I veterani che soggiornano al Royal Hospital di Chelsea in occasione delle feste o delle ricorrenze indossano un tricorno nero e una magnifica uniforme scarlatta, sulla quale appuntano le loro meritate decorazioni. Il grande edificio che li ospita nelle intenzioni di Carlo II Stuart, re d’Inghilterra, Scozia, Irlanda e Francia, doveva essere un ospedale, edificato su progetto del grande architetto dell’epoca Christopher Wren; ma i primi ospiti nella grande struttura furono i militari reduci dalla battaglia di Sedgemoor, da allora il Royal Hospital di Chelsea è una casa di riposo per anziani soldati dell’esercito britannico, amati e conosciuti in tutta la Gran Bretagna come i Chelsea Pensioners.
Una metropoli senza un vero centro. Estesa e multiforme, all’avanguardia e al tempo stesso tradizionalista, caotica quanto riservata, Londra non può essere una capitale come tante altre. Quella che dovremmo chiamare oggi la Greater London è nata intorno a quel miglio quadrato conosciuto in tutto il mondo come la City (of London) – un tempo sede del potere politico, oggi soprattutto di quello finanziario, dove anche la regina deve chiedere il permesso al padrone di casa, il Lord Mayor – e la sua “sorella” (la City of) Westminster – sede invece del potere religioso, e oggi centro delle istituzioni del regno, associata nell’immaginario alla Casa dei Comuni, dove torreggia il Big Ben e all’omonima abbazia – entrambe inscindibili dal loro fiume, il Tamigi. Un tempo capitale del più grande impero della storia, che dominava un quinto della popolazione mondiale e quasi un quarto dell’intera superficie terrestre, oltre a tutti i mari del pianeta, Londra oggi è un mosaico assortito di quartieri – i borough – dall’identità precisa. Il borough di Chelsea, in particolare, evoca prima di tutto la famosa King’s Road, la mitica strada al centro della moda mondiale negli anni Sessanta, quando impose al mondo la miningonna inventata da Mary Quant, che dalla boutique della stilista arrivò a cambiare i costumi di allora, e così fu anche per un’altra grande donna è stilista, quella Vivienne Westwood che negli anni Settanta contribuì a creare lo stile punk, con intuizioni stravaganti e provocatorie. E tuttavia questo “villaggio” che costeggia il Tamigi, circondato da Belgravia, Brompton, Earl’s Court, Holland Park e South Kensington, è caratterizzato da un’atmosfera letteraria e raccolta, fatta di case basse e giardini curati fra le tipiche vie strette, e non solo di piazze eleganti e dimore affascinanti, dove hanno vissuto fra gli altri Freddy Mercury, Francis Bacon, Thomas Carlyle, Eric Clapton, Ava Gardner, Mick Jagger, Bob Marley, Thomas More, Lauren Olivier, Mary Quant, Mary Shelley, Maggie Smith, Bram Stoker, John R.R. Tolkien e Oscar Wilde per citare solo alcuni dei residenti del passato, e in rigoroso ordine alfabetico.
È sempre stato comprensibilmente molto legato ai Pensioners il Chelsea Football Club, e non casualmente il primo soprannome dei loro giocatori fu proprio The Pensioners e fino agli anni ‘50 lo stemma del sodalizio di Stamford Bridge era rappresentato dal ritratto stilizzato di un Pensioner del Royal Hospital. Tutt’ora comunque gli anziani residenti partecipano spesso alle partite casalinghe del Chelsea e quando la loro squadra, affidata dal neoproprietario russo Roman Abramovič al giovane allenatore portoghese José Mourinho, l’indimenticabile The Special One, riuscì a imporsi e vincere il titolo di campione d’Inghilterra, cinquant’anni dopo la prima volta, aggiudicandosi la Premier League nella stagione 2004/05, i Chelsea Pensioners – in alta uniforme rossa – formarono niente meno che la guardia d’onore, mentre i giocatori presentavano il trofeo in uno Stamford Bridge letteralmente impazzito. E a proposito di colori, il Chelsea ha praticamente vestito sempre di blue: i primi anni dalla fondazione, i giocatori indossavano una maglia di un colore più tenue, il cosiddetto Eton Blue, il preferito di George Henry Cadogan, 5th Earl Cadogan (il quinto conte di Cadogan), considerato il patrono del club che donò le prime divise ispirate a quelle delle squadre sportive del college che aveva frequentato in gioventù e che distinguevano anche la sua scuderia di cavalli da corsa. In seguito le magliette verranno sostituite, nel 1912 il sodalizio adotterà il cosiddetto Blue Royal, colore che non abbandonerà mai più.
Dalla sua fondazione, avvenuta il 10 marzo del 1905 al pub The Rising Sun di Fulham Road, il Chelsea non ha (quasi) mai modificato i suoi colori sociali, ma ha cambiato più volte il simbolo che l’identifica. Il primo fu il cosiddetto Chelsea Pensioner, in auge per mezzo secolo, pur non apparendo mai sulla maglietta della squadra. In seguito ad un primo tentativo di modernizzazione il Pensioner verrà sostituito dalle iniziali del club, C.F.C., che compariranno ricamate sulle divise da gioco, mentre la stagione successiva, nel 1953, verrà adottato un leone rampante – ispirato allo stemma del borough, che a sua volta traeva origine dall’emblema del conte di Cadogan – che guarda dietro di sé e tiene fra le zampe uno scettro, simboleggiante (la city di) Westminster, e che resterà in uso per circa trent’anni. Dopodiché nel 1986 il leone rampante abbandonerà le maglie dei Blues per essere rimpiazzato da uno ruggente, simbolicamente posto a guardia del club, rappresentato dalle sue iniziali che nella grafica erano sovrastate dal grande felino. Infine, nel contesto delle iniziative per i festeggiamenti del primo centenario di vita del club, l’oligarca russo Roman Abramovič, che nel frattempo l’aveva acquistato, deciso a costruire un’immagine più accattivante della società, investendo risorse ragguardevoli con l’ambizione di trasformare il Chelsea in una squadra vincente, surclassando le rivali cittadine e non solo, scelse di ripristinare il leone cerimoniale tanto caro ai tifosi, adeguato a canoni estetici più moderni. Da allora l’attuale simbolo compare sulla maglia blue resa una delle più ambite d’Inghilterra e d’Europa, perché associata a un sodalizio che negli ultimi venti anni s’è aggiudicato, fra gli altri allori, cinque volte la Premier League e cinque volte la Coppa d’Inghilterra, due volte l’Europa League e la Champions League, il massimo trofeo continentale.
Pure in un ambiente tanto idilliaco, negli anni ‘70 e ‘80, quando il Chelsea stava attraversando un periodo drammatico sotto il profilo economico, finanziario e sportivo, transitavano lungo il Tamigi anche gli hooligan è quelli affezionati al Chelsea erano particolarmente aggressivi e temuti. Si chiamavano Shed Boys – solo in seguito scelsero il nome di Headhunters – e al sabato, prima e dopo le partite, le loro incursioni facevano paura, diventando tristemente memorabili i loro scontri coi feroci Inter City Firm e i Bushwackers, i loro omologhi del West Ham United FC e del Millwall FC, che terrorizzavano Londra. In quegli anni a dire il vero tutto l’ambiente del calcio inglese era caratterizzato da un contesto deprimente. Gli stadi erano a dire poco fatiscenti e frequentati da un pubblico rappresentato in grande maggioranza dalle classi sociali più emarginate, legate ad altre sottoculture britanniche, come quella hard mod, rude boy e skinhead, che favorirono l’affermazione di numerosi gruppi di hooligan responsabili di un aumento incontrollato degli episodi di violenza, in concomitanza con le partite. Il fenomeno della violenza degli hooligan si fece al mondo intero il pomeriggio del 29 maggio del 1985 a Bruxelles. Il vecchio stadio Heysel, simile a molti impianti d’oltremanica, ospitò infatti quell’anno la finale di Coppa dei Campioni tra gli inglesi del Liverpool e gli italiani della Juventus, e prima della partita fu teatro di uno dei più gravi incidenti della storia calcistica europea. Successe che a causa dell’assalto degli hooligan del Liverpool un folto gruppo di tifosi italiani si ammassò contro un muro di contenimento, e l’obsolescenza della struttura contribuì al disastro che ne seguì: il parapetto cedette provocando la caduta dei tifosi sul selciato sottostante dieci metri, causando la morte di 39 persone e il ferimento grave di oltre 600, nell’evento passato alla storia come “la strage dell’Heysel”.
Una strage, nel vero senso del termine, e nemmeno l’ultima purtroppo, avvenuta però dopo una lunga serie di altri fatti di degrado e violenza praticamente con cadenza settimanale in ogni città d’Inghilterra. Solo pochi giorni prima i fatti dell’Heysel si era verificato il drammatico incendio allo stadio Valley Parade di Bradford – l’11 maggio 1985 – in cui morirono 56 spettatori e 265 rimasero gravemente feriti. Peraltro solo a seguito dell’esclusione per cinque anni da tutte le competizioni europee decisa dalla UEFA nei confronti delle squadre inglesi a seguito dell’Heysel, il governo del primo ministro Margaret Thatcher fu in un certo senso obbligato a prendere provvedimenti, peraltro con poca convinzione. La questione della violenza associata alle manifestazioni calcistiche all’epoca era colpevolmente ignorate, si consideravano altre questioni più urgenti, come la deindustrializzazione e i lunghi scioperi dei sindacati britannici, spesso repressi dalla polizia, o la questione del terrorismo legato all’Irlanda del Nord. Il governo di Sua Maestà quindi agì con superficialità, limitandosi a proibire il consumo di bevande alcoliche negli stadi e rafforzando le barriere e le recinzioni per dividere le tifoserie avversarie, isolandole: a Stamford Bridge addirittura si pensò a un recinto elettrificato per i tifosi ospiti. Pura follia, come il tempo si incaricò di dimostrare. Il 15 aprile del 1989 infatti si verificò infatti una delle più gravi tragedie nella storia del calcio inglese: 96 tifosi del Liverpool morirono schiacciati dalla calca a causa della cattiva gestione dell’ordine pubblico allo stadio Hillsborough di Sheffield – in occasione della semifinale della Coppa d’Inghilterra tra Liverpool e Nottingham Forest – e 766 rimasero feriti, in quella che viene considerata con ragione la più grande tragedia dello sport britannico.
Qualcosa andava cambiato, e in maniera radicale. La nazione era sotto choc e questa volta non si poteva far finta di nulla. Il governo incaricò una commissione presieduta da Peter Taylor, un magistrato autorevole e stimato, di ragionare sulle criticità inerenti l’organizzazione e la sicurezza degli eventi sportivi in Gran Bretagna. Il cosiddetto Rapporto Taylor fu molto severo, individuando nella prassi della maggioranza degli spettatori di assistere in piedi alle partite un fattore di rischio per la sicurezza dell’utenza in generale, anche a causa dell’impreparazione delle forze di polizia a governare situazioni tanto complesse, spesso comunque ingestibili, rivolgendo a tutte le società appartenenti alle divisioni professionistiche delle federazioni calcistiche britanniche una raccomandazione: evitare che la violenza rappresentasse l’unico, triste, spettacolo offerto nel proprio stadio. Il giudice Taylor consigliò alle società di acquisire la proprietà diretta degli impianti, investendo il necessario per adeguarli strutturalmente e dotarli di soli posti a sedere, consigliando la revisione completa delle loro politiche aziendali. Accadde che le singole proprietà dei club si trovassero in effetti d’accordo sulla necessità di rendere gli impianti più sicuri. In conseguenza dei biglietti e degli abbonamenti nominativi, corrispondenti a un determinato posto a sedere, ai controlli all’interno e all’esterno degli impianti, nonché alla scomparsa delle barriere, le presenze negli stadi aumentarono vertiginosamente e altrettanto velocemente diminuirono il teppismo e la violenza fino quasi a scomparire, aprendo la strada allo sfruttamento di nuove opportunità: box privati, club house, musei sportivi e negozi all’interno o nelle strette adiacenze degli impianti stessi. Il Rapporto Taylor è tuttora considerato all’origine del successo contemporaneo del calcio inglese, per aver contrastato e isolato la minoranza violenta e ridimensionato il fenomeno hooligan con grande successo.
A proposito dello stadio. Oggi il Chelsea Football Club è posseduto interamente dal Chelsea FC Public Limited Company, una società controllata dell’imprenditore russo Roman Abramovič. Invece lo stadio di Stamford Bridge è di proprietà del Chelsea Pitch Owners, che detiene pure i diritti di denominazione del Chelsea Football Club, in pratica questa società – indipendente dal Chelsea – è proprietaria del nome. Ma come si è arrivati a tanto? Successe che la costruzione della grande tribuna coperta dell’East Stand, decisa dal presidente Brian Mears, parte di un piano ambizioso teso a raggiungere col tempo la capienza di 60mila spettatori a Stamford Bridge, causò invece gravi problemi finanziari al club, minacciandone addirittura l’esistenza. Il progetto in effetti era stato licenziato con le migliori intenzioni, ma l’esplosione della crisi petrolifera, le incertezze dei costruttori e gli scioperi delle maestranze, fecero lievitare i costi di realizzazione, determinando l’esplosione del debito del club, che nel 1977 per evitare il fallimento non ebbe altra scelta che vendere Stamford Bridge a una società immobiliare, la Marler Estates. In seguito, quando l’istrionico Ken Bates divenne presidente (e proprietario) del Chelsea, subentrando nel 1981 alla famiglia Mears, a seguito delle dimissioni si Brian, che interruppero il sodalizio familiare con il club durato ben 76 anni, lo pagò una sterlina, dovendosi fare carico di tutti i debiti nel frattempo maturati. Tuttavia Bates non si preoccupò di tentare di riacquistare la piena proprietà dello Stamford Bridge, decidendo piuttosto di stipulare un contratto di locazione di 7 anni che avrebbe mantenuto il Chelsea nel suo stadio, in attesa di ristrutturare finanziariamente il club e decidere il futuro.
Ken Bates lanciò comunque una campagna battezzata “Save the Bridge”, allo scopo di raccogliere i quindici milioni di sterline all’epoca necessari per riacquistare la proprietà di Stamford Bridge, mentre sembrava consolidarsi una proposta minacciosa avanzata da diversi creditori di fusione tra Fulham FC e Queens Park Rangers con il Chelsea, e poi il trasferimento del club allo stadio di casa dei Rangers, il Loftus Road, mentre Stanford Bridge sarebbe diventato sede di nuove costruzioni residenziali di grande prestigio. Una speculazione, insomma. Tuttavia il progetto fallì a seguito del crollo del mercato immobiliare nel 1992, che travolse anche la società di real estate che deteneva la proprietà dello stadio e aveva a cuore il progetto, permettendo al presidente Ken Bates di raggiungere un accordo con i suoi creditori, principalmente la Royal Bank of Scotland, per recuperare tutte le proprietà fondiarie collegate al Chelsea. Questo portò alla creazione del Chelsea Pitch Owners PLC, in pratica si riunirono in società i protagonisti della campagna “Save the Bridge”, principalmente semplici supporter, allo scopo di acquistare nel 1997 la piena proprietà dello stadio e del centro di allenamento dei Blues, per garantire che non venissero mai più venduti, nonché i diritti al nome “Chelsea Football Club”, per assicurare che la squadra non possa mai trasferirsi altrove senza il permesso dei suoi tifosi, dal momento che se lo facesse dovrebbe cambiare denominazione sociale: Chelsea infatti può essere il nome della squadra solo se gioca a Stamford Bridge. A quel punto, consolidata la situazione legale, iniziarono finalmente i lavori di rinnovamento di tutto il grande impianto, allo scopo di rendere tutti i suoi posti a sedere, di avvicinarono le tribune al terreno di gioco eliminando la pista e furono edificate le coperture di gradinate e tribune.
Qualcosa di insolito unisce Stamford Bridge al Chelsea, comunque. Per scoprirlo occorre tornare indietro nel tempo. Quando nel 1896 all’interno del perimetro di Londra esistevano già quelle che ancora oggi sono le più conosciute e seguite squadre della capitale: il Fulham FC, la squadra più antica tra tutte le compagini calcistiche londinesi, fondato nel 1879 nell’omonimo quartiere; il Tottenham Hotspur FC con sede sede nell’omonimo sobborgo, appartenente al borough di Haringey, dal 1882; il Queens Park Rangers FC, noto come QPR, fondato nel 1882 nel borough di Hammersmith and Fulham; il West Ham United FC, fondato nel 1895 come Thames Iron Workers FC nel distretto di Newham del quartiere di Stratford; l’Arsenal FC, fondato nel 1886 ad Highbury nel borough di Islington. Ecco, proprio nel 1896, i fratelli Henry Augustus, detto “Gus”, Joseph Theophilus Mears, uomini d’affari follemente innamorati del football, convinti dell’ascesa inarrestabile della popolarità del loro sport preferito, decisero di rilevare il complesso denominato Stamford Bridge Athletics Ground, nel borough di Fulham. Si trattava di un vasto prato aperto sin dal 1877 e attrezzato con una pista di atletica, utilizzato anche per le corse dei cani, che gli inglesi adorano, dotato di gradinate capaci di accogliere molto pubblico. Sarebbe stata probabilmente un’intuizione azzeccata, un ottimo affare, ma i fratelli Mears potranno disporre del complesso solo nel 1904 a causa di un lungo contenzioso insorto col precedente proprietario, e così persero tempo prezioso pur non abbandonarono l’intenzione di trasformarlo l’impianto nello “stadio di calcio più bello d’Inghilterra” per ospitarvi partite di cartello – la finale della FA Cup (la Coppa d’Inghilterra), ad esempio – e convincere il presidente (e proprietario) del Fulham FC, l’importante costruttore Henry Norris, a scegliere proprio il “loro” stadio come sede delle partite interne della sua squadra, che all’epoca non aveva un impianto all’altezza del prestigio nel frattempo acquisito e avrebbe pagato un lauto canone.
Norris invece darà un dispiacere ai fratelli Mears. Infatti nel frattempo aveva deciso di realizzare un nuovo impianto per la sua squadra (quello tutt’oggi utilizzato dal Fulham FC): il mitico Craven Cottage. Norris cogliendo un’opportunità – il tempo in quel caso giocò contro i Mears – aveva acquistato per pochi soldi i terreni abbandonati dal 1888 dove un tempo sorgeva il cottage del VI barone di Craven, nel mezzo di un’area ricoperta da boschi, che erano stati parte dei terreni di caccia niente meno che di Anna Bolena, regina consorte d’Inghilterra e Irlanda dal 1533 al 1536, come seconda moglie di Enrico VIII, celebre monarca della dinastia Tudor, fondatore della Chiesa anglicana, nata in seguito alla separazione dalla Chiesa cattolica di Roma, sposato sei volte e detentore di un potere incontrastato. Sfumato il grande affare i fratelli Mears, amareggiati e delusi, dopo aver riflettuto a lungo, decisero di cedere il terreno e l’impianto sportivo alla Great Western Railway Company, proprietaria all’epoca della linea ferroviaria che attraversa la zona e che l’avrebbe utilizzato come deposito di carbone. Pareva tutto deciso. Ed è qui che il mito si confonde alla realtà, ammantando di un’aura magica questa incredibile storia raccontata proprio da uno dei suoi protagonisti, Frederick Parker. Questo personaggio era un ottimo atleta e un dirigente della società che gestiva lo Stamford Bridge Athletics Ground, da sempre convinto delle potenzialità finanziarie dell’impianto sportivo, e per questo divenne amico – e più tardi ascoltato consigliere – di “Gus” Mears. Quando accadde il fatto, i due si stavano recando all’appuntamento presso gli uffici della società ferroviaria per discutere gli ultimi dettagli dell’affare e concluderlo con una stretta di mano, in attesa di formalizzarlo. Erano accompagnati dallo scottish terrier di “Gus”, un cane da guardia e da compagnia che Mears adorava e che il I Earl (conte) di Dumbarton per le caratteristiche della sua razza definì The Diehard, ossia “piccolo ma maledettamente duro a morire”.
A un certo punto della loro passeggiata, Parker aveva rinunciato al tentativo di convincere Mears a non vendere Stamford Bridge, ma arrivando inosservato da dietro il piccolo cane gli morse la caviglia facendolo sanguinare ed esclamare rivolto a Mears: “Your damned dog has bitten me, look!” [Il tuo maledetto cane mi ha morso, guarda!], mostrandogli la ferita insanguinata. Mears tuttavia, invece di esprimere preoccupazione per la ferità del suo assistente, rimase colpito e osservò laconicamente: “Scotch terrier, always bites before he speaks” [Scotch terrier, mordono sempre prima di parlare], facendo ridere Parks di gusto, e – come illuminato – dandogli una pacca sulla spalla gli disse: “You took that bite damned well, most men would have kicked up hell about it. Look here, I’ll stand on you; never mind the others. Go to the chemists and get that bite seen to and meet me here at nine tomorrow morning and we’ll get busy” [L’hai presa bene, mi hai sorpreso. Altri avrebbero trasceso. Allora sono d’accordo con te, lasciamo perdere la cessione di Stamford Bridge! Ora vai da un farmacista a farti medicare la ferita, e incontriamoci qui domattina alle nove: ci daremo da fare per trovare una soluzione]. Fu così che Gus Mears cambiò idea e decise di seguire il consiglio di Parker di non vendere Stamford Bridge e in seguito di fondare invece una propria squadra di calcio, allo scopo di valorizzare lo stadio mettendolo a reddito. Grazie al mordace intervento dello scottie di Mears quindi il Chelsea Football Club sarà fondato il 10 marzo 1905 in una public house su Fulham Road, quando ci si dovette interrogare prima di tutto sul nome del nuovo sodalizio poiché nel distretto esisteva già una squadra omonima, il Fulham FC, i fondatori dopo lunghe discussioni scelsero il nome del distretto più vicino: quello del borough di Chelsea.
Torniamo quindi al 10 marzo del 1905 quando, dopo l’appuntamento di fronte all’ingresso di Stamford Bridge, i fondatori si trasferirono al piano sopraelevato del pub The Rising Sun di proprietà di Edwin Hurford Janes, che del Chelsea Football & Athletic Club, diventerà pure lui socio. E non saranno in pochi perché trascorso un mese dalla fondazione, all’atto della registrazione del nome presso le istituzioni, il neonato club contava già oltre 2 500 soci, annoverando fra i principali sottoscrittori del cospicuo capitale già raccolto non solo la famiglia Mears, che comunque controllava il sodalizio, ma il business manager Tom Lewin Kinton e il legal advisor John Henry Maltby, entrambi consulenti della compagnia Mears Contracting and Wharfinger, niente meno che Lord Cadogan, il più grande proprietario terriero della zona, patrono e ispiratore dei colori del club, Charles Burgess Fry, una delle personalità più ammirate di tutto l’impero britannico, considerato lo sportsman inglese per eccellenza, Emslie Horniman, deputato liberale, filantropo, erede e proprietario della Horniman’s Tea Company, all’epoca la più grande società di commercializzazione di tè al mondo, molto apprezzato anche da Friederich Nietzsche che nella sua corrispondenza privata spesso menziona Horniman come il suo tea preferito, che scelsero William Claude Kirby, un altro importante imprenditore contemporaneo, nella qualità di primo presidente del club dal 1905 fino alla sua morte, avvenuta nel 1935. Gus Mears morirà pochi anni dopo la fondazione del Chelsea nel 1912, e a quel punto sarà sostituito dal fratello e cofondatore Joseph Mears, anche se nemmeno lui ricoprirà mai l’incarico di presidente, per rimanendone il vero dominus, diversamente da loro il figlio Joe dal 1940 al 1966 e il nipote Brian dal 1969 al 1981 sarebbero stati invece presidenti del Chelsea, prima di ritirarsi e cedere la proprietà al vulcanico Ken Bates che nel bene e nel male il club lo salverà dal fallimento, fino all’arrivo del glaciale Roman Abramovič che lo trasformerà in un top club fra i più importanti e vincenti al mondo.
Proprio il Chelsea è uno dei soli tre club della Premier League ad aver giocato nello stesso stadio ininterrottamente per tutta la loro storia – gli altri due sono il Liverpool (ad Anfield Road) e lo Sheffield United (al Bramall Lane) – ma è l’unico ad essere stato fondato per riempire quello che diventerà il proprio stadio di casa, valorizzando un impianto già esistente, come emerge anche dal comunicato dell’agenzia di stampa J.E. Dixon & Co., che diede la notizia della fondazione del club in questi termini: “It has been decided to form a professional football club, to be called the Chelsea Football Club, for Stamford-bridge”.
Il Chelsea per Stamford Bridge, appunto.
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