo Umberto I – che lui aveva preso in affitto personalmente, per offrirlo al Torino, che contribuì a fondare, prima di morire. La tragedia accadde nel 1909 quando, come amministratore delegato della Manifattura Pellami e Calzature, Dick aveva compiuto una serie di errori tecnici nelle emissioni degli ordini, a causa dei quali l’azienda perse quasi centomila lire. Dick allora si assunse la responsabilità dei propri errori di fronte al consiglio d’amministrazione e, sconvolto più dalla vergogna che dal danno economico – non irreparabile – il giorno successivo si recò nei suoi uffici, presso il Velodromo Umberto I, e si suicidò sparandosi a una tempia. Aveva solo 44 anni e lasciava la moglie e quattro figli.
Ma adesso torniamo qualche anno indietro, alla sera del 3 dicembre 1906, quando presso la birreria Voigt (oggi bar Norman) in via Pietro Micca, venne costituito il direttivo della nuova società: vicepresidente Alfredo Dick (ex Juve), segretario Walter Streule (ex Juve) e tesoriere Kuster; consiglieri furono scelti Oreste Marzia (ex Juve), Muetzell e Federico Ferrari-Orsi mentre i revisori sarebbero stati Pletscher, Emilio Valvassori e Enrico Debernardi. E così a soli dieci minuti dallo scoccare della mezzanotte, un brindisi festoso consacrava lo svizzero Franz Josef Schönbrod, eletto dagli altri soci all’unanimità, primo presidente del Foot Ball Club Torino, il nuovo sodalizio cittadino cosi fortemente voluto da Dick, il cui statuto, “espressamente esclusa ogni questione politica o religiosa”, fissava i colori sociali nel “granata e bianco”. È giunto quindi il momento di avanzare un’altra ipotesi oltre a quelle già tratteggiate circa la scelta del colore. Il granata, appunto. E quella che segue di ipotesi è senz’altro la più romantica, e a parer mio la più probabile. Infatti, nel 1906 correva il bicentenario dell’assedio di Torino, evento epocale nella storia del Piemonte, avvenuto appunto nel 1706 – durante la Guerra di successione spagnola – quando oltre 44 mila soldati francesi accerchiarono Torino, difesa da circa 10 mila soldati sabaudi che combatterono strenuamente dal 14 maggio fino al 7 settembre, quando l’esercito a difesa della città, comandato dal Principe Eugenio e dal duca Vittorio Amedeo II, costrinse i nemici francesi alla ritirata. Il fallito tentativo di conquistare la città, che gli storici considerano l’inizio del Risorgimento, e la sconfitta dell’esercito del Roi Soleil, il potentissimo Luigi XIV di Francia, fece conquistare ai piemontesi il rispetto di tutta Europa.
E proprio al duca Vittorio Amedeo II, che a seguito di questa vittoria diventerà il primo re della dinastia di casa Savoia, dobbiamo forse l’iconica maglia del Toro. Difatti, mentre infuriava la battaglia decisiva per le sorti dell’assedio, i due Savoia – Eugenio e Vittorio Amedeo II – dopo aver studiato attentamente la loro tattica, dall’alto della collina di Superga, decisero di attaccare il nemico su più fronti, contemporaneamente, per rompere gli equilibri militari e la morsa dei francesi. Quindi dall’alba fino al pomeriggio del 7 settembre francesi e piemontesi si scontrarono presso Lucento, esattamente dove oggi ha sede il centro sportivo della Continassa e si allena la Juventus, e presso la località detta in piemontese Madòna ‘d Campagna. Vinsero i piemontesi, su entrambi i fronti. E tuttavia trovandosi a distanza e non riuscendo a comunicare a vista, fu un cavalleggero della Brigata Savoia, partito al galoppo, a portare le informazioni necessarie da un comando all’altro. Attraversando le linee nemiche in rotta il soldato sabaudo venne però ferito gravemente e arrivò morente al cospetto del Duca, con la divisa intrisa di sangue, per riferire il messaggio che fu solo in grado di sussurrare, prima di spirare fra le braccia del nobile condottiero: “Savoie bonne nouvelle”. Savoia buone notizie: abbiamo vinto, Torino è salva. E fu così che Vittorio Amedeo II, prendendo in mano la stoffa della divisa intrisa dal sangue del giovane, si commosse e stabilì che da quel giorno, a ricordo del sacrificio di quel soldato e della vittoria dei piemontesi, la Brigata Savoia avrebbe indossato un fazzoletto di colore granata, come il sangue versato.
Allora, quale miglior colore per la divisa del Foot Ball Club Torino? La scelta convinse tutti i soci, e se alla sua prima partita, un’amichevole giocata il 16 dicembre 1906 contro la Pro Vercelli, non è certo che il Torino sia sceso in campo con un completo granata, è sicuro che – agli ordini del capitano Johann Friedrich Bollinger – il Toro sfoggiò la sua iconica divisa il giorno della sua prima gara ufficiale, con poco più di un mese di vita alle spalle. Era appena iniziato il 1907 e in Piazza Castello aveva aperto la Buvette Mulassano, che sarebbe stato eletto a elegante ritrovo della nobiltà torinese, ma anche degli artisti del vicino Teatro Regio, fra splendidi specchi, tavoli in marmo e ricche decorazioni, quando il 13 gennaio, sul campo del Velodromo Umberto I, in zona Crocetta, nella cornice invernale offerta da un clima rigido a causa delle precedenti nevicate, il Toro affrontò e sconfisse la Juventus per 2-1, nella prima stracittadina della storia, fra bianconeri e granata: il cosiddetto derby della Mole. La Juventus fu così eliminata dal campionato nazionale proprio dal neorivale Torino che al primo successo abbinò anche quello nella partita di ritorno, ottenuto con un roboante 1-4 siglato da Hans Kämpfer che segnò tutte le 4 reti, stabilendo un record rimasto imbattuto e portando il Toro al girone finale dove per un soffio, un solo punto di differenza, la formazione granata non si laureerà campione d’Italia al primo tentativo, cedendo il prestigioso alloro al Milan.
E allora, una volta ancora: buon compleanno, Toro.
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Gli anni Ottanta sono stati un’epoca considerata superficiale a motivo di uno stile di vita frivolo, teso al raggiungimento della felicità individuale e dell’affermazione personale. L’esatto opposto del decennio precedente – gli anni Settanta – ricordato come un periodo di grande impegno politico e, sebbene attraversato dalla degenerazione dell’ideologia e dal terrorismo, prolifico di pensieri desiderosi di cambiare il destino di un’intera generazione. In particolare, il passaggio dai Settanta agli Ottanta comportò in Italia una cesura brutale, a cui ci si riferisce definendola riflusso, per comprendere la quale occorre fare un passo indietro, ai Sessanta. Quelli furono gli anni del miracolo economico, quando si propose per la prima volta, dal punto di vista politico, il superamento del centrismo, attraverso l’allora inedita alleanza tra il partito della Democrazia cristiana (Dc) e il Partito socialista (Psi). La novità, a quel tempo rivoluzionaria e dalla portata storica, fu permessa dalla somma di una serie di fattori esterni. Intanto era mutato il quadro internazionale, e in quel momento se non una distensione nei rapporti tra l’Occidente e il blocco sovietico c’era un dialogo. Infatti dopo le lunghe lotte per il potere seguite alla morte di Iosif Stalin, NikitaChruščëv divenne il capo dell’Unione Sovietica e fu il primo segretario del Partito comunista dell’URSS a denunciare pubblicamente i crimini staliniani, dando avvio alla cosiddetta destalinizzazione, e il primo leader sovietico a visitare gli Stati Uniti, con cui intese stabilire dal 1958 un rapporto di pacifica, sebbene competitiva, coesistenza. In quello stesso anno al soglio pontificio era salito Giovanni XXIII, il papa buono, che aveva ammorbidito la posizione della Chiesa e quindi dei cattolici impegnati nella politica nostrana, nei confronti dei socialisti, i quali a loro volta erano andati acquisendo sempre più autonomia allontanandosi dal Partito comunista italiano (Pci), condannandolo quindi irrimediabilmente all’opposizione parlamentare. Intanto anche negli Stati Uniti gli americani avevano scelto di voltare pagina: nel 1961 era stato eletto presidente John Fitzgerald Kennedy, brillante e cattolico, il giovane leader chiese alle nazioni del mondo di unirsi nella lotta contro i comuni nemici dell’umanità, la tirannia, la povertà, le malattie e la guerra.
Fu quindi con il primo governo del democristiano Aldo Moro che si realizzò nel 1963 in Italia un esecutivo di centro-sinistra generando nell’opinione pubblica, a torto o a ragione, l’auspicio di una stagione nuova di grandi riforme in grado di accompagnare i progressi realizzati in campo economico negli anni del boom. Non sarà così, purtroppo. Infatti, mentre l’Inter, la Grande Inter presieduta dal petroliere milanese Angelo Moratti, guidata in panchina dall’allenatore argentino Helenio Herrera, detto il Mago, si affermava in Italia e in Europa come una delle migliori squadre di sempre, laureandosi fra il 1963 e il 1966 per tre volte campione d’Italia e per due consecutive campione d’Europa, vincendo la Coppa dei Campioni, contro gli spagnoli del Real Madrid e i portoghesi del Benfica, e campione del Mondo, vincendo la Coppa Intercontinentale, per due volte contro gli argentini dell’Independiente de Avellaneda, il governo del Belpaese stentava, offrendo risultati modesti o almeno percepiti come tali. Furono create grandi aziende pubbliche, ma queste risultarono poco produttive, molte delle riforme annunciate non furono realizzate o furono realizzate ma delusero le aspettative di quella parte dell’opinione pubblica che le reclamava a gran voce. Così fu ad esempio per la tanto attesa riforma della scuola, e proprio lì ebbe inizio e si radicò negli anni successivi il cosìddetto Sessantotto: la protesta dei giovani contro una società percepita come classista, profondamente ingiusta e reazionaria, sia nella mentalità che nel costume. Gli studenti sommarono le loro mobilitazioni a quelle operaie, che peraltro ottennero migliori condizioni salariali e lavorative, quale anticipazione di quanto sarebbe avvenuto nel 1970 con l’introduzione dello Statuto dei lavoratori che riconosceva il diritto di assemblea, di organizzazione sindacale e di difesa in caso di ingiusto licenziamento, mentre le contestazioni sessantottine ottenevano la liberalizzazione dell’accesso all’università per tutti i diplomati, eliminando nel 1969 la così detta riforma Gentile che subordinava quale condizione imprescindibile per iscriversi agli studi superiori il possesso della maturità classica.
L’espressione anni di piombo richiama efficacemente l’atmosfera plumbea che avvolgeva le città italiane nella seconda metà degli anni Settanta. Diventerà familiare, purtroppo, e tuttavia non è autoctona, derivando invece dalla traduzione dell’omonimo film, premiato a Venezia nel 1981 con il prestigioso Leone d’oro: Die bleierne Zeit (letteralmente, appunto, “Gli anni di piombo”), pellicola della regista e sceneggiatrice tedesca Margharete Von Trotta, ispirata alla vicenda storica delle sorelle Christiane e Gudrun Ensslin. Gudrun, in particolare, fu una terrorista tedesca, cofondatrice insieme ad Andreas Baader, Horst Mahler e Ulrike Meinhof del gruppo armato di estrema sinistra Rote Armee Fraktion(RAF), responsabile di numerose operazioni terroristiche condotte nella Germania occidentale. In particolare, nel 1977 si arrivò ad una vera e propria crisi nazionale conosciuta con il nome Deutscher Herbst (“Autunno tedesco”, appunto), espressione mutuata anche in questo caso da una pellicola cinematografica: Deutschland im Herbst (“Germania in autunno”). Un film collettivo prodotto nel 1978 per iniziativa di una cooperativa di autori tedeschi, che intendevano così esprimere la loro preoccupazione per le restrizioni degli spazi di libertà e di confronto culturale, conseguenti all’emergenza terrorismo, con la pretesa di definire l’atmosfera politica di allora. La RAF, conosciuta dal pubblico semplicemente come la banda Baader-Meinhof, uccise comunque 33 persone, principalmente tra figure di spicco in campo politico ed economico. Un’azione in particolare fece scalpore: il sequestro, dopo un sanguinoso agguato terminato con la morte dei quattro uomini della sua scorta, di Hanns-Martin Schleyer, un alto ufficiale delle Schutzstaffel (SS) ai tempi nazismo, riciclatosi nel dopoguerra come autorevole esponente del Christlich Demokratische Union Deutschlands (CDU), il partito politico di orientamento democratico-cristiano e conservatore che attualmente esprime la leadership di Angela Merkel. Schleyer all’epoca del sequestro era l’onnipotente presidente della Bundesverband der Deutschen Industrie (BDI), la confederazione che raggruppa tutte le federazioni di settore dell’industria tedesca, omologa della Confindustria italiana. Trascorsi quarantatré giorni di prigionia fu ucciso e fatto trovare cadavere il 18 ottobre 1977 in Francia, nel bagagliaio di un’auto, poco oltre il confine tedesco, fu il tragico epilogo di un’azione che ha molto in comune con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, che sarebbe avvenuta solo pochi mesi più tardi in Italia. Anche se più conosciuta, e quasi leggendaria nell’immaginario collettivo per le sue azioni di guerriglia urbana, la RAF condusse meno attacchi terroristici rispetto alle Revolutionäre Zellen (RZ), una formazione ben più attiva e spietata, responsabile di 296 attentati fra il 1973 e il 1995.
In quegli anni Settanta, per somma di risultati, continuità di rendimento e spettacolarità, il Borussia Mönchengladbach è stato forse la squadra di calcio più ammirata nell’arco del decennio, anche più del Bayern di Monaco di Baviera, per tre stagioni vincitore della Coppa dei Campioni. All’epoca queste due formidabili squadre tedesche imperversavano in patria e in Europa, e solo dopo di loro arriveranno il Liverpool di Bob Paisley e il Nottingham Forest di Brian Clough, che vinceranno nei successivi cinque anni la Coppa dei Campioni, tre volte i primi, due volte i secondi. Bisogna fare una premessa peraltro, per spiegare l’ammirazione manifestata verso il sodalizio renano. Infatti anche se anche il Bayern all’epoca sorprese era pur sempre il club espressione di una grande realtà economica e sociale prima che sportiva: niente meno che Monaco di Baviera. Diversamente prima che i Fohlen-Elf (“I puledri”) arrivassero al successo, la gente non sapeva neppure dove fosse la città di Mönchengladbach, tanto che molti all’estero pensavano che il luogo fosse Borussia! Eppure quella squadra di giovani fuoriclasse che annoverava tra gli altri campioni del calibro di Jupp Heynckes, Horst Köppel, Günter Netzer, Uli Stielike, Berti Vogts e Herbert Wimmer, allestita e guidata dal carismatico tecnico Hennes Weisweiler, tra il 1970 e l’autunno caldo del 1977 vincerà ben cinque volte la Bundesliga, il massimo livello del campionato tedesco, una Coppa di Germania e due volte la Coppa UEFA, perdendo invece solo in finale la Coppa dei Campioni, proprio contro gli inglesi del Liverpool, e la Coppa Intercontinentale, contro gli argentini del Boca Juniors, giocata al posto dei Reds inglesi, mentre, sempre nel 1977, uno dei suoi giocatori più rappresentativi, Allan Simonsen, vincerà l’ambito Pallone d’oro creato dalla prestigiosa rivista sportiva France Football nel 1956 e attribuito – dopo che l’anno prima era toccato a Franz Beckenbauer, uno dei più grandi giocatori della storia del calcio, capitano del Bayern Monaco e della Nazionale tedesca, campione del mondo nel 1974 – all’attaccante danese, l’unico calciatore ad aver segnato nelle finali delle tre maggiori competizioni europee, che all’epoca erano la Coppa dei Campioni, la Coppa UEFA e la Coppa delle Coppe.
Sul finire degli anni Sessanta il miglioramento del tenore di vita rese per molti più difficile percepire il peggioramento della situazione economica, che faceva da sfondo alle proteste giovanili del Sessantotto. Intanto gli italiani impararono cosa fosse la moviola che avrebbe cambiato per sempre la loro domenica sera e in conseguenza di ciò il loro lunedì mattina. Moviola era in verità il nome di un sistema elettromeccanico utilizzato per la visione rallentata di filmati cinematografici allora scopo ad esempio di consentire ai montatori di studiare le singole inquadrature, permettendogli di scegliere i punti di taglio più adatti. Il pomeriggio del 22 ottobre 1967 a San Siro si giocava la stracittadina tra i nerazzurri dell’Inter e i rossoneri del Milan, colloquialmente detta derby della Madonnina, dalla caratteristica statua della Madonna Assunta posta in cima al Duomo di Milano. L’Inter era in vantaggio per 1-0 fino a quando Gianni Rivera con un tiro dei suoi colpiva la traversa nerazzurra e la palla rimbalzava in campo vicino alla linea bianca, in prossimità della quale l’interista Tarcisio Burgnich in rovesciata la allontanava. L’arbitro, immediatamente assediato dai giocatori rossoneri, si consulta a a lungo col guardalinee, dopodiché concedeva il gol del pareggio al Milan. Quella stessa sera alla Domenica Sportiva il conduttore, l’indimenticabile Enzo Tortora, annunciava la straordinaria novità: il giornalista della Rai, Carlo Sassi, era in grado di mostrare un’immagine inequivocabile da cui risultava che la palla in realtà non aveva mai superato la linea di porta. Il primo errore arbitrale era appena stato inconfutabilmente dimostrato. L’episodio sportivo può essere considerato di secondaria importanza, perché a fine stagione quel Milan vincerà il suo nono scudetto e non in virtù di quell’ingiusto vantaggio. Il Diavolo infatti era una squadra fortissima e quel campionato nella stagione 1967/68 lo stravincerà con un ampio margine sulla Fiorentina, che tuttavia si imporrà l’anno successivo, quando lo scudetto andrà in riva all’Arno, mentre i rossoneri allenati da Nereo Rocco e guidati in campo da Gianni Rivera trionferanno nell’edizione 1968/69 della Coppa dei Campioni, disintegrando per 4-1 gli olandesi dell’Ajax di Amsterdam, e pure nella Coppa Intercontinentale, dopo aver fatto a botte, contro gli argentini dell’Estudiantes, campioni del Sudamerica. La violenza era nell’aria, si respirava odio ovunque: nel 1968 erano stati assassinati Martin Luter King e Bob Kennedy ed era stata soffocata la cosiddetta Primavera di Praga quando Alexander Dubček diventato segretario del Partito comunista di Cecoslovacchia aveva intrapreso una coraggiosa stagione di riforme, terminata quando un corpo di spedizione militare dell’Unione Sovietica e degli alleati del Patto di Varsavia invase il paese.
Una soddisfazione e un po’ di gioia per gli sportivi italiani arrivò proprio nel 1968 quando la Nazionale, dopo la delusione patita ai Mondiali inglesi nel 1966, la disfatta e l’umiliazione per mano della famigerata Corea bruciava ancora, riuscirà a vincere per la prima volta gli Europei di calcio. Lo farà proprio in casa, in finale allo stadio Olimpico, battendo la Jugoslavia per 2-0, davanti a 70mila tifosi emozionati, e mentre la contestazione giovanile faceva cadere in disuso parole come patria e nazione, con quella vittoria il calcio contribuì a far sì che gli italiani riscoprissero l’orgoglio di sventolare il tricolore. Si trattò solo di una parentesi di festa in un difficile periodo di recessione economica, mentre all’orizzonte si profilavano anni bui, ma con il trionfo azzurro nacque l’uso dei caroselli per le strade italiane: un entusiasmo condiviso che univa migliaia di tifosi, trascinati dall’impresa dei ragazzi azzurri di Valcareggi. Nel novembre dello stesso anno nasceva a Milano il primo gruppo ultras italiano, la Fossa dei Leoni, con canti e slogan direttamente ispirati a quelli dei cortei politici. Calcio e politica extraparlamentare intrecciavano così parte delle loro esperienze, e dopo qualche anno compariranno gli striscioni delle Brigate Rossonere e delle Boys-San, ovvero Boys-Squadre d’Azione Nerazzurre (l’acronimo SAN si riferisce verosimilmente alle Squadre d’azione di Benito Mussolini), del Commando Ultrà Curva Sud (CUCS) a Roma e del Nucleo Armato Bianconero (NAB), forse l’unico gruppo juventino, un pubblico tradizionalmente noto per l’anticampanilismo, paragonabile agli hooligan. La moviola intanto diventava un vero e proprio fenomeno di costume, accrescendo la popolarità dei giornalisti Carlo Sassi e Bruno Pizzul, i quali si alternavano nella conduzione dell’apposita rubrica che dalla stagione di campionato 1969/70 prese un posto fisso all’interno della Domenica Sportiva, diventando uno dei momenti più attesi della televisione italiana, seguito anche da venti milioni di telespettatori. Molti sono gli episodi che ne hanno segnato la storia, memorabile quando la sera del 20 febbraio 1972, l’arbitro Concetto Lo Bello, sempre inflessibile, duro e giusto, messo di fronte alle immagini del calcio di rigore da lui negato al Milan nei confronti della Juventus, sarà costretto ad ammettere il clamoroso errore. Il clima generale in quel fatidico 1969 al quale conviene tornare è denso di contestazioni e contrasti: è il cosiddetto autunno caldo per antonomasia e l’inverno che seguirà purtroppo non sarà da meno. Infatti, il 12 dicembre del 1969 sarà una giornata terrificante: in poco meno di un’ora in Italia si verificheranno ben 5 attentati: tre a Roma e due a Milano. Il più grave sarà la strage di Piazza Fontana, dove una bomba, esplosa nella sede milanese della Banca Nazionale dell’Agricoltura, provocherà 17 morti e 88 feriti.
La strage della Banca Nazionale dell’Agricoltura è considerata il primo e più dirompente atto terroristico dal dopoguerra nonché da alcuni ritenuto l’inizio del periodo passato alla storia in Italia come degli anni di piombo nonché della strategia della tensione, che nel corso degli anni strazierà il Paese: a Brescia il 28 maggio 1974 (8 morti), sul treno Italicus del 4 agosto dello stesso anno (12 morti) e a Bologna il 2 agosto 1980 (85 morti), alzando il livello dello scontro. In un primo momento di questi attentati verranno accusati i nascenti gruppi del terrorismo rosso che si riveleranno invece estranei, mentre emergeranno indizi di collusioni occulte di settori deviati dello Stato, successivamente confermati: si comincerà a parlare allora di stragismo di Stato. All’inizio del decennio dei Settanta, nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970, Junio Valerio Borghese, soprannominato il principe nero, tentava un colpo di stato – il cosiddetto Golpe dell’Immacolata – salvo annullarlo in fase di esecuzione e riparare in Spagna per evitare l’arresto. In quei tristi mesi invernali del 1970 terminava anche la intanto era terminata la splendida parabola del Cagliariscudettato che, se dopo aver schiantato l’Inter a Milano e aver preso la testa del campionato, candidandosi alla vittoria finale manifestando una superiorità indiscussa su tutti i rivali, durante la partita tra Italia e Austria giocata a Vienna il 31 ottobre, a causa di un grave infortunio che ne comprometterà la carriera, perderà il suo impareggiabile fuoriclasse.Gigi Riva era stato il principale artefice dei successi del Cagliari, che senza di lui non riuscirà a difendere il titolo conquistato l’anno prima quando il 12 aprile 1969 chiuse la miglior stagione della sua storia festeggiando il primo e fin qui unico scudetto vinto. Si trattò di una sorpresa, a soli 6 anni dall’approdo in massima serie i rossoblù guidati ai vertici del calcio italiano da Manlio Scopigno, detto il filosofo, con il secondo posto nel 1968/69 e soprattutto con lo storico scudetto del 1969/70, il capolavoro della sua carriera, portavano per la prima volta il titolo di campione d’Italia nel Mezzogiorno, lontano dalle grandi città del Nord e del Centro, conquistando una vittoria ricca di significati per l’intera Sardegna, isola distante – ritenuta patria di pastori e banditi, come ricordava Gigi Riva – praticamente sconosciuta fino a quel momento al resto degli italiani.
Nel quadro della strategia della tensione la società italiana era sempre più divisa e polarizzata in gruppi che facevano politica extraparlamentare e non rifiutavano la violenza, passando dalla clandestinità alla lotta armata. A sinistra erano nate organizzazioni come i Gruppi d’Azione Partigiana (GAP), i Nuclei Armati Proletari (NAP), Prima Linea (PL) e le Brigate Rosse (BR), mentre a destra militavano Avanguardia Nazionale, i Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR), Ordine Nero, Terza Posizione e Ordine Nuovo. Si diffuse un clima di insicurezza e pericolo, perché non furono compiuti soltanto attentati clamorosi o stragi dai loro esecutori, ma uno stillicidio continuo di attacchi contro obiettivi minimi, singoli cittadini e forze dell’ordine, in esecuzione quotidiana di disegni talvolta ignoti e misteriosi. In piazza i manifestanti si presentavano ovunque a volto coperto e spesso armati di spranghe, chiavi inglesi e bottiglie molotov e la violenza poteva scoppiare in qualsiasi istante e ovunque. In quel contesto, iniziarono ad agire le BR compiendo atti di guerriglia urbana e terrorismo contro persone ritenute rappresentanti del potere politico, economico e sociale, operando tra il 1970 e il 1974 prevalentemente attraverso piccoli gruppi all’interno delle fabbriche in modo spesso clandestino, con il compito di fare propaganda in particolare nelle aziende soggette a piani di ristrutturazione o nelle quali il rapporto dei lavoratori con la dirigenza e la proprietà fosse particolarmente conflittuale. I militanti delle BR, oltre a diffondere le proprie idee, presero di mira quadri e dirigenti aziendali, incendiandone le auto o realizzando brevi sequestri, della durata di qualche ora o di pochi giorni, allo scopo di intimidire il rapito e la dirigenza dell’azienda e dimostrare la forza e la spregiudicatezza dell’organizzazione: il primo si realizzò il 3 marzo 1972 a Milano, Idalgo Macchiarini, un dirigente industriale, prelevato di fronte allo stabilimento, fotografato e rilasciato dopo qualche giorno con un cartello appeso al collo dove c’era scritto: “Colpiscine uno per educarne cento!” Sempre in quell’anno, il 5 settembre 1972 a Monaco di Baviera, un commando dell’organizzazione terroristica palestinese Settembre Nero irruppe negli alloggi destinati alle squadre israeliane del villaggio olimpico uccidendo subito due atleti che avevano tentato di opporre resistenza e prendendo in ostaggio altri nove membri della squadra olimpica di Israele, un successivo tentativo di liberazione da parte della polizia tedesca portò alla morte di tutti gli atleti sequestrati, brutale epilogo del Massacro di Monaco di Baviera che aveva insanguinato le Olimpiadi, evento tipico della cultura umana che storicamente addirittura sospendeva ovunque le guerre e la violenza.
In Italia il 12 febbraio 1973 la colonna brigatista torinese compì il sequestro di Bruno Labate, sindacalista legato al Movimento Sociale Italiano dello stabilimento FIAT di Mirafiori, interrogandolo e poi lasciandolo incatenato alla gogna operaia davanti alla fabbrica, guadagnando adesioni e simpatizzanti in tutti gli stabilimenti nelle grandi fabbriche del Piemonte, come già era accaduto in Lombardia. In quei primi anni le BR volevano tramettere segnali di lotta concreti con azioni dimostrative e atti di forza, per conquistare consensi all’interno della classe operaia: era la cosiddetta propaganda armata. Dopo Milano e Torino le BR si allargarono, in particolare a Porto Marghera fu costituita la terza colonna, quella veneta, mentre in Liguria fu creata la colonna genovese. E uscendo dalla logica dello scontro all’interno delle fabbriche i dirigenti brigatisti desideravano incidere direttamente sul processo politico del Paese, e proprio da Genova partì la prima azione condotta contro un esponente dello Stato: il rapimento, avvenuto il 18 aprile del 1974, di Mario Sossi, un magistrato che era stato pubblico ministero in un processo a un gruppo armato genovese. Condannato a morte dalle BR con lo slogan «Sossi fascista, sei il primo della lista!» il magistrato venne poi rilasciato senza ottenere una contropartita: liberato a Milano, tornò a Genova in treno e si consegnò alla Guardia di Finanza. Invece Francesco Coco, il procuratore generale della Repubblica che non aveva voluto trattare con i brigatisti, rifiutandosi di firmare la scarcerazione dei detenuti che i terroristi chiedevano in cambio della liberazione dell’ostaggio, verrà ucciso da un commando guidato da Mario Moretti, esponente dell’ala dura del movimento, che l’arresto di Renato Curcio e Alberto Franceschini avevano catapultato ai vertici dell’organizzazione, in un agguato a Genova, l’8 giugno 1976 insieme a due uomini della scorta: il primo magistrato trucidato durante gli anni di piombo.
Intanto negli stadi la passione degli italiani per il campionato di calcio non conosceva incertezze né si attenuava. Dopo quella memorabile del Cagliari, un’altra impresa infiammò gli animi dei tifosi e catturò l’attenzione degli appassionati: quella Lazio, l’undici capitolino di Giorgio Chinaglia, soprannominato Long John, bomber inarrestabile e simbolo della squadra biancoceleste, guidata in panchina dal tecnico Tommaso Maestrelli, che al termine del campionato del 1973/74 conquisterà lo scudetto. In quello stesso mese di maggio l’Italia votava il referendum voluto promosso dalla Democrazia Cristiana e sostenuto in Parlamento dal Movimento Sociale Italiano e fuori da Comunione e Liberazione, allo scopo di abrogare la legge che permetteva il divorzio. L’esito della consultazione popolare del 12 maggio 1974 fu clamoroso segnando contro le attese la prima grande sconfitta della Democrazia Cristiana e testimoniando come la modernizzazione del Paese introdotta dal boom economico e la contestazione sessantottina dell’etica dominante avesse profondamente inciso anche in Italia sull’evoluzione di costumi e mentalità. L’Italia tuttavia verrà scossa da due tremendi appuntamenti con la devastazione e la morte, il 28 maggio la strage di Piazza della Loggia a Brescia, dove una bomba nascosta in un cestino portarifiuti fu fatta esplodere mentre era in corso una manifestazione, provocando la morte di 8 persone e il ferimento di altre 102, mentre il 4 agosto la strage a bordo del treno Italicus, quando morirono 12 persone e rimasero ferite altre 48 in un attentato dinamitardo presso San Benedetto Val di Sambro, in provincia di Bologna, che avrebbe avuto conseguenze più gravi se l’ordigno fosse esploso nel cuore della Grande Galleria dell’Appennino che si sarebbe trasformata in una fornace, per i circa quattrocento passeggeri dell’espresso. Non successe solo a causa del recupero di tre minuti sul ritardo precedentemente accumulato alla partenza da Roma. Fu comunque un attentato orribile, la quinta carrozza del treno esplose e si incendiò a cinquanta metri dall’uscita della lunga galleria e le persone bruciarono vive, eppure questo tremendo episodio è il meno ricordato, commemorato e considerato dalla storiografia. Mentre nella tragedia, brilla l’eroismo di un giovane ferroviere di 24 anni, il forlivese Silver Sirotti, che munito di estintore, si slanciò tra le fiamme per soccorrere i viaggiatori intrappolati, non pochi si salvarono proprio grazie al suo spirito di servizio: morì eroicamente guadagnando una Medaglia d’Oro al Valor Civile.
Sempre nel 1974 si logora la formula governativa del centrismo e del centro-sinistra, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista quindi iniziarono a parlarsi: era l’alba del dialogo che Enrico Berlinguer aveva suggerito in una serie di pubbliche dichiarazioni alla fine del 1973 rivolgendosi alle forze che rappresentavano la grande maggioranza del popolo italiano. Il terrorismo nero decise di reagire all’ipotesi del compromesso storico fra democristiani e comunisti con le bombe, allo scopo di accresce disordine e panico, con l’auspicio di spingere una parte della società a chiedere un argine alla confusione, favorendo i più intraprendenti – fra questi Edgardo Sogno, con il suo progetto di golpe bianco – che si spinsero a credere di riuscire a instaurare un regime autoritario nel Paese. Quella Lazio, che nella stagione precedente aveva sfiorato il titolo da neopromossa, era figlia dei tempi che correvano, la squadra campione d’Italia era un gruppo turbolento: l’equilibrio del mister Maestrelli infatti si imponeva solo alla domenica, quando c’era da scendere in campo. In settimana invece il quartier generale di Tor di Quinto, il centro sportivo dove i biancocelesti si allenavano, era una vera e propria polveriera. Giorgio Chinaglia era indubbiamente il trascinatore della squadra, ma litigava con tutti, i giocatori si detestavano fra loro, addirittura mangiavano in mense separate e si cambiavano in spogliatoi diversi, caso unico nella storia di questo sport: da una parte la vecchia guardia guidata da Chinaglia e Pino Wilson, dall’altra i ribelli, entrati nel gruppo più recentemente, come Luciano Re Cecconi e Mario Frustalupi. Anche le partite settimanali di allenamento erano conflittuali e finivano in rissa, ogni volta si regolavano i conti in sospeso, e talvolta i calciatori laziali non riuscivano a scendere in campo alla domenica a causa degli infortuni che si procuravano in allenamento. Molti biancocelesti avevano il porto d’armi e si esercitavano al poligono, ma non si facevano scrupoli a portare le pistole in ritiro e sparare anche durante gli allenamenti o a farsi vedere armati in giro per Roma. Comunque, la dirompente ascesa sarà il preludio della fragorosa caduta di quella Lazio, che nella stagione 1974/75 non partecipò nemmeno alla Coppa dei Campioni a causa di una rissa scoppiata negli spogliatoi dell’Olimpico dopo il ritorno dei sedicesimi di finale della Coppa UEFA dell’anno precedente contro l’Ipswich Town che comportò per il club biancoceleste la squalifica dalle competizioni europee. Anche in campionato i biancocelesti non saranno all’altezza delle aspettative e non solo non riusciranno a difendere il tricolore, ma dovranno affrontare circostanze drammatiche che segneranno il declino nelle stagioni a venire: l’omicidio di Re Cecconi durante una rapina, quando il centrocampista, uno dei leader della squadra, fu ucciso da un colpo di pistola in una gioielleria di Roma e ancora oggi non si sa bene perché, la scomparsa dopo lunga malattia del mister Maestrelli oltre all’improvviso trasferimento di Chinaglia negli Stati Uniti.
A partire dai primi anni Settanta una nobile decaduta era tornata competitiva: il Torino. Il presidente della società granata, Orfeo Pianelli, grazie a mirate operazioni di mercato, stava via via costruendo una squadra all’altezza dei rivali cittadini della Juventus, inavvicinabili fino a pochi anni prima, da quando la tragedia di Superga aveva cancellato il Grande Torino consegnandolo al mito. Proprio per invertire quella tendenza alla frustrazione il presidente Pianelli decise di ingaggiare il paròn Nereo Rocco che pur non vincendo nessun trofeo con il Toro nei suoi tre anni di permanenza sulla panchina della squadra piemontese, lasciò un’impronta di forza e la voglia di tornare a competere ai massimi livelli. Nell’estate del 1971 arriverà al Torino Gustavo Giagnoni, sardo di nascita e mantovano d’adozione: sarà immediatamente contagiato dall’amore per il Toro, in quei freddi inverni torinesi il mister prenderà l’abitudine di indossare una sciarpa granata e un colbacco al quale verrà dato un significato politico, che non aveva. Con lui in panchina il Toro ha una marcia in più, e in quella stagione 1971/72 tornerà addirittura a competere per lo scudetto, per la prima volta dal “dopo Superga”. A metà aprile i ragazzi granata erano in testa, davanti alla Juventus, ma la classifica finale premierà i bianconeri che saranno campioni d’Italia, con il Toro staccato di un solo punto e il rammarico di un paio di clamorosi errori arbitrali che avrebbero cambiato le sorti della sfida per il titolo in favore del sodalizio granata. A fine campionato un nuovo termine entrò nell’enciclopedia del calcio italiano: il tremendismo granata. A parere di Giovanni Arpino, scrittore e giornalista: “L’espressione è perfetta per un club che magari non vince, ma è un osso durissimo per chiunque. Una squadra di orgoglio, di rabbie leali, di capacità aggressive, mai doma, temibile in ogni occasione e soprattutto quando l’avversario è di rango”. Ecco, tutto questo significa tremendismo. Giagnoni infatti aveva con la sua aria un po’ truce, la grinta e la sua personalità, aveva trasmesso alla squadra un gioco incisivo e una mentalità aggressiva, il Toro non mollava mai, e l’allenatore col colbacco entrava definitivamente nella mitologia granata in un derby del dicembre 1973: a un certo punto del match, Giagnoni non riesce più a resistere alle continue provocazioni di Franco Causio, così una volta raggiunto il giocatore juventino a bordocampo, spostando il guardalinee, lo colpisce con un cazzotto sullo zigomo e lo stende. A fine partita, l’allenatore sardo, pentito del suo gesto, teme le reazioni della stampa e una pesante squalifica, ma intanto i tifosi granata lo attendono impazienti, per portarlo in trionfo e gridare: “Questo è il Toro!”
Intanto alle elezioni amministrative del giugno 1975 la straordinaria avanzata in termini di preferenze del Partito Comunista fece ritenere vicinissimo il sorpasso sulla Democrazia Cristiana e provocò un terremoto nelle amministrazioni locali, dove si andavano radicando maggioranze di governo sempre più apprezzate fra socialisti e comunisti. In un anno segnato dalla fine della guerra in Vietnam, con la caduta di Saigon e relativa ritirata americana, e in cui i sindacati e gli operai parlavano di scala mobile per adeguare i salari all’inflazione, sulla panchina granata arriva un innovatore: il giovane Gigi Radice. Il prussiano, così lo chiamano per gli occhi chiari, vuole uno stile di gioco votato al pressing a tutto campo, a imitazione del calcio totale dell’Olanda di Cruijff e compagni, e sarà l’uomo giusto al momento giusto, nel posto giusto. Nei rituali da seguire prima delle partite c’è il consueto cinque che Radice scambia con tutti i giocatori, al momento dell’ingresso in campo, tutti tranne uno, perché il mister quando si trova davanti Pulici non gli dà la mano, ma vuole un testa contro testa col suo bomber che quando entra in campo fa esplodere la Curva Maratona in un boato impressionante. Poco dopo l’inizio di quel campionato, nella notte tra il 1º e il 2 novembre del 1975, fu ucciso in maniera brutale, percosso e travolto dalla sua stessa auto sulla spiaggia dell’Idroscalo di Ostia, vicino a Roma, Pier Paolo Pasolini. Era considerato tra i maggiori artisti e intellettuali del XX secolo, attento osservatore dei cambiamenti della società italiana e figura a tratti controversa, per la radicalità dei suoi giudizi assai critici nei riguardi delle abitudini borghesi come nei confronti del Sessantotto e dei suoi protagonisti. Il suo rapporto con la propria omosessualità – all’epoca nemmeno tollerata in Italia – fu al centro del suo personaggio pubblico, mentre lui, innamorato della sua squadra del cuore, il Bologna, considerava i pomeriggi trascorsi a giocare a pallone i più belli della sua vita. In quella stagione del 1975/76 il Torino sarà Campione d’Italia: una redenzione attesa per ventisette anni dopo Superga, raccogliendo grazie alla leadership di Gigi Radice i frutti maturati nel corso delle stagioni precedenti, facendo convivere e valorizzando al meglio sia generosi gregari che raffinati esteti come Sala – il poeta – e Pecci, un centrocampista d’assalto come il gentleman Zaccarelli e implacabili cannonieri, come i gemelli del gol Pulici e Graziani, insieme al giaguaro Castellini, un estremo difensore di grandi qualità, secondo solo a Zoff in Nazionale. Quattordici vittorie su quindici in casa, con un solo pareggio proprio nell’ultima e decisiva giornata, ma soprattutto una cifra di gioco eccezionale ed una velocità mai viste prima. Il sogno del presidente Pianelli era finalmente realtà: aveva restituito la gioia al popolo granata. Nel Paese, arrivati a giugno, trascorsa un’infuocata campagna elettorale in un clima di contrapposizione frontale, sembrò prossimo il sorpasso del Partito Comunista sui democristiani e nell’attesa da un lato della vittoria finale dei progressisti sui moderati e dall’altro di una rinnovata paura per il pericolo rosso, la mobilitazione in favore della Democrazia Cristiana fu senza quartiere e coinvolse anche Indro Montanelli, che dalle colonne del suo il Giornale ammonì i lettori con uno slogan poi rimasto celebre: turatevi il naso ma votate DC!
Ed effettivamente andò proprio così: la Democrazia Cristiana dimostrò grandi capacità di recupero, conservando la maggioranza ma indebolendo i tradizionali alleati, mentre a sinistra il Partito Comunista non sfondò ma ottenne il miglior risultato elettorale della sua storia, anche in quel caso a scapito degli alleati socialisti e dell’estrema sinistra. A settembre intanto l’Italia del tennis tornava da Santiago del Cile dove aveva vinto per la prima volta la Coppa Davis, la massima competizione mondiale di questo sport, avendo rischiato fino a pochi giorni prima di non giocarla nemmeno. La gara, infatti, la finalissima, era prevista contro la nazionale cilena proprio in Cile, paese retto dalla brutale dittatura di Pinochet e per giunta, il campo di gioco si trovava nel complesso dello Stadio Nazionale, divenuto uno dei simboli della repressione del regime, usato, negli anni precedenti, come campo di concentramento per i prigionieri politici. E in Italia, dove la polarizzazione delle posizioni sembra insanabile, cortei e manifestazioni si susseguivano al grido Non si giocacon il boia Pinochet, mentre Adriano Panatta, il nostro tennista più forte e rappresentativo, veniva accusato di essere miliardario e fascista mentre era diventato benestante col talento e mai si era identificato con i progetti della destra liberale, figurarsi con quella estrema. I parlamentari socialisti sono contrari a partecipare e Domenico Modugno canta in favore del boicottaggio, mentre il governo di Giulio Andreotti non prende posizione, aspetta. L’estrema sinistra spinge per il rifiuto, non vuole giocare. Ma il capitano della Nazionale, Nicola Pietrangeli, e i tennisti vogliono giocare, Andreotti allora fa decidere al CONI, che a sua volta si affida al parere della FIT, la Federazione italiana del tennis. La Federazione, che ha da poco nominato Paolo Galgani nuovo presidente, aspetta di vedere da che parte tira il vento e alla fine si fa convincere da Enrico Berlinguer, l’ideatore dell’euro-comunismo, che si muove in direzione contraria rispetto all’Unione Sovietica, che ha boicottato la Coppa Davis e si aspetta lo stesso dall’Italia.
Il carismatico segretario del Partito comunista matura la decisione dopo essersi in qualche modo consultato con il leader comunista cileno, Luis Corvalán infatti gli suggerisce di non procedere con un boicottaggio che si sarebbe potuto rivelare vantaggioso per Pinochet, verso il quale il consenso nazionalistico all’epoca cresceva. A quel punto il Rubicone è oltrepassato: si va in Cile per vincere. Nel corso del doppio Adriano Panatta, noto per le sue simpatie politiche di sinistra, decise di giocare con una maglietta rossa, in omaggio alle vittime della repressione di Pinochet, convincendo il suo compagno Bertolucci a fare lo stesso: la prima Davis italiana diventa realtà. Dopo la pausa, alla fine del terzo set, Panatta e Bertolucci si erano cambiati, abbandonando la maglietta rossa. Il trionfo imminente andava celebrato in azzurro. Intanto si ragionava nei palazzi della politica circa la necessità di un governo di “solidarietà nazionale”, invece in California nasceva nell’estate del 1976 Apple Computer, Inc. quando Steve Jobs e Steve Wozniak, a Cupertino nella Silicon Valley, si organizzarono, coi pochi soldi di cui disponevano, allo scopo di sviluppare e vendere il personal computer Apple I: nel giro di pochi anni Jobs e Wozniak avevano assunto uno staff di progettisti di computer e avevano una linea di produzione, che dopo molti anni sarebbe arrivata a cambiare lo stile di vita della maggior parte dell’umanità, niente meno. Era iniziato puntualmente il campionato del 1976/77 che appassionerà come sempre tutto il Belpaese e si rivelerà fin da subito un furibondo testa a testa fra il Toro e la Juventus, fino all’ultima giornata, fra sorpassi e controsorpassi. Alla fine, la squadra granata raggiungerà la stratosferica cifra – in un campionato a 16 squadra – di cinquanta punti, cinque più della stagione precedente, ma la Juventus per loro sfortuna ne farà uno in più. Delusione difficilissima da smaltire, da aggiungere alla cocente quanto rocambolesca eliminazione in Coppa dei Campioni, agli ottavi terminando in otto con Ciccio Graziani in porta la partita di ritorno, per mano dei fortissimi tedeschi del Borussia Mönchengladbach. Il Toro si avvierà da allora verso un nuovo lento declino, mentre i rivali della formidabile Juventus guidata da Giovanni Trapattoni, inizieranno uno straordinario ciclo di vittorie in Italia e, più tardi, in Europa.
Oramai nel Paese divampava il conflitto politico e culturale in tutti i luoghi del sociale. Gli effetti della politica d’austerità varata dal primo governo di “solidarietà nazionale” portarono allo scoperto una composita area di dissenso, indicata col nome generico di movimento del 77 che tracciava un perimetro all’interno del quale convivevano posizioni anarcoidi, rifiuto del lavoro e operaismo, istanze pacifiste e teorizzazione dell’illegalità di massa, che costituirono il diffuso retroterra ideologico ispiratore dello scontro frontale con le istituzioni. In particolare, ci fu un’avvisaglia: il 17 febbraio la violenta contestazione rivolta contro il segretario della CGIL Luciano Lama si trasformò in scontro aperto con il servizio d’ordine del sindacato. Gli scontri per violenza e intensità causarono lo scioglimento anticipato del comizio e l’abbandono della città universitaria da parte del segretario e della delegazione della CGIL, l’evento diverrà famoso e ricordato come la cacciata di Lama dall’Università La Sapienza di Roma, oramai occupata e ingovernabile e, in conseguenza di quell’episodio, consegnata dal rettore alla polizia, mentre una fitta serie di episodi di violenza si susseguiranno nelle principali città d’Italia, senza soluzione di continuità. L’11 marzo 1977 a Bologna studenti della sinistra extraparlamentare affrontarono le forze dell’ordine intervenute a difesa di un’assemblea di CL, durante gli scontri fu ucciso Francesco Lorusso, militante di Lotta Continua e studente universitario.
La notizia della morte del giovane si diffuse rapidamente e ne seguì l’affluire di migliaia di studenti verso la zona universitaria che venne barricata in un clima di incredulità, dolore e rabbia. In risposta alle proteste ed ai gravi disordini scoppiati in città, il Ministro dell’Interno, Francesco Cossiga, dispose l’invio di mezzi blindati nelle strade del centro di Bologna, finendo così per accentuare lo scontro politico, vista la profonda impressione suscitata nell’opinione pubblica nel vedere – nel cuore della capitale dell’Emilia, cingolati per il trasporto truppe che furono generalmente percepiti come carri armati. Tutte le iniziative di protesta lanciate nei giorni successivi furono duramente represse, anche attraverso l’esecuzione di numerosi arresti e fermi di polizia. Il 12 marzo dello stesso anno si svolse a Roma una grande manifestazione nazionale di protesta contro la repressione, che per la tensione e la rabbia accumulate nelle ore precedenti, sfociò in violentissimi scontri di piazza e gravi episodi di guerriglia urbana, caratterizzati da assalti e dal lancio di bottiglie molotov contro banche, esercizi commerciali, ambasciate, comandi delle Forze dell’ordine e sedi della DC, considerata politicamente responsabile della situazione. In quel particolare momento va riconosciuto un argine alla violenza: la dura presa di posizione manifestata dalle organizzazioni e dai partiti della sinistra storica, frattura che si rese particolarmente evidente a seguito del forte appoggio fornito dal Partito comunista alle manifestazioni contro la violenza organizzate dai sindacati confederali, dove per fortuna iniziava a guadagnare terreno una più realistica percezione delle esigenze economiche, e tra i lavoratori si diffondevano il disagio e l’insofferenza per il carattere esclusivamente politico delle manifestazioni di protesta.
A seguito della carcerazione di Renato Curcio, fondatore insieme ad altri e ideologo, le BR si riorganizzarono decidendo di accentuare la caratterizzazione “militare” in vista di una nuova fare operativa incentrata su azioni terroristiche violente e di forte impatto, e fu così che durante l’anno ci sarà una vera e propria escalation di ferimenti e omicidi. A Venezia intanto la notte più drammatica fu quella del 31 marzo 1977: i problemi cominciarono nel pomeriggio, ai violenti scontri con la polizia e al lancio delle bottiglie molotov seguirono le devastazioni e i saccheggi di negozi di lusso, e un attacco incendiario al Comando della Guardia di Finanza oltre ad un attentato dinamitardo rivolto alla sede della giunta regionale del Veneto, mentre Marghera, Mestre, Padova, Rovigo e Vicenza venivano messe a soqquadro per quasi due anni quando, durante le così dette notti dei fuochi, una serie di attentati volevano sfruttare il malcontento della classe operaia inducendola a simpatizzare coi terroristi, secondo i programmi degli agitatori. Nel frattempo iniziava a Torino il processo ai “capi storici” delle BR – tra cui Renato Curcio e Alberto Franceschini – ed era accaduto un fatto mai verificatosi in precedenza in Italia: tutti gli imputati detenuti si proclamarono militanti dell’organizzazione comunista Brigate Rosse e combattenti comunisti assumendo collettivamente e per intero la responsabilità politica di ogni sua iniziativa passata presente e futura disconoscendo qualunque presupposto legale per quel processo, revocando il mandato ove già conferito e minacciando di morte i legali che avessero accettato la nomina come difensori di ufficio, rendendo di fatto il processo “impossibile” in mancanza della difesa tecnica, quale garanzia costituzionale, e inducendo il presidente della Corte d’Assise, constatate le difficoltà di pervenire alla nomina di difensori, a incaricare della difesa d’ufficio il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino, l’avvocato Fulvio Croce, il quale pur essendo un avvocato civilista e consapevole dei gravissimi rischi a cui si esponeva, onde non rallentare il corso di un processo così importante, accettò l’incarico dimostrando grande coraggio e assoluta fiducia nella forza della legge.
Nel primo pomeriggio del 28 aprile del 1977, pochi giorni prima della data fissata per l’udienza del processo, un gruppo di fuoco delle BR uccise l’avvocato Croce nei pressi del suo studio legale in via Perrone a Torino, colpendolo mortalmente con cinque colpi di pistola che lo raggiunsero alla testa e al torace. Intanto in quel 1977 dagli Stati Uniti verso il resto inizia una saga cinematografica che non avrà uguali con l’omonimo film Guerre stellari, sottotitolato retroattivamente Episodio IV – Una nuova speranza. Il film, ambientato diciannove anni dopo la fondazione dell’Impero Galattico, narra le avventure dello Jedi Luke Skywalker e del suo maestro Obi-Wan Kenobi, impegnati nella lotta contro il Lato Oscuro della Forza, a fianco dell’Alleanza Ribelle, guidata dalla Principessa Leila, in modo da porre fine al potere dell’Imperatore sulla Galassia. Dopo un inizio in sordina, distribuito in pochi cinema americani, Guerre stellari si rivelò un successo senza precedenti sia al botteghino sia nel modo in cui si radicò nel cuore della coscienza pubblica. La maggior parte della critica spese parole d’elogio giudicandolo capace di immergere gli spettatori nel suo mondo fantastico e di coinvolgere con una narrazione semplice, ma solida ed entusiasmante, coadiuvata da effetti speciali spettacolari come raramente si erano visti prima, la saga poi sarebbe diventata un fenomeno culturale di massa, oramai è un dato storico, fin dall’uscita del primo film, e ha avuto un forte impatto sulla moderna cultura pop e le sue citazioni si sono radicate nell’uso quotidiano: frasi come la Forza sia con te o Io sono tuo padre sono diventate parte integrante del lessico della popolazione, mentre la Forza e Lato Oscuro sono state incluse nell’Oxford English Dictionary.
Il 30 ottobre 1977 anche il mondo dello sport vive una giornata straziante, quando alla stadio Comunale Pian di Massiano il Perugia di Ilario Castagner ospita la Juventus di Trapattoni. All’epoca la squadra dei grifoni faceva sognare tutta l’Umbria, e il giovane Renato Curi in particolare era entrato nel cuore dei tifosi quando il 16 maggio dell’anno precedente un suo destro al volo all’ultima giornata aveva superato Zoff, togliendo lo scudetto ai bianconeri e consegnandolo al Toro di Radice. Il 30 ottobre invece era una giornata da lupi: il cielo sopra Perugia era nero e gonfio di pioggia, che poi inizierò a cadere flagellando senza tregua i giocatori, ma al quinto minuto della ripresa, sullo zero a zero, dopo una rimessa laterale per gli umbri e uno scatto nel tentativo di raggiungere la palla, dal cerchio di centrocampo, Renato Curi si accascia improvvisamente al suolo, come fulminato, allarmando i compagni e gli avversari che gli si avvicinano, gli juventini Roberto Bettega e Gaetano Scirea spaventati gesticolano freneticamente per chiamare soccorso, entrano immediatamente in campo i sanitari e si intuisce che si sta compiendo un dramma sportivo e umano. Non servono il massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca, il centrocampista esce in barella privo di sensi sotto una pioggia sempre più forte: morirà poco dopo stroncato da un arresto cardiaco, all’età di ventiquattro anni, nella commozione generale. Tutta Italia peraltro stava per vivere un altro momento epocale: il 16 marzo 1978 avvenne l’agguato di via Fani a Roma, quando lo sterminio della scorta, fu il preludio al sequestro e al successivo assassinio dell’allora presidente della DC Aldo Moro, consumato il 9 maggio 1978, e definito dalle BR “l’attacco al cuore dello Stato”. Si chiudeva così il sequestro più drammatico della storia dell’Italia repubblicana, durato ben 55 giorni, che gettò il Paese nel panico e stroncò definitivamente la maturazione del progetto politico che Aldo Moro aveva abbozzato: cioè inserire nell’area democratica prima e nelle responsabilità di governo poi il PCI. Questi tempi sembravo non finire mai, dal giugno 1978 al dicembre 1981 aumentarono gli agguati, le uccisioni e i ferimenti terroristici. Le statistiche segnalarono una continuità di attentati mai conosciuta in Europa: il numero delle organizzazioni armate attive in Italia era passato da 2 nel 1969 a 91 nel 1977 fino a 269 nel 1979, mentre in quello stesso anno si registrò la cifra record di 659 attentati. Tuttavia l’anno con più vittime sarà il 1980, quando moriranno 125 persone, di cui 85 solo nella strage della Stazione Centrale di Bologna.
L’Italia era allo stremo, ma a quel punto a Genova successe qualcosa di imprevedibile e imprevisto, tanto da cambiare il corso degli eventi. Lo scopriremo nel seguito del racconto…
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El secreto de sus ojos è un grande film. Una pellicola argentina da vedere (e rivedere) fino a suggerirla a tutte le persone a cui volete bene o delle quali semplicemente apprezzate intelligenza e sensibilità; in Italia è distribuita come Il segreto dei suoi occhi. Il titolo è la traduzione letterale di quello originale, nella nostra lingua. Fortunatamente. In Italia infatti quando si ritiene opportuno tradurre il titolo di un film straniero spesso di sconfina nel ridicolo, a volte nel raccapriccio: per questioni di marketing – ad esempio – Vertigo di Hitchcock diventò La donna che visse due volte; a causa invece di scelte stilistiche difficilmente comprensibili, invece, Domicile conjugal di Truffaut fu trasformato in Non drammatizziamo… è solo una questione di corna.
Questo capolavoro, diretto dal regista Juan José Campanella, che ha vinto l’Oscar nel 2010 premiato come “Miglior film straniero”, propone interpreti magnifici: e fra loro l’elegante Soledad Vilamil, attrice e cantante deliziosa, impegnata nei temi del tango e del folk argentino, che dà vita al personaggio di Irene Menéndez Hastings. In quel periodo mi trovavo proprio a Buenos Aires e così oltre all’opportunità di vedere la pellicola in lingua e nel contesto originale, potevo acquistare Morir de Amor, semplicemente il disco più bello della Vilamil. Anche il film è un contenitore di emozioni: inquietudini nascoste tra le mura di stanze buie e palazzi austeri che intrecciano una storia irrisolta, raccontata per mezzo di sequenze profonde che svelano l’anima dei protagonisti e ci interrogano sulla nostra coscienza. Ad un certo punto della narrazione quando Guillermo Francella, che dà vita al personaggio di Pablo Sandoval, “siempre borracho” (ubriaco) ma “siempre lúcido”, glielo dice chiaro a Benjamín Espósito – il protagonista – interpretato da Ricardo Darín, mentre si trovano in uno di quei bar dove gli amici si incontrano, nella realtà il café Only VI, al 700 del Paseo Colón, declamando: “Te das cuenta, Benjamín? El tipo puede cambiar de todo: de cara, de casa, de familia, de novia, de religión, de Dios. Pero hay una cosa que no puede cambiar, Benjamín: no puede cambiar de pasión”.
La pasión – nel caso di questo film – è quella dell’assassino per la sua squadra del cuore: il Racing Club, el Primer Grande del calcio argentino. Puoi cambiare tutto, afferma Sandoval: la faccia, la famiglia, la fidanzata, la religione, puoi scegliere un altro dio, però una cosa non la puoi cambiare. Non puoi cambiare passione. Eduardo Sacheri lo aveva scritto con cognizione di causa nel romanzo La pregunta de sus ojos – da cui è tratta la sceneggiatura del pluripremiato film – perché appartiene a quella schiatta di scrittori, molti sono argentini, capaci di coniugare la letteratura e lo sport, come Roberto Fontanarrosa, Dante Panzeri, Juan Sasturain e Osvaldo Soriano, e di raggiungere vette altissime, utilizzando il fútbol come una scusa per parlare della vita: dei grandi temi come di quelli, non meno essenziali, della quotidianità. Nadie puede cambiar de pasión. Questa affermazione di Sacheri si associa nei miei ricordi al pensiero di Javier Marías, probabilmente il più importante scrittore spagnolo contemporaneo, grande accademico di Spagna, ammirato dalla critica e dal pubblico per romanzi come Domani nella battaglia pensa a me, Nera schiena del tempo, Tutte le anime, Così inizia il male, Un cuore così bianco, e molti altri capolavori, tutti tradotti e pubblicati in Italia a cura dell’editore Einaudi.
Questo gigante della letteratura mondiale – autentico merengue, per i non addetti ai lavori: si tratta del soprannome degli irriducibili tifosi del Real Madrid – nel suo magistrale Selvaggi e sentimentali, opera imperdibile per leggere di calcio ad un livello più alto, osserva: “la sola cosa che non sembra negoziabile, mentre tutto è soggetto a cambiamento, anche più di uno, dalle abitudini ai gusti letterari, dalla moglie o dal marito al partito politico, è la squadra per cui si tifa”, definendo la Liga – il massimo livello del campionato spagnolo, omologo della nostra Serie A – in un articolo apparso su El País nel 1992, con quello che dovrebbe essere il motto di ogni competizione sportiva: “il recupero settimanale dell’infanzia”. Considerato da molti intellettuali di sinistra alla stregua di un oppiaceo o nella migliore delle ipotesi una distrazione un po’ volgare, personalmente ho sempre trovato poco convincenti le critiche formulate per ragioni ideologiche di chi vuole negare il valore del gioco e il suo fascino nei confronti delle masse, insomma (anche) a me il calcio sembra una magnifica pasión, oltre ad essere, non lo trascurerei perché si tratta di un dato di fatto, l’argomento di discussione più diffuso al mondo.
Certo, nessuno deve dimenticare la partita più seria, quella della vita, al confronto della quale il calcio può essere considerato, al limite, la prima cosa fra tutte le cose meno importanti, come ripeteva Arrigo Sacchi, ma già Enrico Berlinguer, segretario del PCI, in un intervista del 1975 apparsa su Tuttosport, a Gianpaolo Ormezzano che gli chiedeva se è vero che lo sport è responsabile di “ottundere le coscienze, di favorire l’alienazione delle masse”, dando prova di equilibrio e intelligenza rispondeva così: “Non penso che l’operaio, se alla domenica va allo stadio, al lunedì sia meno preparato ad affrontare i problemi del lavoro, le battaglie sindacali. Non voglio dire con questo che la domenica allo stadio giovi alla politicizzazione dell’operaio, ma non spartisco la paura per le conseguenze di questa sua vacanza festiva”. Pier Paolo Pasolini invece non era così distaccato, anzi si era innamorato perdutamente del calcio a Bologna. È qui, durante il liceo, che giocava per ore e ore a pallone con gli amici, con la fortuna poi di assistere dalle tribune dello stadio felsineo alla vittoria di ben quattro scudetti da parte del Bologna FC, “lo squadrone che tremare il mondo fa”, in quegli anni all’apice della propria gloriosa storia.
Grazie alla ricerca appassionata e documentata di Valerio Curcio, che scritto un libro magnifico per Compagnia Editoriale Aliberti: Il calcio secondo Pasolini, è possibile apprezzare le riflessioni di uno dei massimi pensatori contemporanei che nel suo tempo riesce a vivere la contraddizione di intellettuale impegnato che ama uno sport da molti considerato “oppio dei popoli”. Pasolini osservava il calcio dai campetti di periferia fino alla Serie A, sempre con attenzione, considerando la partita allo stadio come l’ultimo rito sacro dell’età contemporanea: “I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sono stati indubbiamente i più belli della mia vita. Mi viene quasi un nodo alla gola, se ci penso”. Albert Camus, un vero e proprio outsider nell’élite intellettuale parigina del primo Novecento, che lo disprezzava, quando vincerà il premio Nobel per la letteratura nel 1957, affermerà che: “le peu de morale que je sais, je l’ai appris sur les terrains de football”; provocazione non solo rivolta a spiazzare critici e interlocutori del gran mondo accademico francese, con cui Camus non andava proprio d’accordo, a lui parlare di calcio piaceva davvero, e piaceva troppo.
Non poteva essere altrimenti. Il ragazzo, cresciuto in Algeria in seno a una poverissima famiglia di Pieds-Noirs, era un eccellente portiere che – fino a quando la tubercolosi non distruggerà in lui ogni ambizione sportiva – aveva trovato la sua “vera università” all’interno dell’area piccola, quella di pertinenza dell’estremo difensore, ed era sincero – Camus – quando diceva a tutti che: “non c’è luogo al mondo in cui l’uomo sia più felice che in uno stadio di calcio”. E se ci fosse bisogno di una conferma, ce la offre l’uomo politico tra i più influenti e popolari dirigenti comunisti mondiali, che guidò il Partito Comunista d’Italia dagli anni ‘20 agli anni ‘60 del secolo scorso, quello che i suoi compagni chiamavano “il Migliore”, a cui i sovietici, che gli concessero la cittadinanza, dedicarono addirittura una città in Unione Sovietica: Togliattigrad. Allora, narrano i bene informati che Palmiro Togliatti ogni lunedì mattina chiedesse a Pietro Secchia, che cosa avesse fatto la Juve il giorno prima; se il malcapitato non aveva la risposta pronta, l’iconico segretario del Partito, usava rimbrottare, rimproverando il più ambizioso e massimalista fra i dirigenti comunisti italiani: “E tu, pretendi di fare la rivoluzione senza sapere i risultati della Juventus?”
Dopo aver evocato tanti intellettuali irraggiungibili, la pretesa di scrivere qualcosa di interessante per il prossimo assume forse i connotati della vanità. Tuttavia, il cantautore (e avvocato) astigiano Paolo Conte, uno che preferisce l’eleganza della scuola magiara, che ha nominato migliore giocatore di sempre non Maradona o Pelé, non Messi o Ronaldo, ma l’ungherese Ferenc Puskás, recita nella splendida canzone “Bartali”, dedicata al grande ciclista toscano: “È tutto un insieme di cose”, riferendosi a una certa situazione emotiva. Ecco la risposta più sincera. Un insieme di cose: esibizionismo, sentimentalismo, e il piacere sottile di divagare saltando di palo in frasca, come si fa con gli amici di sempre, magari in uno dei tanti Bar Sport delle nostre città o dei nostri paesi, luoghi dove si poteva stare insieme per divertirsi e difendere la squadra del cuore, quella che io scelsi per una questione di colori: invece del brillio (entusiasta) rossonero o del signorile (e assai vincente) abbinamento bianconero da bambino mi innamorai dell’ombroso accostamento nerazzurro, protagonista (allora come in seguito) di clamorose disfatte e qualche volta di esaltanti impennate.
Sono troppe le storie di sport da raccontare, meglio se con l’attenzione dello storico e la sensibilità del narratore, e ci sono tante storie di uomini al loro interno, e quindi di altre donne e altri uomini che nell’incrocio con la Storia più grande passano del tempo a discutere, emozionarsi e incitare la loro squadra del cuore o il loro atleta preferito, in una spirale di metanarrazione che i francesi chiamano à colimaçon, come il vortice di una scala a chiocciola, appunto. È così, scoprendone i connotati epici e collettivi, quindi davvero sportivi, che ogni storia diventa una pasión, e si trasforma nell’occasione per guardare a se stessi e al mondo, alla natura umana e al suo sistema, perché, in sintonia con le parole di Javier Marías, e per tornare al calcio: “se perdere o vincere una partita non viene vissuto come un evento cruciale, e con una trama e una storia, con una svolta o una catastrofe, che riguarda il passato, il presente e il futuro, la dignità e il decoro e, naturalmente, la faccia con cui uno si alza l’indomani, allora lasciamo perdere…”
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