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Il calciatore diventato un modo di dire (quello della zona Cesarini), nel bel mezzo del Ventennio e nonostante lo Stile Juve …

Cesarini, Renato. – Giocatore di calcio (Senigallia 1906 – Buenos Aires 1969), mezz’ala sinistra nella nazionale italiana e nella Juventus. Famoso per aver deciso l’esito di un incontro internazionale, Italia-Ungheria del 13 dicembre 1931, marcando proprio sul finire della partita il gol della vittoria per 3-2, onde la locuzione segnare in zona Cesarini, realizzare un gol sullo scadere del tempo regolamentare, e per estensione, riuscire in extremis in una cosa.

Era nato a Senigallia, Renato. I suoi genitori avevano atteso la nascita del bimbo per poi dirigersi tutti insieme alla volta di Genova, un viaggio non confortevole (neanche) all’epoca, e da lì imbarcarsi per raggiungere l’Argentina, come tantissimi altri connazionali in cerca di un futuro migliore. Il Genoa intanto aveva già vinto sei volte il campionato italiano di calcio, una volta c’era riuscita la Juventus e il Milan stava per vincere il terzo alloro, quando i Cesarini arrivarono, dopo un mese di navigazione, a Buenos Aires, una metropoli elegante che si stava conquistando l’appellativo di “Parigi del Sudamerica”, dotata di grandi edifici governativi, come la Casa Rosada, e istituzioni culturali di fama mondiale, come il Teatro Colón. Al principio del XX secolo l’economia argentina stava crescendo tumultuosamente e per questo attirava, in un paese immenso e praticamente spopolato, milioni di immigrati dalla vecchia Europa. Il censimento del 1909, riferito a Buenos Aires, aveva registrato una popolazione di oltre un milione di abitanti (il doppio di Roma, per avere un’idea) dei quali oltre cinquecentomila erano stranieri (278 041 italiani, per la precisione), che andavano ad abitare i nuovi quartieri sorti nel frattempo accanto agli impianti industriali della città, e fra loro – da un paio d’anni – nella capitale c’erano anche i Cesarini.

Il giovane Renato crescerà aiutando i genitori a sbarcare il lunario attraverso tanti lavoretti, pensando poi a divertirsi coi pochi spiccioli di cui all’epoca poteva disporre, e un po’ come molti altri ragazzi della sua età e della sua condizione sociale scoprirà – dopo le ragazze e il tango – il fútbol, giocandolo come si praticava nei campi polverosi di strada, e in seguito praticandolo non più come un passatempo, ma come un mestiere: lo strumento che gli consentirà di emanciparsi dalla miseria. Renato infatti, che era dotato e aveva personalità da vendere, arrivò a debuttare nella prima divisione nazionale con la squadra del Club Atlético Chacarita Juniors – fondato venti anni prima da alcuni giovani, cattolici e socialisti, proprio nel suo stesso anno di nascita, il 1° maggio del 1906 – i cui colori sociali rosso, bianco e nero erano stati scelti in ragione del richiamo al socialismo (il rosso), alla purezza d’animo dei fondatori (il bianco) e al Cementerio de la Chacarita (il nero), in onore dell’enorme cimitero cittadino (esteso per circa 95 ettari), che ha sede proprio nello stesso barrio ed è all’origine del singolare soprannome del club: el Funebrero; perché in Argentina qualunque soggetto animato e qualsiasi oggetto inanimato devono avere un apodo, altrimenti non esistono.

Sarà l’Athletic Club Alumni in quegli anni a dominare il campionato argentino di calcio, capace di vincere dieci titoli in undici stagioni, e in seguito toccherà al Racing Club de Avellaneda, che ne vincerà sette di campionati, in dieci stagioni. Nel frattempo soprattutto in Europa si era consumato il dramma della prima guerra mondiale, che ebbe inizio il 28 luglio 1914, con la dichiarazione di guerra dell’Impero austro-ungarico al Regno di Serbia e che, a causa del gioco di alleanze formatesi negli ultimi decenni del XIX secolo, vide poi schierarsi le maggiori potenze mondiali in due blocchi contrapposti: da una parte i cosiddetti “Imperi centrali” (la Germania, l’Austria-Ungheria e la Turchia), dall’altra gli “Alleati”, rappresentati principalmente da Francia, Gran Bretagna, Russia, Giappone e Italia, che si affrontarono fino all’11 novembre 1918. E proprio in Italia la situazione si rivelò particolarmente precaria. Infatti, il drammatico conto presentato dalla guerra in termini di perdite umane fu pesantissimo, con oltre mezzo milione di caduti e un milione e mezzo tra mutilati, feriti e dispersi, senza contare le distruzioni occorse sul fronte bellico nell’Italia nord-orientale, con la perdita di ogni bene da parte di centinaia di migliaia di profughi che erano fuggiti dalle loro case trovatesi nel mezzo di assalti e bombardamenti.

Era drammatica anche la situazione economica dell’Italia. Il paese infatti dipendeva in gran parte dalle importazioni oltremare di grano e carbone, e se aveva pesanti debiti con gli Stati Uniti, le casse statali erano quasi vuote mentre la lira, durante il conflitto, aveva perso buona parte del suo valore e il costo della vita era aumentato a dismisura. A causa della mancanza di un solido mercato interno, e della crisi di quelli esteri, molte manifatture semplicemente chiusero determinando fra gli altri anche il problema dell’assorbimento di centinaia di migliaia di disoccupati dell’industria di guerra e di milioni di soldati smobilitati, che erano in fibrillazione perché molte delle promesse fatte loro durante la guerra (come l’espropriazione di terre ai latifondisti e la loro distribuzione in lotti ai reduci di guerra) non furono rispettate, provocandone il grave malcontento. Intanto anche la situazione politica diventava incandescente: i partiti e movimenti di sinistra, in particolare modo il Partito Socialista Italiano, crescevano a fronte delle pessime condizioni dei più deboli, galvanizzati anche dal successo della rivoluzione russa, mentre a destra le formazioni nazionaliste e interventiste si scatenavano nella contestazione del governo e dei trattati di pace. Intanto, in questo clima di grave tensione, era ricominciato il campionato di calcio: aveva vinto l’Internazionale, che riprendeva il filo sospeso dall’ultima vittoria prima della guerra, che era stata attribuita al Genoa a campionato quasi concluso per manifesta superiorità, si esauriva in quegli anni anche l’epopea gloriosa della Pro Vercelli, capace di vincere sette volte il campionato, con il contorno degli squilli piemontesi del Casale, prima del conflitto, e dopo la guerra, della Novese.

Attorno ai circoli dannunziani veniva creata l’idea della “vittoria mutilata”, che sarebbe poi divenuta il simbolo della delusione dell’opinione pubblica italiana, che aveva sperato invano in accrescimenti territoriali e coloniali e invece si trovava a fare i conti con il grave peggioramento delle condizioni di vasti strati delle classi medie, e più in generale delle condizioni economiche e sociali che preoccupavano la grande borghesia industriale e agraria, assediate di fronte alle agitazioni sociali, che arrivarono nelle città sino all’occupazione delle fabbriche e nelle campagne a non minori prevaricazioni, nel cosiddetto “biennio rosso”. Il fascismo cresce allora, dapprima come movimento, poi via via si rafforza nel contesto dello sconcertante vuoto politico di un paese oramai allo sbando, attribuendosi la “missione” di salvare l’Italia dal bolscevismo; sorse così e si estese l’azione delle “squadre”, che miravano con le loro “spedizioni punitive” a scompaginare le organizzazioni di socialisti e popolari, tra il favore dei ceti agrari e industriali e la condiscendente passività delle forze dello Stato. Giolitti, il dominus della politica italiana dell’epoca, infatti illuso di poter riassorbire il fascismo nello stato liberale, come vent’anni prima gli era riuscito con i socialisti, diede un tacito appoggio all’attività delle squadre fasciste e alla loro violenza, permettendo così al movimento di Mussolini di estendere la sua influenza attraverso l’intimidazione e la prevaricazione delle sue “camicie nere”.

Nel 1921 il movimento fascista, si trasforma in partito e dichiara espressamente l’obiettivo della conquista dello Stato, Mussolini prova a dare la “spallata” alla sua maniera, favorito dalla crisi profonda delle istituzioni liberali, dal succedersi di governi deboli e inconcludenti e dalla divisione parlamentare delle sinistre: il 28 ottobre 1922 i fascisti marciano su Roma. All’esito di questa coreografica manifestazione di forza, la situazione precipita quando il re Vittorio Emanuele III deciderà di affidare proprio a Mussolini il compito di formare il nuovo governo; quello che poi diventerà il Duce, dopo una prima fase, nel contesto di una ampia coalizione, vinte le elezioni del 6 aprile 1924 svoltesi in un clima plumbeo di intimidazioni e violenze, abbandonerà la tattica della collaborazione con i fiancheggiatori, incamminandosi – dopo essersi addirittura assunto la responsabilità “politica” dell’omicidio del deputato Giacomo Matteotti – sulla via della dittatura e del regime totalitario. Intanto il campionato va avanti fra il sempre maggiore entusiasmo degli italiani che oramai vanno pazzi per il calcio; mentre un Genoa quasi invincibile si aggiudicava due lunghissimi campionati nel 1922-23 e 1923-24, grazie a una squadra magnifica, che perfino Mussolini volle incontrare a Palazzo Venezia, emergeva il Bologna che in un clima arroventato in linea con quei tempi difficili, piegava i campioni in carica del Genoa – che difesero strenuamente lo scudetto, invenzione dannunziana, per la prima volta cucito sulle maglie dei detentori – vincendo una sfida, durata per cinque partite svoltesi nell’arco di undici settimane, segnata da querelle arbitrali, scontri istituzionali e financo atti di violenza ispiratori del nome con cui lo scudetto del 1924-25, vinto dai rossoblu felsinei sui grifoni genovesi, è popolarmente conosciuto: quello “delle pistole”.

L’organizzazione dello Stato fascista procedette spedita, si sciolsero partiti e sindacati, fu abolita la libertà di stampa e di riunione, fu creato un tribunale speciale per la difesa dello Stato, e ogni potere di fatto passò a Mussolini, capo del governo e capo del fascismo, con il concorso del cosiddetto Gran consiglio, che a partire dal 1926 attuerà una politica economica deflazionistica allo scopo di favorire l’industrializzazione. Si persegue l’autarchia, ovvero si tenta di rendere autosufficiente l’economia italiana attraverso il potenziamento della produzione interna e si accentua il dirigismo economico con la nascita delle corporazioni e, prima ancora di affrontare il tema della religione – con il processo di conciliazione tra Stato e Chiesa che sarà sublimato nei “Patti Lateranensi” dell’11 febbraio 1929 – si mette mano anche al calcio; Mussolini non amava questo sport e solo nel corso del tempo (e con l’esperienza) imparò ad apprezzarlo, soprattutto perché riuscì a comprendere la portata sociale e popolare di questo gioco “nazionale”, stando bene attento a non ostacolarne il gradimento e anzi ad incoraggiarlo, ad esempio attraverso la costruzione di nuovi impianti in grado di magnificare la potenza del regime: oltre allo Stadio Mussolini di Torino (poi Comunale) e allo Stadio dei Cipressi (poi Olimpico) all’interno del Foro Mussolini (poi ribattezzato Foro Italico) di Roma, il simbolo più importante dell’architettura calcistica fascista sarà il Littoriale di Bologna (poi Renato Dall’Ara), il migliore impianto di tutta Europa.

Dalla partenza della famiglia Cesarini, quando il Genoa e il Milan erano le squadre di maggiore successo e i campionati duravano poche settimane, si era giunti al momento della nascita della Serie A, quando si stavano rafforzavano, in particolare, il Torino del Conte Marone Cinzano, erede della famiglia fondatrice dell’omonima azienda alimentare e di bevande, e la Juventus, che programmava il futuro grazie all’arrivo di Edoardo Agnelli, figlio del senatore Giovanni Agnelli, fondatore della FIAT, che sarebbe diventato il più importante gruppo finanziario e industriale privato italiano. Il regime fascista intervenne dunque al fine di sottomettere al proprio disegno totalitario questo sport così amato; successe in occasione della grave crisi che colpì la FIGC nella primavera del 1926, a causa delle “liste” con cui le società calcistiche ricusavano arbitri a loro non graditi e del conseguente sciopero a oltranza dei direttori di gara, che non poteva però essere tollerato. Fu così che il CONI, già allineato al regime, esautorata la FIGC, nominò una commissione di esperti col compito di redigere un documento concernente la nuova organizzazione del calcio italiano. In pochi giorni, il 2 agosto dello stesso anno verrà pubblicata in effetti la cosiddetta “Carta di Viareggio”, dal luogo in cui si erano ritirati i commissari, la località della Versilia, che andava a riformare profondamente l’ordinamento calcistico nazionale.

La Carta impose una prima svolta, attuando il primo storico strappo verso il professionismo, dividendo infatti i calciatori in due categorie: dilettanti e non-dilettanti, consentendo così il riconoscimento dei numerosi precedenti di passaggio da una squadra all’altra avvenuti clandestinamente nel torneo italiano, e dei relativi stipendi pagati ai giocatori più talentuosi mascherandoli dietro rimborsi-spese o salari fittizi (come era successo per Renzo De Vecchi, passato dal Milan al Genoa, Virginio Rosetta, dalla Pro Vercelli alla Juventus, o Adolfo Baloncieri, dall’Alessandria al Torino, sempre per somme esorbitanti), questo approccio consentì inoltre di legalizzare il calciomercato, che da allora inizierà a strutturarsi; la Federazione venne riorganizzata in maniera verticistica in modo da essere controllata dal regime, e si arrivò (finalmente) all’introduzione di un girone unico nel campionato italiano, i princìpi di unità nazionale mal si rispecchiavano infatti in un torneo che fin dalla sua nascita era stato suddiviso fra campionati regionali (come in Germania si sarebbe continuato a fare fino agli anni Sessanta del Novecento): venne quindi disposta la creazione di una Divisione Nazionale unica per tutta Italia, per l’assegnazione dello scudetto, formata da due gironi, che si sarebbe trasformata di lì a poco in un unico torneo a venti squadre con partite di andata e ritorno in cui tutti affrontavano tutti (il cosiddetto girone all’italiana, che poi si chiamerà: Serie A).

Alle idee di nazionalismo del fascismo fu invece ispirata la regola che chiudeva il campionato italiano agli stranieri: infatti, dal 1928 non sarebbe stato più ammissibile nessun tesseramento di calciatori stranieri nel torneo nazionale. In Italia però si sa come va a finire: fatta la legge trovato l’inganno, anzi l’oriundo, tramite la concessione di re-italianizzare i cosiddetti rimpatriati; in altri termini, se l’oriundo nasceva in una famiglia di emigrati (italiani) nel luogo di destinazione dello spostamento migratorio (poniamo l’Argentina), pure in assenza di legami formali con il luogo di provenienza dei suoi ascendenti, in ragione del contrasto fra la provenienza culturale (supponendosi che la famiglia emigrata abbia conservato almeno in parte tradizioni e valori, e spesso lingua, del sito di provenienza, quindi l’Italia) e il contatto con la cultura locale del luogo ove il nucleo familiare si è stabilito era sufficiente la volontà dell’interessato di scegliere la cittadinanza italiana, per ottenerla. E così niente più austriaci e ungheresi che fino a quel momento tanto avevano offerto al nostro calcio, e benvenuti ai sudamericani: argentini e uruguagi in particolare, che doneranno caratteristiche uniche alla nostra scuola. Il 1° dicembre 1929 sarà l’occasione per un doppio esordio di oriundi in Nazionale; la partita è Italia-Portogallo, che terminerà 6 a 1, ed in campo in azzurro scenderanno il paraguaiano Attila Sallustro, un attaccante rapido, che giocò a lungo nel Napoli, venerato dai media di allora alla stregua di un divo per la sua imponente bellezza, ma soprattutto l’argentino Raimundo “Mumo” Orsi, un giocatore assolutamente imprendibile che quando era in vena (e ne aveva voglia) faceva cose strabilianti: la Juventus scommise su di lui dopo averlo visto con la maglia dell’Argentina, sconfitta in finale dall’Uruguay alle Olimpiadi di Amsterdam, nel 1928, e ritenendolo l’ala sinistra più forte di tutti i tempi, senza limiti di età, decise si assicurarselo prelevandolo dall’Independiente di Avellaneda, per una cifra enorme, che all’epoca fece molto discutere.

“Mumo” in effetti aveva scatto, velocità, un perfetto controllo della palla e disponeva di un dribbling e di un repertorio di finte di corpo che allora nessuno era in grado di riprodurre. I giornali di allora evidentemente non pubblicavano fotografie, perciò vi era grande attesa di vedere di persona quel prodigioso fenomeno, dopo averne sentito parlare ed averlo immaginato – chissà perché – grande e grosso, con una grinta feroce; invece, quando arrivò con il piroscafo a Genova, apparse ai giornalisti in trepidante attesa un uomo magro e stretto di spalle, si seppe anche che suonava il violino, e in molti si dissero a dire poco perplessi. E preoccupati, gli juventini. Orsi inoltre non avrebbe giocato per un anno, per questioni regolamentari, lo si vedeva solo in allenamento e dopo la partita di campionato della domenica mentre faceva gli esercizi; la gente si fermava per osservarlo, piena di curiosità e di scetticismo, mentre quel campionato del 1928-29, lo vinse il forte Bologna. Terminato l’anno di “quarantena”, Orsi poté finalmente debuttare in bianconero e iniziò a sbalordire, segnando in tutti i modi: di destro, di sinistro, con il ginocchio, di testa, direttamente dal calcio d’angolo – era la sua specialità – e anche su rigore, perché l’incaricato del tiro dagli undici metri, nella Juventus, era proprio lui, contrariamente all’abitudine vigente in quell’epoca, in cui il rigore veniva tirato dai terzini. Comunque, dopo l’esordio in azzurro Orsi diede un grande contributo anche alla causa della Nazionale, e si laureò campione del mondo con l’Italia nel 1934, nella Coppa Rimet disputatasi nella penisola per la felicità del regime, risultando decisivo anche nei successi della Nazionale già dal 1930 nella Coppa Internazionale; frattanto con la sua squadra di club, “Mumo” vinse quattro scudetti consecutivi, tra il 1930-31 e il 1933-34; non poté formalmente fregiarsi del quinto e ultimo titolo del cosiddetto “Quinquennio d’oro” juventino, solo perché nell’aprile del 1935 dovette lasciare Torino per fare ritorno in patria, al capezzale della madre malata, per poi rimanere a Buenos Aires.

Orsi alla Juventus fece un altro regalo. Era infatti amico fraterno di Renato Cesarini e convinse la società bianconera che quel ragazzo, peraltro nato a Senigallia in Italia, e quindi “meno oriundo” di lui, doveva essere acquistato, senza ritardo. Era difficile non assecondare le richieste di “Mumo”, che spesso veniva accontentato perché con il suo talento dimostrava di valere quel patrimonio che era servito ad acquistarlo, cosa che Edoardo Agnelli teneva bene a mente. E fu così che – grazie alle illimitate disponibilità assicurate al club dalla facoltosa proprietà – il giovane Cesarini fece a ritroso il viaggio affrontato tanti anni prima da neonato, partendo questa volta da Buenos Aires, il 27 gennaio del 1929, a bordo del transatlantico Duilio, e sbarcando a Genova il 13 febbraio, dove lo attendevano giornalisti, curiosi e un’automobile della Juventus con tanto di autista, incaricato di verificarne i documenti e accompagnarlo a Torino. Il giovane Renato era agghindato come un divo del cinema, abiti stretti e colori sgargianti, e mentre scendeva dal piroscafo alla stazione marittima, raccomandava ad uno dei facchini di fare molta attenzione a una valigia morbida e nera: era la sua valigia delle cravatte, ne possedeva a centinaia. Non era (ancora) ricco, ma era fatto così, vivere alla grande era per lui come respirare e forse per questo il suo ambientamento fu immediato; prima delle innegabili, ma non ancora conosciute, doti del giocatore, vennero infatti alla ribalta le qualità dell’uomo: schietto, gioviale, arguto, generoso oltre ogni immaginazione, tanto che in pochi giorni divenne l’amico di tutti.

Con Renato Cesarini prese così corpo la Juve dei sogni di Edoardo Agnelli. Il figlio del senatore Giovanni Agnelli – fondatore della FIAT – era un grande appassionato di sport, e divenne presidente della Juventus nel 1923 e per i seguenti dodici anni, sino al drammatico incidente che gli stroncherà la vita a soli 43 anni, il 14 luglio 1935. Egli rese la sua Juventus una delle squadre più vincenti d’Europa nel periodo interbellico, ma oltre ai successi sportivi riuscì a organizzare una delle prime vere e proprie società sportive nel senso moderno del termine. Edoardo Agnelli introdusse nel club quel peculiare modello gestionale noto a posteriori come lo “Stile Juventus”, riconosciuto come uno degli elementi che più contraddistinguono l’identità della società bianconera, inerente all’amministrazione aziendale, alla cultura organizzativa, alla pianificazione strategica e all’insieme di valori che Edoardo Agnelli pretendeva da dirigenti, giocatori e tecnici: concretezza, disciplina, eleganza, parsimonia, serietà, semplicità e serietà, nonché la capacità di conseguire il risultato sportivo con tutte le proprie forze, ma con correttezza e professionalità. Caratteristiche apprezzate dalla piccola borghesia torinese, che la contraddistinguono agli occhi della popolazione media italiana, riconosciute alla stessa “dinastia” Agnelli, e intrinsecamente legate al cosiddetto “stile sabaudo” strettamente affine alla cultura piemontese.

In campo, il mosaico che risulterà tanto vincente era stato composto dal tecnico Carlo Carcano, studioso e precursore del Metodo, che porta con sé dall’Alessandria un mediano di classe purissima come Giovanni Ferrari, capace di trovare i compagni in campo con passaggi perfetti e diventare il motore della squadra. In attacco, la “Signora” ha un’anima sudamericana, fatta di estro e fantasia: le invenzioni sono di “Mumo” Orsi e di Renato Cesarini, ai quali si affianca Giovanni Vecchina, arrivato dal Padova e subito rivelatosi fondamentale; mentre in difesa nasce il mito del “trio dei ragionieri” della Juve e della Nazionale: il terzino destro nonché capitano della squadra Virginio Rosetta – il primo calciatore “professionista” in Italia – il portiere Gianpiero Combi e il terzino sinistro Umberto Caligaris, tutti e tre campioni del mondo nel 1934, così diversi in campo e nella vita e così complementari. Quella Juventus vince lo scudetto del 1930-31, il terzo della sua storia dopo quelli del 1905 e del 1925-26, e l’idea di un ciclo è nell’aria. Idea che si consoliderà quando arriverà a Torino, l’altro oriundo: Luisito Monti, in un primo momento guardato con sospetto pure lui, avendo smesso di giocare a calcio da qualche mese, in Argentina. Invece, il nuovo acquisto, affidato alle cure del “generale” Carcano, in pochi mesi inizierà una seconda vita agonistica: perse venti chili di peso, tornò in perfetta forma e andò a completare la linea mediana bianconera, portando un contributo di potenza e forza fisica inaudita. Quella Juventus divenne la prima formazione nella storia del calcio italiano a vincere cinque campionati consecutivi, dal 1930-31 al 1934-35, raggiungendo le semifinali della Coppa dell’Europa Centrale per quattro anni consecutivi.

Estroso come nessun altro giocatore venuto alla Juventus, considerato un po’ matto addirittura, Renato Cesarini sembrava fatto su misura per mettere a dura prova il severo codice previsto fra i bianconeri e provocare la disperazione del vicepresidente bianconero, il barone Mazzonis, che era solito vigilare come un gendarme sulla buona condotta dei giocatori, disponendo addirittura di una rete di informatori. Un giorno Edoardo Agnelli entrando in un ristorante in centro-città scorge Cesarini seduto a tavola, impegnato a corteggiare una donna, per giunta in orario di allenamento. Allora il presidente si siede comodamente e fa recapitare a Cesarini dal cameriere una bottiglia di champagne, accompagnandola con un biglietto che ricorda al giocatore l’allenamento e la partita del giorno dopo; Cesarini, per nulla a disagio, gliene fa arrivare cinque di bottiglie a Edoardo Agnelli, con tanto di biglietto: «Domani vinciamo e segno così». Illuminante aneddoto sulle mattane del Cè (così lo chiamavano in squadra), che si sprecano: adorava le carte da gioco, l’eleganza, le belle donne, i locali notturni, e lo champagne. Spesso se ne andava a spasso per la città accompagnato da una scimmietta, e pagava senza scomporsi tutte le multe che la società gli comminava, e va detto che gliene piovevano letteralmente addosso, a cura del vicepresidente Mazzonis.

Funzionava così, Carlo Carcano – fine psicologo e uomo pragmatico – non interveniva mai di persona, e il controllo dei ragazzi era coordinato dal severo Mazzonis, che riceveva notizie dei “misfatti” compiuti dai suoi ragazzi attraverso una fitta rete di informatori, reclutati tra i ragazzini per le strade di Torino, che prezzolava alla somma di un paio di lire per prestazione. I piccoli in pratica si appostavano in vicinanza delle abitazioni dei calciatori, attenti a riferire in società ogni movimento. Tuttavia Cesarini, che si era accorto di questa pratica, era riuscito a individuare i ragazzini e gli aveva offerto più soldi di quanto non facesse Mazzonis, neutralizzandolo e riuscendo a limitare i danni. Nella vita privata in effetti l’estroso giocatore non era un modello di serietà: giocatore di carte fenomenale e appassionato ballerino, spesso passava le notti senza riposare, andando a letto solo all’alba, non riuscendo quasi mai a svegliarsi in tempo per presentarsi puntuale all’allenamento. Spesso arrivava al campo a bordo di un taxi, e sotto il cappotto o all’impermeabile non aveva che il pigiama, perché magari si era alzato dal letto cinque minuti prima, e non aveva avuto tempo di vestirsi. Tuttavia, quando iniziava l’allenamento, si impegnava al massimo, senza mai dimostrare stanchezza o tirarsi indietro, e il mister bianconero Carcano non si poteva lamentare.

Una volta informato, il vicepresidente Mazzonis formulava un primo avvertimento amichevole verso chi aveva mancato, che se rimaneva lettera morta, precedeva l’avviso ufficiale, con l’invito a presentarsi in sede per comunicazioni “che La riguardano”. Cesarini gli toglieva il sonno a Mazzonis, e giunse persino ad aprire un locale da ballo molto lussuoso in Piazza Castello, sopra il famoso Gran Bar Combi, che apparteneva all’epoca alla famiglia del portiere bianconero: due orchestre vi si alternavano per buona parte della notte, offrendo al pubblico infinite serie di tanghi, la danza che a quei tempi furoreggiava. Le multe per le infrazioni più gravi erano di mille lire, che peraltro non erano pochi soldi. Cesarini dichiarava di volerle pagare senza battere ciglio, ma cercava poi di scendere a patti: «Se gioco da campione e segno almeno un goal nella prossima partita la multa viene cancellata!» E quasi sempre Cesarini riusciva ad ottenere la cancellazione della punizione, del resto sul terreno di gioco, l’estroverso Renato sapeva essere sempre protagonista: non aveva paura di nessun avversario, era dotato di un fisico eccezionale, in possesso di una tecnica personale e di un’intelligenza di gioco raramente riscontrabili, e aveva spesso intuizioni tattiche tanto improvvise quanto felici; lo dimostrerà anche da allenatore, sia in Argentina al River Plate che in Italia, proprio alla Juventus, in un’altra fase della sua vita.

Quella Juventus riusciva a mobilitare le masse quasi alla pari di un partito politico, e in migliaia aspettavano i bianconeri alla stazione ferroviaria di Porta Nuova, per festeggiarne la vittoria ottenuta in trasferta e il ritorno a Torino. Un compagno di squadra nella Juve e nella Nazionale lo descrive come “il più imprevedibile degli uomini che ho conosciuto” a Renato Cesarini, e racconta, a sostegno della sua affermazione, un aneddoto che rende bene l’idea. Si doveva affrontare la Spagna a Bilbao, dice Luigi Bertolini, formidabile difensore, sempre riconoscibile perché per proteggersi dai colpi del pallone indossava un fazzoletto bianco sulla fronte; era durante una tournée nella penisola iberica, per affrontare Portogallo e Spagna. Vittorio Pozzo meditò la maniera di annullare la mente della squadra spagnola – una forte mezz’ala dell’Athletic Bilbao di nome Ignacio Agirrezabaka, conosciuto come Chirri II – e decise di piazzargli alle costole Renato Cesarini con il compito di non perderlo mai di vista, di marcarlo a distanza ravvicinata. «Dove lui va, tu devi andare», disse il commissario tecnico a Renato. Cesarini rispettò le direttive, cancellando dalla gara il pur valido avversario, e lo fece in un modo così implacabile e deprimente per lo spagnolo che, a un quarto d’ora dal termine, con i nervi a pezzi, Chirri II lasciò volontariamente il terreno di gioco. E Cesarini gli andò appresso, fra lo stupore di tutti, seguendolo fino negli spogliatoi e ristabilendo la parità numerica. Pozzo, annichilito, a fine gara tentò di rimproverare Cesarini – che non amava affatto – con una certa durezza, ma ne venne disarmato quando l’azzurro gli replicò con angelico candore: «Quando una sentinella ha una consegna, deve rispettarla fino in fondo».

E allora vediamolo quel minuto lì, straordinario e unico. Quello della “zona Cesarini”. È inverno, a Torino, stadio Filadelfia, c’è pioggia e fango, è il 13 dicembre 1931, l’Italia gioca contro l’Ungheria. Gli azzurri chiudono il primo tempo in vantaggio, 1-0, goal di Libonatti. Avar fa l’uno pari, Orsi riporta l’Italia in vantaggio ma Avar segna di nuovo: 2-2 al novantesimo. Tutto o niente da rifare. Cesarini la racconterà così: «Mancavano pochi secondi alla fine, dirigeva lo svizzero signor Mercet. A un certo punto ebbi la palla. Avevo addosso il terzino Kocsis, un tipo che faceva paura. Non potendo avanzare passai alla mia ala, Costantino. Allora ebbi come un’ispirazione, mi buttai a corpo morto, tirai Costantino da una parte, caricandolo con la spalla, come fosse un avversario, e fintai, evitando Kocsis. Il portiere Ujvari mi guardava cercando di indovinare da quale parte avrei tirato. Accennai un passaggio all’ala dove stava arrivando Orsi, Ujvari si sbilanciò sulla sua destra, allora io tirai assai forte, sulla sinistra, il portiere si tuffò, toccò la palla, ma non riuscì a trattenerla. Vincemmo per 3-2. E non si fece nemmeno in tempo a rimettere il pallone al centro».

Alessandro Baricco, il grande autore e scrittore torinese (e torinista) lo celebra da par suo: «Cesarini, quello della zona Cesarini, proprio lui: quando dai il tuo nome a un pezzetto di tempo – il quale è solo di Dio, dice la Bibbia – qualcosa nella vita lo hai fatto».

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La giovane Roma al Testaccio non perdeva (quasi) mai, la Serie A fascista che nasce a Viareggio e il primo film italiano sul calcio: 5 a 0!

Se la città di Roma e la squadra della Roma non sono la stessa cosa intanto hanno lo stesso nome e gli stessi colori: l’identificazione quindi è fortemente legittima, quasi scientifica. Lo scrittore Sandro Bonvissuto questo concetto lo sviluppa in un libro che ogni tifoso, di qualsiasi squadra, dovrebbe leggere: La gioia fa parecchio rumore, scritto per Einaudi. Questo bel romanzo de noantri canta di un amore assoluto per la squadra del cuore e mi ha ricordato di quando avevo scoperto quello che rimane(va) del glorioso Campo Testaccio, anzi cosa non ne rimane(va): il leggendario stadio della Roma, infatti, quello “dove nessuna squadra ce passerà”, era ridotto a un cratere, come se non fosse mai esistito. Il quartiere del Testaccio, invece, seppure in continua evoluzione, è riuscito a conservare intatto il suo spirito genuino e popolare che lo rende il quadrilatero della romanità per eccellenza, oggi all’avanguardia nella produzione culturale capitolina, ma al tempo stesso capace di evocare romantiche memorie sportive: quelle della giovane Roma testaccina, squadra amatissima e gagliarda, tutta “petti d’acciaio, astuzia e core”.

La formazione della Roma per il primo incontro con la Juventus, disputato il 13 novembre 1927 nella capitale e terminato in pareggio; da sinistra, in piedi: il presidente Foschi, l’allenatore Garbutt, Ziroli, Fasanelli, Bussich, Cappa, Chini Luduena, il massaggiatore Cerretti e il suo secondo Moggiani; al centro: Ferraris IV, Degni, Rovida, Bianchi; a terra: Mattei, Rapetti e Corbyons.

A poca distanza dall’imponente Porta di San Paolo, uno dei varchi meridionali della cinta muraria aureliana, si scorge il Sepulcrum Cestii un monumento funerario singolare quanto incongruo, si tratta di una tomba a forma di piramide egizia, costruita tra il 18 e il 12 a.C. e dedicata a Caio Cestio Epulone, un ricco magistrato romano. La piramide, completamente rivestita di lastre di marmo di Carrara, dà il nome alla fermata della metropolitana che si trova al lato di piazzale Ostiense, ed oramai è inglobata nel perimetro delle mura, accanto al suggestivo Cimitero Acattolico. Il camposanto, nascosto da maestosi alberi secolari, è il luogo dove riposano per sempre i non cattolici, soprattutto britannici, come Keats e Shelley, e tedeschi, come il figlio di Goethe, e pure tanti illustri italiani: tra gli altri Gadda, Lussu, Gramsci e Camilleri, il creatore di Montalbano, che qui trascorreva molto tempo a meditare passeggiando in solitudine fra le tombe, in prossimità della piastrella che ricorda il luogo di sepoltura del gatto Romeo, già ospite della vicina colonia, un felino molto amichevole e benvoluto dai visitatori, che in vita era diventato una vera e propria mascotte.

Al confine fra il rione Testaccio e l’Ostiense si trovano la porta di San Paolo e la Piramide Cestia, proprio accanto a quest’ultima, dietro alle mura aureliane ha sede il Cimitero acattolico, fra questo e le pendici del Monte dei Cocci un tempo stava il leggendario Campo Testaccio.

Verso il fiume Tevere, lasciata la quiete del camposanto, si attraversa dapprima piazza Testaccio, il cuore commerciale del rione, e quindi piazza Santa Maria Liberatrice, al centro della sua verace socialità, che ospita l’unica parrocchia del quartiere, Santa Maria Liberatrice appunto, il Teatro Vittoria e un vasto giardino, dove una significativa porzione è stata ri-battezzata, a furor di popolo, piazza Francesco Totti, con tanto di segnaletica. Proseguendo la passeggiata, si raggiunge l’Emporium, dove si trovava niente meno che il grande porto fluviale dell’antica Roma: ne restano alcuni tratti molto ben conservati, incassati nel muraglione del Lungotevere Testaccio, una banchina lunga addirittura mezzo chilometro con gradinate e varchi da cui si accede(va) a due file di magazzini che si affaccia(va)no su un corridoio criptoportico. Le dimensioni dell’infrastruttura non devono sorprendere, perché qui arrivavano le merci provenienti da tutto il bacino del Mediterraneo destinate a Roma, che una volta sbarcate al porto di Ostia proseguivano il loro viaggio a bordo di zattere trainate lungo la terra ferma da grandi buoi che risalivano il Tevere fino all’Urbe, che nel II secolo d.C. con oltre un milione e mezzo di abitanti era la più grande città della storia dell’umanità.

È l’iniziativa di alcuni romanisti che hanno ribattezzato piazza Santa Maria Liberatrice, uno dei luoghi simbolo del rione Testaccio, cuore del tifo giallorosso. Nei giardinetti, sulla targa originaria è stato apposto un adesivo con la la scritta “Piazza Francesco Totti, VIII re di Roma”, che si trova pure su Google Maps.

Poco distante dall’attuale indirizzo del Roma Club Testaccio, il primo circolo dei tifosi giallorossi, fondato nel quartiere addirittura nel 1969, dopo una sosta al nuovo mercato rionale, polo gastronomico dal design minimale e contemporaneo, ci si tuffa nella storia della Roma, intesa come squadra, non solo in quella di Roma. E allora, se il tema della passeggiata diventa la squadra giallorossa, c’è un posto imperdibile da visitare, un’atmosfera da respirare: bisogna salire al Monte Testaccio, approfittando delle visite guidate i cui partecipanti si raccolgono ai piedi di quello che viene chiamato familiarmente il Monte dei Cocci. Naturalmente non è un monte, ché a Roma ci sono solo colli, bensì una vecchia discarica a cielo aperto. Già, proprio così: un enorme accumulo di materiale di scarto. Questa collina artificiale, alta poco più di 50 metri con una circonferenza di circa un chilometro, è difatti una grande area archeologica di immenso valore, formata interamente da cocci, che in latino si chiamano testae, da cui evidentemente il toponimo Testaccio. Ma da dove arrivano tutti questi cocci? Questi cocci sono nient’altro che i frammenti di oltre cinquanta milioni di anfore. Tante sono quelle utilizzate nell’arco di qualche secolo per trasportare l’olio d’oliva dalle provincie africane e iberiche fino a Roma.

Per secoli il Monte Testaccio fu ignorato dall’iconografia urbana probabilmente poiché il suo scopo originario di discarica non lo rendeva meritevole di particolare menzione, oggi è l’ottavo colle (seppur artificiale) di Roma, ed è intimamente legato alla storia della squadra giallorossa.

Queste grandi anfore a causa della rapida alterazione dei residui d’olio un tempo contenuto all’interno, non erano più riutilizzabili e quindi andavano smaltite, come si direbbe oggi. Una volta svuotate venivano quindi frantumate a poca distanza dall’Emporium e i resti, dopo essere stati trattati con calce al fine di impedire lo sviluppo dei batteri portati dalla decomposizione del contenuto, erano accumulati gli uni sugli altri, favorendone la coesione e così raggiungendo, a partire dal X secolo, l’attuale conformazione: una collina, diventata la sede ideale dei festeggiamenti carnascialeschi, ispirati alle antiche festività romane dei Saturnali, che prevedevano addirittura la celebrazione di cruente corride concluse con la mattanza di maiali e tori, fra l’ebbrezza generale. In seguito emerse una funzione religiosa del Monte dei Cocci, che consisteva nella rappresentazione della Via Crucis fino sulla sommità del colle, come testimonia la croce in ferro che dal 1914 si trova lì. Tutta l’area che chiamiamo Testaccio ancora nel medioevo era una vasta zona soggetta alle alluvioni del Tevere, comunque malsana a causa della malaria e, pur dentro le mura, popolata da contadini, emarginati dalla città e poveri.

Uno dei tanti locali costruiti in aderenza al Monte Testaccio, in questa sala in particolare si possono osservare i cocci, dietro le lastre di vetro, che una volta consolidati hanno formato l’intera – enorme – massa della collina artificiale.

Nonostante il degrado che caratterizzava l’area, il territorio pianeggiante e la presenza di collegamenti fluviali e terrestri furono alla base della decisione, assunta nelle pieghe del primo piano regolatore di Roma, di prevedere le operazioni di bonifica necessarie a destinare il territorio all’insediamento di una serie di attività industriali, quali ad esempio il grande mattatoio cittadino, i mercati generali agroalimentare e ittico e il parco ferroviario. Il rione nacque quindi come propaggine residenziale destinata agli operai addetti alle attività che si andavano via via insediando lungo l’asse dell’Ostiense: in un contesto di urbanizzazione programmata, che a Roma non aveva precedenti. Lo spazio tra il Monte dei Cocci e le mura aureliane venne lasciato ad uso pubblico, consacrandolo a destinazione tradizionale delle gite domenicali e delle “ottobrate” dei romani dove il vino scorreva a volontà, e proprio la particolare conformazione della collina che permette la circolazione dell’aria al proprio interno, favoriva la conservazione dei vini, offrendo un incentivo ai residenti più intraprendenti che avviarono l’attività di numerose fraschette, le tipiche aree di ristoro e svago dei romani, e che forse sono le remote antenate dei tanti locali che ancora oggi si trovano ai piedi dell’ottavo colle e che richiamano i festeggiamenti di un tempo.

È il 3 novembre del 1929 quando il Campo Testaccio viene inaugurato alla presenza delle autorità civili, religiose e militari, prima della partita Roma-Brescia, che terminerà col successo della squadra giallorossa.

Peraltro, la crescita tumultuosa del quartiere determinò un abusivismo edilizio caotico che deturpò gran parte di quella zona un tempo destinata a prati, al punto che alla fine degli anni Venti dello scorso secolo si rese necessario un intervento di recupero. Così, all’interno di quel perimetro ai piedi del Monte dei Cocci grazie alle risorse di Renato Sacerdoti, un facoltoso imprenditore che decise di investirvi, fu realizzato il Campo Testaccio, progettato sul modello degli stadi all’inglese, in particolare quello dei campioni d’Inghilterra dell’epoca, l’Everton Football Club, il mitico Goodison Park. Una volta realizzato, ben sette ingressi si affacciavano su via Nicola Zabaglia alla base della tribuna principale lunga 112 metri e coperta nella parte centrale da una tettoia di 64 metri sorretta da 6 pilastri. Era il luogo destinato alle autorità, ai soci vitalizi e alla stampa, potendo contenere in tutto 5000 persone disposte su 21 gradoni, mentre al di sotto di essa si trovavano vari locali di servizio e gli spogliatoi da cui i giocatori accedevano al campo attraverso un passaggio sotterraneo. La tribuna opposta, denominata dei “distinti”, era lunga 120 metri, aveva 31 gradoni e poteva contenere fino a 8000 spettatori ed era dotata ai fini della sicurezza del pubblico di un impianto che, sotto il peso della folla, indicava il raggiungimento della massima capienza. Dietro le porte del campo si alzavano le gradinate definite “popolari” che erano sopraelevate di 4 metri dal suolo e lunghe 60 metri per 10 di altezza e 15 gradoni che potevano contenere circa 2000 persone ciascuna.

Le tribune in legno – con balaustre liberty dipinte in giallo e rosso – erano uno dei tratti distintivi del Campo Testaccio. La tribuna era coperta nella tratta centrale destinata ad ospitare le autorità, dove un paio di volte si fece vedere a scopo propagandistico anche Benito Mussolini.

Fra le tribune e la rete che delimitava l’area di gioco si ricavarono poi due “parterre” leggermente inclinati lunghi ciascuno 120 metri e larghi 7 ove potevano trovare sistemazione in piedi, e quindi a un prezzo più contenuto, altri 6000 spettatori. L’impianto comprendeva anche l’abitazione del custode e dell’allenatore della squadra, un edificio sul cui muro esterno era dipinto un grande stemma della Roma, verniciato di giallo oro e rosso pompeiano. Il terreno di gioco era ricoperto da un soffice tappeto erboso dotato per l’epoca di un innovativo sistema di drenaggio, costituito da un reticolo di canaletti sotterranei che permettevano l’irrigazione e il deflusso dell’acqua piovana, mentre sotto il prato era stato collocato uno strato di carbonella, che insieme alla struttura a schiena d’asino, consentiva che non si formassero delle pozzanghere. L’ingente investimento per la costruzione della casa della Roma era stato sopportato da un personaggio centrale nella storia del sodalizio capitolino, il cosiddetto banchiere di Testaccio, Renato Sacerdoti, che ne diventerà il secondo presidente, dopo il fondatore. I prezzi erano abbastanza elevati per l’epoca, e tuttavia lo stadio che poteva contenere fino a 23 000 spettatori era spesso esaurito, mentre chi era senza biglietto saliva al Monte dei Cocci da dove si vedeva meno della metà del campo a causa della tettoia della tribuna, ma spesso si riunivano sino a 5000 persone. Tanto per dare un’idea della passione che suscitava la giovane Roma basti pensare che se il mezzo più usato all’epoca per raggiungere lo stadio era il tram, su 26 linee in funzione allora nella Capitale d’Italia ben 11 consentivano di arrivare al Campo Testaccio.

I tifosi della Roma rimasti senza biglietto salivano sul Monte Testaccio per assistere alla partita, anche se più che vederla la potevano sentire e a loro volta non facevano mancare il loro rumoroso appoggio alla squadra giallorossa.

L’entusiasmo popolare e la passione travolgente per la neonata squadra capitolina hanno una spiegazione, che ci porta a ricordare e spiegare la nascita della Serie A. Infatti, erano più o meno trent’anni che in Italia si organizzavano tornei di calcio: quello che è considerato il primo vero campionato risale al 1898, venne disputato in un’unica giornata tra quattro squadre e vinto dal Genoa. Negli anni successivi i campionati inclusero più squadre, si articolarono meglio, nacquero categorie diverse, gironi regionali e successive finali sino all’ultima partita della stagione che assegnava il titolo di campione d’Italia. Il tutto sotto la lente della Federazione Italia Giuoco Calcio, la FIGC, che tuttavia non riusciva a trovare l’accordo delle società iscritte a realizzare un assetto più razionale. Il problema era inoltre che le squadre del Nord Ovest erano nettamente più forti di quelle del Nord Est, del Centro e del Sud, ed ogni edizione era in qualche modo diversa nella sua formula dalle precedenti, dal momento che allo scopo di assegnare il titolo nazionale la FIGC cercava di coinvolgere tutto il paese, organizzando degli spareggi tra le squadre vincitrici dei diversi campionati, che peraltro vedevano prevalere sempre le grandi squadre lombarde, piemontesi o liguri, che avrebbero desiderato limitare il torneo a un girone che coinvolgesse esclusivamente il Nord Italia, scatenando l’opposizione di quelle squadre più piccole che si opposero e nel 1921 si arrivò addirittura a una scissione e si disputarono due campionati diversi, uno vinto dalla Novese (quello ufficiale, con le squadre minori) e uno dalla Pro Vercelli. I due campionati furono ricomposti l’anno successivo e si adottò una soluzione di compromesso che prevedeva una Lega Nord e una Lega Sud, con una finale tra le vincitrici, ma il divario tecnico tra le due leghe era incolmabile, e a vincere era puntualmente la squadra del Nord: Internazionale, Milan, Juventus, Pro Vercelli e Genoa non avevano rivali, tanto che la prima squadra di un’altra regione a vincere il campionato sarebbe stata il Bologna solo nel 1925, mentre il primo sodalizio non del Nord sarà la Roma, addirittura nel 1942.

Un telegramma di felicitazioni spedito da un tesserato giallorosso che festeggia il successo del primo campionato vinto dalla Roma, mai lo scudetto se lo era aggiudicato una squadra del Centro Sud e la questione nordista emerge con chiarezza dal testo del messaggio.

Nel frattempo il fascismo aveva preso il potere, tratteggiando l’idea di un campionato unico, più adatto ai sentimenti autarchici e nazionalisti propagandati dal regime. I progetti per l’unificazione delle diverse competizioni regionali erano però complicati dal fatto che, oltre alla prima divisione, l’impianto del campionato di calcio doveva prevedere strutture simili anche per le divisioni minori, a cui partecipavano squadre piccole per cui era logisticamente difficile, o impossibile, prendere parte a campionati di maggiori dimensioni e ambizioni. Tuttavia una scintilla venne in soccorso del regime e fornì il pretesto necessario a legittimare un intervento radicale. Infatti una grave crisi di sistema aveva colpito il mondo del calcio e quasi travolto la FIGC nel 1926, quando giunse al termine un campionato (per la cronaca, vinto dal Torino e poi revocato per una presunta frode che avrebbe determinato un dirigente granata a comprare un derby poi vinto dal Toro 2 a 1 contro la Juventus) rovinato dalle cosiddette “liste di ricusazione”, ovvero sia elenchi stilati dai club che ponevano all’indice arbitri a loro non graditi. Proprio lo sciopero arbitrale che ne seguì portò di fatto il regime, tramite il presidente del CONI dell’epoca Lando Ferretti, ad organizzare una speciale commissione cui venne dato l’incarico di riorganizzare il calcio italiano, nel frattempo ammorbato da sospetti e violenze, che culminarono nella finalissima fra Genoa e Bologna dell’anno precedente, detta “delle pistole”, e vinta alla quarta ripetizione della sfida dai felsinei, in un clima inaudito. Riunitisi in Versilia, in una sala del municipio di Viareggio, e alla presenza dell’on. Leandro
Ferretti presidente del CONI, la speciale commissione composta da Paolo Graziani, Italo Foschi e Giovanni Mauro, presidente dell’Associazione Italiana Arbitri, redasse un documento che venne pubblicato ed approvato dal CONI il 2 agosto del 1926: la cosiddetta “Carta di Viareggio”, che rivoluzionò in maniera sostanziale il calcio italiano, fino ad allora formalmente sport dilettantesco. Con quel documento, per iniziare, si riorganizzò la classe arbitrale, si approvò il professionismo e si cercò di disciplinare il calciomercato.

In una sala del municipio di Viareggio nell’estate del 1926 i tre esperti nominati dalla presidenza del Coni per riorganizzare la FIGC, dopo una stagione di scandali e veleni senza precedenti: Foschi, Graziani e Mauro cambiarono per sempre il volto del calcio italiano, rivoluzionandolo.

Venne inoltre ristrutturata la FIGC il cui presidente era Leandro Arpinati, vicesegretario del Partito Nazionale Fascista, e si stabilì di procedere all’organizzazione di un vero e proprio campionato nazionale. Attraverso la “Carta di Viareggio” si dispose fu la chiusura delle frontiere, ispirata dalle idee nazionalistiche propugnate dal fascismo questa decisione colpì duramente i club, che all’epoca contavano più di ottanta calciatori provenienti dall’estero, per lo più da quella Scuola Danubiana che vedeva in austriaci ed ungheresi gli esponenti più illustri, e non piacque ai proprietari più facoltosi di quelle squadre già allora disposte ad effettuare investimenti importanti pur di sopravanzare i propri rivali. Ecco quindi che proprio in risposta all’autarchizzazione del calcio italiano vennero “inventati” gli oriundi. A convincere  Benito Mussolini a riconoscere la possibilità di tesserare calciatori figli della “grande Italia al di là degli Oceani” fu Edoardo Agnelli, che di fatto chiese la “grazia” per i figli dei tanti emigrati all’estero nel corso dei decenni precedenti. Così subito dopo che si era arrivati ad annullare il contingente straniero in terra d’Italia, come previsto dalla “Carta di Viareggio”, ecco riaprirsi uno spiraglio nelle frontiere del calcio italiano: nel 1929 furono subito undici gli “stranieri” – ma d’origine nostrana – cui fu permesso di venire a giocare nel Belpaese. Fatta la legge trovato l’inganno, nella migliore tradizione italica.

La Nazionale italiana guidata da Vittorio Pozzo era fortissima e con gli “oriundi” praticamente imbattibile: Campione del Mondo nel 1934 in casa e nel 1938 in Francia, vincitrice dell’Olimpiade nel 1936 in Germania e della Coppa Internazionale (il primo trofeo continentale per nazionali) nel 1930 e nel 1935, dominando letteralmente gli anni Trenta.

La ristrutturazione su scala nazionale dei campionati non poteva avvenire in molte realtà locali sulla base delle società esistenti, e non sarà priva di conseguenze, specialmente nelle città del Sud dove vi era una pletora di società di modeste dimensioni e seppure molto amate insignificanti dal punto di vista tecnico. In particolare i maggiori nuclei urbani del Centro-Sud, non esprimevano una singola società che potesse neanche lontanamente competere con i grandi club del Nord. In Toscana ad esempio il calcio si era sviluppato soprattutto lungo la costa a Livorno e Pisa, mentre il capoluogo era sportivamente in ombra, e così pure grandi città come Napoli, Taranto e Bari. Anche nella Roma tanto cara al regime dall’inizio del secolo si era formata una gran quantità di squadre, ma le uniche in grado di imporsi erano la Lazio, l’Alba e la Fortitudo, capaci di vincere in varie occasioni il campionato meridionale ma troppo lontanate dalle squadre del Nord per poterle anche solo impensierire. Quindi per favorire la nascita del campionato nazionale organizzato sulla base di un girone unico, appunto detto all’italiana, dove ogni squadra avrebbe incontrato tutte le altre in casa propria e al loro domicilio allo scopo di determinare la più forte di tutte, si diede avvio a una consistente serie di fusioni fra società della stessa città e nacquero in quegli anni la Fiorentina, il Napoli, la Dominante, che poi si chiamerà Liguria a Genova, il Bari e il Taranto in Puglia, la Fiumana nella città di Fiume, l’Ambrosiana dalla fusione fra l’Internazionale e l’Unione Sportiva a Milano e la Roma.

Italo Foschi fu il principale artefice della fondazione della Roma nel 1927, sodalizio del quale sarà il primo presidente, nato il 7 marzo 1884 a Corropoli, in provincia di Teramo, fu federale fascista dell’Urbe dal 1923, e si occupò poi di riorganizzare le attività sportive in Italia, essendo uno degli estensori della Carta di Viareggio.

Il neonato sodalizio capitolino era il risultato della fusione concordata dai dirigenti delle tre società calcistiche che raggiunsero l’intesa: il comm. Italo Foschi, presidente della Fortitudo Pro Roma e promotore della fusione, l’on. Ulisse Igliori, protagonista dell’impresa di Fiume e della Marcia su Roma, squadrista, poi imprenditore e costruttore, presidente dell’Alba Audace, e l’avv. Vittorio Scialoja, raffinato giurista, già ministro della Giustizia e degli Esteri, presidente dell’ Accademia dei Lincei, del Consiglio Nazionale Forense e del Foot Ball Club Roman, che a loro volta avevano aggregato una dozzina di società sportive sorte dal 1900 in avanti e quindi portatrici di un pubblico appassionato e sincero. I colori scelti per caratterizzare la nuova Associazione Sportiva, che nasceva nell’estate del 1927 col nome di Roma, furono il giallo oro e il rosso pompeiano del gonfalone cittadino e il simbolo adottato non poteva che essere la lupa capitolina mentre allatta Romolo, il fondatore di Roma, e suo fratello Remo. Il primo presidente del nuovo sodalizio sarà proprio Foschi che dopo aver pilotato politicamente l’intera operazione, destinato dal regime ad altri incarichi civili lontano da Roma, lascerà lo scranno presidenziale a Renato Sacerdoti, industriale del settore alimentare, un contrabbandiere per i suoi detrattori, certamente un uomo ambizioso e, come il suo predecessore, visceralmente innamorato della Roma, e impegnato nell’impresa di allestire una squadra in grado di competere con gli squadroni del Nord del paese, per questo affidata all’allenatore inglese William Garbutt, il mister per antonomasia, uno dei più prestigiosi e competenti tecnici dell’epoca, che aveva vinto tutto, battendo ogni record, alla guida dell’invincibile Genoa della prima metà degli anni Venti, e che condurrà la neonata Roma alla vittoria della prestigiosa Coppa CONI nel 1928.

La squadra giallorossa festeggia la vittoria della Coppa CONI presentandola durante la partita di campionato Roma-Triestina, riconoscibili Giovanni Degni con la fascia in testa, Attilio Ferraris al fianco del federale Turati, “Sciabbolone” Volk, il neo presidente Renato Sacerdoti e, mano sulla coppa, lo storico massaggiatore Angelino Cerretti, in forza alla Roma per oltre quarant’anni.

acquistando Rodolfo Volk, ottimo centravanti istriano dalla Fiumana, Guido Masetti, eccellente portiere fra i migliori d’Italia dal Verona, e uno dei giocatori più forti dell’epoca, forse il migliore centrocampista del momento, Fulvio Bernardini dall’Inter, che insieme ad Attilio Ferraris IV, primo nazionale e capitano giallorosso, costituirà una coppia affiatata quanto carismatica, il presidente Sacerdoti permetterà alla Roma di contendere la vittoria finale nel campionato 1930/31 alla fortissima Juventus di Edoardo Agnelli, che avrebbe dominato la Serie A per le successive cinque stagioni: il quinquennio d’oro bianconero appunto. Tuttavia il presidente giallorosso non si era perso d’animo e incoraggiando i suoi collaboratori il 1º maggio del 1933 disse loro “Ora possiamo puntare al titolo!”, infatti dopo essere sbarcati al porto di Genova provenienti dal Sudamerica, quella stessa sera arrivarono alla stazione Termini, accolti dai tifosi romanisti in delirio Enrique Guaita e Alejandro Scopelli dall’Estudiantes de la Plata e Andrés Stagnaro dal Racing Club de Avellaneda, acclamati come fra i migliori oriundi in circolazione. Dopo qualche amichevole per integrarsi in un organico già rodato soprattutto Enrique Guaita esploderà letteralmente, conquistando tutti: il 24 settembre 1933 la Roma all’esordio in campionato vincerà a Firenze per 3-1 e l’argentino, oltre a realizzare una doppietta, manderà in visibilio il pubblico con giocate da fuoriclasse.

Il 1º novembre del 1933 al Campo Testaccio una Roma incontenibile – con il Dottore Fulvio Bernardini sugli scudi – travolge la Lazio 5-0 e ribadisce la supremazia cittadina sull’odiata rivale biancoceleste, quel giorno letteralmente cancellata dal campo.

Guaita inizia a segnare a raffica e diventa lo “spavento delle difese” mentre la Roma terminerà quel campionato solo al quinto posto, dopo il secondo e il terzo degli anni precedenti. Intanto il commissario tecnico della Nazionale, Vittorio Pozzo, arruola proprio l’oriundo Guaita fra gli azzurri, nonostante le 14 presenze già collezionate con la selezione argentina, e la scelta si rivelerà quanto mai azzeccata: il contributo di Guaita, ribattezzato Enrico, risulterà infatti determinante al successo azzurro nei Mondiali di casa del 1934, realizzando il gol decisivo in semifinale contro l’Austria – il fortissimo Wunderteam che aveva superato l’Italia vincendo nel 1932 la Coppa Internazionale – nonché il decisivo assist per Angelo Schiavio, che confezionerà poi la rete della vittoria nella finale con la Cecoslovacchia. L’argentino è ormai un idolo indiscusso del popolo romanista, terminale offensivo implacabile di una squadra che voleva diventare protagonista del calcio italiano. Nel campionato successivo al Mondiale che porterà la Roma al quarto posto, Guaita sarà capocannoniere del torneo con 28 reti in 29 partite (un record ancora imbattuto nei tornei a 16 squadre), e protagonista di imprese memorabili come i tre gol al Torino con cui la Roma espugnerà il Filadelfia o quello a Milano che stenderà l’Inter in casa, o ancora quelli rifilati al Livorno che verrà polverizzato e che gli varranno il soprannome di “Corsaro Nero”, a motivo della maglia utilizzata dalla Roma in diverse occasioni, completamente nera e agitata dalle movenze grintose e veloci dell’argentino.

Ai Mondiali l’Italia si ritrova in semifinale l’avversario più temibile, l’Austria di Hugo Meizl e Mathias Sindelar, il Wunderteam. Ecco il gol che vale la finale: il portiere austriaco Platzer ha respinto corto un tiro di Schiavio, Meazza è finito in fondo alla rete, ma Guaita anticipando Platzer si avventa sulla palla e segna.

I tifosi giallorossi erano estasiati dai colpi dell’attaccante ed eccitati dalla possibilità di competere con le rivali per la vittoria dello scudetto, e il presidente Sacerdoti ci credeva davvero al punto di rafforzare ulteriormente la squadra. All’esito della campagna acquisti estiva arriveranno in giallorosso Eraldo Monzeglio dal Bologna e Luigi Allemandi dall’Ambrosiana-Inter, i due terzini della Nazionale. La Roma è ormai pronta, e in molti la candidano come grande favorita del campionato che sta per incominciare, ma a due giorni dall’esordio nel torneo succede l’imprevedibile: i tre argentini della Roma fuggono dall’Italia. Era successo che all’esito della visita di leva – obbligatoria avendo acquisito anche la cittadinanza italiana – i tre erano stati dichiarati abili e arruolati nel corpo dei Bersaglieri. Si trattava di una prassi in realtà ma da quel momento Guaita, che aveva appena ricevuto un considerevole aumento di ingaggio, Scopelli e Stagnaro iniziarono a temere seriamente di dover partire per l’Africa nel contingente italiano diretto in Etiopia ed Eritrea e non credettero alle rassicurazioni della Roma, preferendo la fuga anche a costo di risultare come disertori e non potendo così più tornare non Italia. I calciatori romanisti, si presentarono all’ambasciata dell’Argentina e partirono in automobile per la Liguria e in treno arrivarono in Francia a Marsiglia, imbarcandosi da lì per il Sudamerica su un bastimento merci.

I giocatori della Roma durante l’allenamento, Guaita è l’unico in perfetta tenuta da gioco, con indosso la divisa sociale, forse per festeggiare il nuovo contratto appena stipulato, quando bastavano “mille lire al mese” lui dal sodalizio giallorosso ne riceveva diecimila, al mese.

Con la fuga degli argentini, la Roma venne a trovarsi in una situazione di gravissima difficoltà, stante la mancanza della prima punta e del centrocampista offensivo più forte forse del calcio italiano. Ad aggravare la situazione anche la pratica impossibilità di intervenire con qualche acquisto mirato, visto che la campagna acquisti era ormai conclusa: la soluzione andava trovata all’interno dell’organico. Luigi Barbesino non si lasciò travolgere né scoraggiare: in un primo momento l’allenatore giallorosso cercò di ovviare alla bisogna, inserendo un terzino al centro dell’attacco, per poi provare altre soluzioni anche se con scarsi risultati. Per tutto il girone di andata e nella fase iniziale del girone di ritorno la Roma fu condizionata dalla scarsa vena offensiva della squadra che tuttavia si concentrò sulla solidità della difesa dove giganteggiarono Masetti, Monzeglio e Allemandi e De Micheli. A quel punto, l’allenatore giallorosso decise di buttare nella mischia il giovanissimo Dante Di Benedetti, un attaccante del tutto privo di esperienza che tuttavia ripagò la fiducia del mister nel migliore dei modi, mettendo a segno 7 reti nelle 13 partite disputate e conferendo al reparto offensivo l’efficacia necessaria. Col suo innesto la Roma risolse d’incanto i propri problemi offensivi, e spinta dal suo pubblico, nel fortino di Campo Testaccio, inanellò una serie di risultati che la portarono a scalare imperiosamente la classifica, tanto da insidiare il primo posto del Bologna che, infine, riuscì ad avere la meglio per un solo punto vincendo lo scudetto che anche in questo caso la Roma aveva sfiorando, perdendolo beffardamente.

La Roma superstite alla fuga degli argentini riuscirà a completare una stagione iniziata nel peggiore dei modi sfiorando lo scudetto, vinto con un solo punto di vantaggio sui giallorossi dal fortissimo Bologna, “lo squadrone che tremare il mondo fa”.

Il Campo Testaccio era il tempio del tifo romanista, dove la passione vivace del popolo giallorosso esplodeva insieme al carattere vigoroso della squadra, tanto che quella leggendaria Roma testaccina è legata in modo indissolubile allo stadio dove si esibiva e imponeva alle avversarie “la legge del Testaccio”, se è vero che dalla partita inaugurale del 3 novembre 1929, vinta 2-1 contro il Brescia, all’ultima gara disputata nel quartiere il 2 giugno 1940, vinta 3-1 contro il Novara, la Roma lì disputerà in poco più di dieci anni 214 partite, fra campionato e coppa nazionale, concludendone la metà senza subire gol dagli avversari, perdendone 30, pareggiandone 34 e vincendo in ben 150 occasioni. In effetti, quando la squadra capitolina usciva dalla botola del sottopassaggio per entrare in campo, le tribune di legno vibravano di un entusiasmo talmente intenso che si diffondeva ai giocatori portandoli ad uno stato di ebrezza agonistica che rimase proverbiale, perché i calciatori sentivano una responsabilità in più: quella dell’appartenenza. Negli spogliatoi Attilio Ferraris IV, il mitico capitano, nonché primo giocatore della Roma a vestire la maglia azzurra della Nazionale italiana, lo ricordava a tutti, quando, mani sul pallone e sguardo fisso negli occhi dei compagni, recitava la formula consolidata del giuramento con la squadra, prima di guidarla in campo: «Chi s’estranea dalla lotta è un gran fijo de ‘na mignotta».

Quando i giocatori della Roma entravano in campo emergendo dalla botola l’entusiasmo esplodeva letteralmente e Campo Testaccio fremeva.

E ci sono gesta di quel tempo che assurgono a leggenda. La sfida Roma contro Juventus del 15 marzo del 1931 è uno di questi casi. Il 15 marzo è un giorno speciale per la storia di Roma antica: sono infatti le Idi di marzo, quando nel 44 a.C., Caio Giulio Cesare viene pugnalato a morte da un manipolo di senatori congiurati scatenando la guerra civile. Invece, tornando al calcio, a solo quattro anni dalla fusione che aveva portato alla nascita del sodalizio giallorosso, per la prima volta, la Roma poteva covare ambizioni tricolori, in quel 1931 le squadre più forti erano i campioni in carica dell’Ambrosiana-Inter dove giocava Giuseppe Meazza, il più forte giocatore italiano dell’epoca, capocannoniere implacabile e Balilla per antonomasia, il Bologna che aveva già conquistato due campionati negli anni precedenti e stava consolidando quel gruppo che sarebbe diventato lo squadrone che tremare il mondo fa, il Genoa e il Torino che stavano esaurendo il loro ciclo di successi degli anni venti – due campionati i rossoblu e uno i granata del trio delle meraviglie – ma erano ancora molto competitive e naturalmente la Juventus che sotto l’egida di Edoardo Agnelli aveva allestito una compagine straordinaria che saprà vincere i successivi cinque campionati inaugurando proprio quell’anno un lungo periodo di supremazia assoluta della squadra bianconera, ossatura della Nazionale italiana vincitrice due volte della Coppa del Mondo nel 1934 e nel 1938 e dell’Olimpiade nel 1936, sotto la guida di Vittorio Pozzo.

È il 15 marzo 1931 al Campo Testaccio juventini e romanisti fraternizzano prima dell’inizio della gara, che la Roma per la prima volta riuscirà a vincere contro la Juventus, travolgendo letteralmente la squadra bianconera.

C’è grande attesa nella Capitale per un evento mai vissuto prima, lo si attende “cor core acceso”. Non solo è una sfida d’alta classifica, la Juventus infatti si presenta nella Capitale all’incontro valevole per la ventiduesima giornata con 5 punti di vantaggio sulle inseguitrici Roma e Bologna, è qualcosa di più: la Roma infatti non era mai riuscita a vincere contro la Juventus, è una possibilità di riscatto contro la supremazia del Nord nei confronti del resto del paese, è la sfida fra l’energia popolana della giovane squadra romanista composta quasi esclusivamente da romani e l’aristocratica rivale per eccellenza, la squadra più facoltosa e ambiziosa, espressione dell’antica capitale sabauda, contro la nuova capitale d’Italia. Per l’occasione l’allenatore dei giallorossi, l’inglese Burgess, cultore di un calcio dinamico e pragmatico, studiò una mossa per arginare l’ala sinistra bianconera Mumo Orsi, il più temibile degli avversari, spostando nella posizione di mediano laterale destro il capitano giallorosso Tilio Ferraris IV che in linea con il suo carattere spavaldo si impegnò solennemente coi tifosi: “Domani Orsi nun deve beccà palla.” E i tifosi puntuali accorsero riempiendo come sempre al Campo Testaccio, 25 000 presenza si dice, e un paio di migliaia di appassionati sul Monte dei Cocci crearono una cornice di pubblico mai vista prima, in un’atmosfera d’attesa quasi morbosa: sventolavano fazzoletti, spiccavano ovunque macchie sgargianti di giallorosso, e scintille di elettricità si sprigionavano da ogni parte, mentre la folla continuava ad affluire compatta al Testaccio. La Juventus schierava Combi, Rosetta, Caligaris, Barale, Varglien, Vollono, Munerati, Cesarini, Vecchina, Ferrari, Orsi e la Roma rispondeva con Masetti, De Micheli, Bodini, Ferraris, Bernardini, D’Aquino, Costantino, Fasanelli, Volk, Lombardo e Chini.

Gianpiero Combi in uscita acrobatica anticipa il romanista Rodolfo Volk, lo Sciabbolone che tuttavia riuscirà a a scardinare quella che è ritenuta tuttora dalla stampa specializzata la miglior linea difensiva di tutti i tempi espressa nel calcio italiano nonché una delle migliori nella storia della disciplina, formata oltre al portiere bianconero, da Virginio Rosetta e Umberto Caligaris.

Ed ecco che la partita è da poco iniziata, ma sospinta da un tifo immenso la Roma passa subito in vantaggio, già al 6’ infatti quando Ferraris IV allunga al fiumano Volk, segue il passaggio di quest’ultimo a Lombardo che lascia partire una sassata e palla in rete! La Juventus tenta una reazione ma il punteggio rimane invariato sull’1-0 sino alla fine del primo tempo. Alla ripresa delle ostilità è ancora la Roma ad andare in rete al 50’: Costantino salta Caligaris e centra rapidissimo a Volk, il primo grande attaccante della storia della Roma, ribattezzato Sciabbolone per i suoi tiri potentissimi, che nella circostanza infila l’angolo alto con un colpo “de testa da fa ‘ncantà”, e così il risultato diventa 2-0, mentre Testaccio esplode in una gioia mai vista prima, del resto con la Juventus i giallorossi non avevano vinto mai, bensì perso in quattro occasioni e pareggiato una volta. I bianconeri non ci stanno e la partita, giocata senza risparmio di colpi duri, s’incattivisce ulteriormente. Cesarini si scontra con Fasanelli e il capitano Ferraris IV si butta nella mischia per difendere il compagno ma viene sgambettato e finisce a terra, cercando poi un contatto non proprio amichevole con Cesarini e così l’arbitro per non sbagliare li espelle entrambi. Al 62’ Caligaris intercetta con le mani un pallone destinato in rete, è rigore e si incarica della battuta Fulvio Bernardini che senza esitazioni tira e fa 3-0. A questo punto il capitano Ferraris IV, che non era rientrato negli spogliatoi ma era rimasto semi-nascosto accomodandosi sulle scale dentro la “buca” dell’ingresso al campo, perché voleva incoraggiare i compagni, facendo capolino, si liberò di coloro che cercavano di trattenerlo per entrare in campo a baciare “Furvio nostro” Bernardini, due icone del calcio giallorosso. La Roma è in trance agonistica mentre la Juventus è alle corde, con un guizzo al 79’ Fasanelli sfrutta un errato retropassaggio della difesa bianconera e insacca agevolmente per il 4-0 mentre all’87’ arriva il definitivo 5-0, in seguito ad un’azione travolgente del duo De Micheli e Costantino, con cross a Bernardini che insacca perentorio: “Cari professori appatentati sete belli e liquidati perché Roma ce sa fa”.

Gli spogliatoi sotterranei in origine erano rivestiti in legno e dotati di ogni comfort: docce, gabinetti e riscaldamento. Da quei locali partiva un tunnel, sorta di sottopassaggio coperto, che faceva sbucare i calciatori direttamente sul bordo del campo di gioco attraverso una scalinata e una botola protetta da un coperchio di assi di legno.

Quel successo avvicinò i giallorossi a soli tre punti dalla Juventus capolista, che quel campionato lo vincerà comunque, in ragione di qualche passaggio a vuoto degli inseguitori dovuto anche ai provvedimenti disciplinari che indebolirono la Roma, squalificandone diversi giocatori, dopo un infuocato derby di maggio pareggiato 2-2 contro la Lazio e terminato in rissa a causa degli schiaffi che volarono fra il difensore romanista De Micheli e niente meno che il presidente della società biancoceleste, il generale Vaccaro. Tuttavia quella goleada inflitta alla Juventus a corredo della prima vittoria contro i bianconeri, ispirò il regista romano Mario Bonnard, tanto è vero che l’anno successivo nel 1932 uscirà nelle sale cinematografiche “Cinque a zero” la prima pellicola cinematografica italiana a parlare di calcio. Il cinema e il calcio intrattengono rapporti a far data da un film inglese del 1911, “Harry the Footballer”, un cortometraggio muto diretto da Lewin Fitzhamon. Quella fu la prima opera di finzione che si conosca mai realizzata sul calcio e fu di fatto la prima rappresentazione cinematografica di questo sport. Tutt’altro che memorabile, verosimilmente. Una stella del calcio è rapita dalla squadra avversaria, finché viene liberato dalla sua ragazza, appena in tempo per giocare una partita e segnare il gol della vittoria. Distribuito dalla Hepworth, il film uscì nelle sale britanniche nell’aprile del 1911, e sappiamo che venne distrutto nel 1924 dallo stesso produttore, Cecil M. Hepworth, che trovandosi in gravi difficoltà finanziarie giunse a tanto per poter recuperare il nitrato d’argento della pellicola. “Cinque a zero” invece è una commedia di circa 70 minuti che racconta del presidente di una squadra di calcio, interpretato da Angelo Musco, all’epoca attore di gran successo, preoccupato perché il capitano della sua squadra è distratto, nella pellicola l’attore Osvaldo Valenti, uno dei protagonisti della cinematografia italiana del ventennio fascista, perché innamorato di una cantante del varietà, interpretata da Milly, pseudonimo di Carolina Mignone, all’epoca conosciuta soubrette d’avanspettacolo. Naturalmente tutto si riconcilierà in un classico lieto fine, addirittura con la conversione della moglie del presidente che si appassionerà al calcio, mentre la squadra del marito trionferà con un largo 5-0, per l’appunto.

Un articolo dell’epoca con la locandina del film.

Il film fu girato negli stabilimenti della Caesar Film di Roma ed memorabile anche perché alle riprese parteciparono Attilio Ferraris IV, Fulvio Bernardini, Arturo Chini, Bruno Dugoni, Fernando Eusebio, Casare Augusto Fasanelli, Guido Masetti, Attilio Mattei e Rodolfo Volk, impersonando se stessi. Purtroppo questo documento è introvabile dal momento che sono andate distrutte le poche copie conservate, ed è quindi praticamente invisibile. Bonnard, però, non fu l’unico a essere folgorato da quella squadra, capace di tante imprese. Infatti il paroliere Antonio Castellucci le dedicò una canzone, anzi, la “Canzona”, con la “a”, riadattando il tango “Guitarrita” prendendone le note e plasmandole con i nomi dei calciatori romanisti scesi in campo quel 15 marzo. Nasce così all’epoca “La Canzona di Testaccio” che non è frutto di quella creatività collettiva che risiede nelle curve e che tanti capolavori ha regalato alla cultura sportiva italiana, ma che grazie ad una felice intuizione ed alla determinazione di Sandro Ciotti. che consente alle giovani generazioni di conoscere i miti di una Roma bellissima, spesso presa a modello di tenacia e gagliardia, inno arrivato sino a noi.

“La Roma racconta”, pubblicato fra la fine del 1979 e l’inizio del 1980 dalla De Sisti Editore, raccoglie 520 fotografie e 2 Lp – 33 giri, contenenti 109 testimonianze sonore, assemblate con interviste espressamente realizzate da Sandro Ciotti o con fonti d’archivio.

Infatti l’attuale traccia musicale facilmente rintracciabile su internet non è quella originale ma una versione registrata da Vittorio Lombardi per il popolare radiocronista e giornalista sportivo che l’aveva sentita canticchiare da Aldo Donati, centrocampista di quella Roma testaccina, mentre raccoglieva la sua testimonianza per il documentario sonoro e fotografico del 1980 intitolato “La Roma racconta”. All’interno Sandro Ciotti voleva inserire una rivisitazione della “Canzona di Testaccio” ma si rese conto che non ne esisteva nessuna registrazione. Si rivolse quindi al romano Vittorio Lombardi, un musicista che si era affermato negli anni Sessanta, e che diede la sua disponibilità. La fretta era tanta che Ciotti non volle prenotare uno studio di registrazione, ma raggiunse Lombardi al “Capriccio” una traversa di Via Veneto la sera stessa per incidere il brano direttamente al registratore, ed è proprio il caratteristico fruscio a dare al brano quell’effetto che lo fa sembrare originale. Grazie alla felice intuizione di Ciotti, quel riadattamento di Castellucci è diventato una delle più esaltanti colonne sonore della curva romanista.

Nel 1981, prima di un Roma-Juventus, viene esposto dalla Sud uno striscione a tutta curva: “Roma, Testaccio ti guarda”. E non dovrebbero occorrere altre motivazioni, per gettare il cuore oltre l’ostacolo.

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