È l’autunno del 1897 quando un gruppo di studenti torinesi del Liceo Massimo d’Azeglio, fonda l’allora “Sport-Club Juventus”, come naturale conseguenza dei pomeriggi post-scolastici trascorsi a parlare dell’associationfootball, il nuovo sport – già affermato in Gran Bretagna – che si stava diffondendo come una febbre proprio a Torino, e che quei ragazzi avevano iniziato a giocare nella vicina piazza d’armi cittadina, imitando alcuni adulti che lo praticavano poco distante, al parco del Valentino.
Il Liceo “D’Azeglio” è oggi una delle scuole “storiche” di Torino: i suoi albori risalgono al 1831 quando nella zona sud-orientale della città, area di ampliamento nei primi decenni dell’Ottocento, venne istituito il Collegio di Porta Nuova, che nei primi anni funzionava solo con quattro classi di “grammatica”, cui a partire dal 1838-39 viene aggiunto l’insegnamento di “umanità” e infine, dall’anno scolastico 1845-46, anche l’insegnamento della “retorica” che completava il ciclo di studio all’epoca definito preparatorio. Nel 1852 il Collegio di Porta Nuova viene poi trasferito in via Arcivescovado, presso la Parrocchia della Madonna degli Angeli e più tardi, nel 1857, trova collocazione in quella che da allora è rimasta la sua sede, con il nome di Collegio Municipale Monviso, assumendo dal 1860 il nome di Regio Collegio Monviso. Con il crescere della popolazione torinese, in ripresa dopo gli anni difficili del trasferimento della capitale d’Italia prima a Firenze e quindi a Roma, intorno agli anni Ottanta del XIX secolo si sente il bisogno di creare un nuovo Liceo Classico (dopo il “Cavour” e il “Gioberti”, risalenti al 1859): nel 1882, in luogo del “Monviso”, viene così fondato il “D’Azeglio”, intitolato al grande uomo politico del Risorgimento, che comprendeva i cinque anni di corso ginnasiale (gli attuali tre anni di Scuola Media e i due ginnasiali) e i tre del corso liceale.
Gli studenti del Liceo degli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento appartengono, per lo più, alla borghesia che abita i palazzi della Torino umbertina e liberty (la zona della Crocetta e il corso Re Umberto), mentre le ragazze frequentavano scuole femminili o ricevevano una forma di insegnamento familiare. Del resto l’istruzione paterna (tramite un precettore) era ancora molto diffusa anche tra i maschi: talvolta si frequentava la scuola pubblica infatti solo per sostenere gli esami. I giovani fondatori del nuovo sodalizio sono quindi molto giovani, dapprima 13 ragazzi, le due coppie di fratelli liguri Eugenio ed Enrico Canfari e Gioachino ed Alfredo Armano, il toscano Luigi Gibezzi, i piemontesi Umberto Malvano, Carlo Vittorio Varetti, Umberto Savoja, Domenico Donna, Carlo Ferrero, Luigi Forlano, Enrico Piero Molinatti ed il pavese Francesco Daprà a cui si aggiunsero successivamente altri studenti, Guido Botto, Pio Crea, Carlo Favero, Gino Rocca ed Eugenio Secco, tutti con un’età compresa tra i quattordici e diciassette anni. Il luogo tipico di riunione di questi 18 liceali era una panchina non distante dalla loro scuola, di fronte alla pasticceria Platti verso il corso Duca di Genova, oggi corso Re Umberto, all’angolo di corso Vittorio Emanuele II; la panchina, dove i ragazzi poggiavano i loro libri e le loro cartelle, è custodita dal 2012 nel bellissimo museo del club bianconero, il J-Museum.
La data ufficiale di fondazione del club non è nota né contenuta in alcun documento e pertanto si assume come data convenzionale il 1º novembre 1897, mentre in Inghilterra da quasi trenta anni si disputava già il più antico al mondo e prestigioso dei tornei, che metteva in palio l’ambitissima The Football Association Cup [The FA Cup, o Coppa d’Inghilterra] vinta dai londinesi Wanderers (5), dall’Oxford University (1), dai Royal Engineers (1) del corpo genieri dell’esercito britannico, dall’Old Etonians (2) la squadra degli ex studenti del prestigioso Eton College, dal Clapham Rovers (1), dall’Old Carthusians (1) della Charterhouse School, dal Blackburn Olympic (1) e dal Blackburn Rovers (5), dall’Aston Villa (3), dal West Bromich Albion (2), dal Preston North End (1), dai Wolves del Wolverhampton (1), dallo Sheffield Wednesday (1), dal Notts County (1) e proprio quell’anno, per la prima volta, dal Nottingham Forest, mentre il più recente (si fa per dire, la prima edizione nel 1888) campionato inglese, denominato FirstDivision, era un affare fra il Preston North End (2), l’Everton (1), il Sunderland (3) e campioni in carica dell’Aston Villa (3) di Birmingham. Inizialmente invece a Torino i soci fondatori del neonato sodalizio erano impegnati ad affrontare il non secondario problema della sede, risolto però dai fratelli genovesi Canfari che offrirono il retrobottega dell’officina ciclistica di proprietà del padre, in corso Re Umberto, al numero 42, dove ebbe luogo la prima riunione sociale.
Dopo una discussione accesa e molto partecipata i giovani soci selezionarono tre possibili denominazioni, fra cui votare quello che sarebbe diventato il nome della loro creatura. Una era “Società Via Fort”, il prediletto dagli studenti più classicheggianti, l’altra, caldeggiata invece dai latinofobi, era “Società Sportiva Massimo d’Azeglio” e, infine la meno quotata “Sport-Club Juventus” che alla fine – benché la maggioranza propendesse per i primi due nomi – prevalse, forse perché suonava come un elegante compromesso tra un nome anglosassone e uno latineggiante, e sembrò di certo più adatto per favorire la diffusione del nuovo sport e la passione per la squadra anche fuori dell’ambito cittadino o regionale. Mentre in Inghilterra, che da Torino si osservava con curiosità, l’irlandese Bram Stoker aveva pubblicato a Londra il suo capolavoro, il romanzo horrorDracula, che in Italia sarebbe arrivato solo nel 1922, il già famosissimo e discusso Oscar Wilde era stato rilasciato dalla prigione, e abbandonava la Gran Bretagna dove non avrebbe più fatto ritorno, e il genio italianoGuglielmo Marconi aveva brevettato la radio, sempre a Londra, e nella capitale britannica fondato la Wireless Telegraph Trading Signal Company che diventerà poi la Marconi Company Ltd, Enrico Canfari, a cui dobbiamo l’unico documento con caratteristiche di “ufficialità” attestante con sufficiente certezza la nascita e i primi anni della Juventus, scriveva che pochi simpatizzavano per il nome scelto, e che fra gli oppositori c’era proprio lui, che era il più maturo del gruppo, perché gli sembrava che quel “Juventus” più non s’addicesse ai soci una volta fattisi maturi, ma riconobbe poi di avere torto “perché nella Juventus non s’invecchia”, e proprio lui ne divenne il secondo presidente, succedendo al fratello Eugenio il quale aveva occupato il ruolo a partire dalla fondazione del club che aveva iniziato ad allenarsi sfoggiando una divisa molto semplice: una camicia bianca e lunghi pantaloni neri.
Allenamenti e primi confronti continuarono a svolgersi in prevalenza nella piazza d’armi torinese e proprio lì il giorno 11 giugno 1899 ebbe luogo la prima amichevole documentata della Juventus giocata contro la rappresentativa dell’Istituto tecnico Germano Sommeiller di Torino, sconfitto per 3-0, con tutte e tre le segnature intervenute nel secondo tempo da parte degli juventini che nel frattempo avevano adottato quella che è comunemente considerata la storica tenuta di gioco della Juventus, una camicia rosa carnicino con cravatta o farfallino nero accompagnata a pantaloni e calzettoni pure neri, introdotta dopo la sua ridenominazione del sodalizio quale Foot-Ball Club Juventus nel 1899 e originariamente adottata, date le ristrettezze economiche in cui versava il club agli albori, essenzialmente per l’esigenza di ricorrere al tessuto meno costoso disponibile sul mercato, per l’appunto il percalle rosa. Comunque questa divisa, comprendente anche voluminose cinture, che richiamavano le fasce dei giocatori di palla basca, venne sfoggiata sino all’entrata nel Novecento, e accompagnò l’esordio della Juventus nel campionato italiano del 1900, quando la squadra debuttò l’11 marzo nelle eliminatorie piemontesi perdendo 1-0 contro la FC Torinese, ma cogliendo poi il suo primo successo della storia la settimana successiva (18 marzo), superando per 2-0 la Ginnastica Torino e chiudendo il girone al secondo posto, non sufficiente per qualificarsi alla finale, dove la FC Torinese sarà poi battuta dal Genoa per 3-1 ai tempi supplementari.
Invece la stagione successiva, nell’edizione del 1901, gli juventini saranno sconfitti in semifinale dal Milan, che poi si aggiudicherà il torneo, diventando campione d’Italia per la prima volta, dopo i tre successi consecutivi del Genoa. Nel mentre le divise rosanero avevano fatto il loro tempo in casa juventina, sia perché irrimediabilmente usurate dalla pratica sportiva, sia perché il rosa era ormai visto da più parti come una tinta non conforme all’immagine che il club desiderava trasmettere. A questo punto non è più dato conoscere con certezza lo svolgimento dei fatti, che si perde nei racconti di allora, tramandati in più versioni, confusi dal tanto tempo trascorso. Si fece avanti a un certo punto un socio di nazionalità inglese, tale Gordon Thomas Savage, noto anche come John o Jim, commerciante all’ingrosso di prodotti tessili a Torino, giocatore di calcio oltreché arbitro in alcune partite ufficiali. Qualcuno racconta che Savage propose di comprare a Nottingham delle nuove divise, rosse con bordini bianchi, simili a quelle utilizzate dal Forest, la storiografia ufficiale fissa convenzionalmente al 1903 questo momento, perché nelle sue memorie Enrico Canfari racconta di «un percalle sottile e roseo che portammo, sbiadito all’inverosimile, sino all’anno 1902».
Nuove ricerche hanno ventilato l’ipotesi di retrodatare financo al dicembre del 1901 l’abbandono del rosanero e il debutto della maglia bianconera, all’amichevole contro il Milan giocata l’8 dicembre 1901 al Campo Trotter di piazza Doria a Milano, perché sulla cronaca dell’incontro riportata il giorno seguente dal quotidiano meneghino Corriere dello Sport – La Bicicletta si presenta l’ingresso dei calciatori torinesi in campo «sfoggiando i nuovi colori non più bianco e rosa ma bianco e nero». Fatto sta che, ricevuto l’incarico, Savage si mise in contatto con una fabbrica tessile di Nottingham e inviò l’ordine d’acquisto, accompagnandovi come campione la più maltrattata delle vecchie camicie rosa. Alla vista dello scolorito capo, probabilmente l’impiegato del fornitore credette che la camicia anziché rosa fosse bianca e macchiata: sicché, vista la coincidenza con i colori bianconeri della più antica compagine di Nottingham, il Notts County, uno dei più antichi club del calcio inglese, fondato nel 1862, pensò bene di spedire in Italia una dotazione di uniformi appunto dei Magpies. A Torino, quando fu aperto il grosso pacco postale, inizialmente le quindici maglie a strisce verticali bianche e nere decisamente non piacquero, ma data la prossimità degli impegni ufficiali non vi erano alternative per i soci-giocatori juventini. Vale la pena di ricordare tuttavia che Savage prima di trasferirsi in Italia in Inghilterra aveva giocato a calcio militando nel Notts County che solo pochi anni prima aveva vinto la Coppa d’Inghilterra nel 1894 ed era la sua squadra del cuore.
In ogni caso i nuovi colori porteranno fortuna e segneranno la progressiva e inarrestabile ascesa del club bianconero. Intanto il 10 aprile del 1903 per la prima volta una squadra straniera venne invitata a disputare una gara in territorio italiano, successe al Velodromo Umberto I, dove la Juventus ospitò gli svizzeri del Montriond Lausanne, e venne sconfitta per 0-1. Mentre il 13 aprile 1903 i bianconeri parteciperanno per la prima volta alla finale del campionato italiano di calcio, sul campo sportivo di Ponte Carrega a Genova, in Val Bisagno, dove saranno travolta dal fortissimo Genoa che sconfiggerà la Juventus nettamente con un perentorio 3-0. Il 1904 tuttavia qualcosa cambierà, arrivarono alla Juventus nuovi soci e in particolare i tre fratelli Alessandro, Annibale e Riccardo Ajmone Marsan che organizzeranno al meglio le “riserve” e il cui facoltoso padre Marco si impegnerà a pagare l’affitto del nuovo campo di gioco ufficiale che diventò il Velodromo Umberto I, dotato di tribune che iniziarono a riempirsi. Nel campionato italiano di Prima Categoria, dopo avere vinto le eliminatorie, per la seconda volta consecutiva la Juventus arrivò in finale contro il Genoa, perdendo tuttavia ancora una volta sull’inviolabile campo di ponte Carrega, ma questa volta con il risultato di 1-0. Nel 1905 divenne poi presidente della Juventus lo svizzero Alfred Dick, un uomo caratteriale e spigoloso, grande organizzatore e proprietario di un’industria molto bene avviata di calzature, che rinforzerà la squadra inserendo alcuni giocatori, suoi dipendenti, che renderanno la Juventus più solida. In quella stagione la società spostò la sua sede a via Donati 1 e il nuovo presidente firmò un lungo contratto di affitto per l’utilizzo del Velodromo di corso Re Umberto.
Nel campionato dello stesso anno la Juventus aveva superato il girone eliminatorio vincendo 2-0 per forfait le due partite contro la Torinese, ritiratasi dalle eliminatorie regionali. Dopo due anni in cui la vittoria fu solo sfiorata nel 1905 finalmente la Juventus riuscì a cogliere il suo primo titolo di campione d’Italia. La nuova formula delle finali nazionali metteva di fronte tutti e tre i campioni regionali, ma la sorpresa arrivò dalla Lombardia: un Milan alle prese con un ricambio generazionale, causato dall’addio di molti dei suoi fondatori inglesi, fu per la prima volta eliminato dalla US Milanese in due gare spettacolari, come sovente se ne verificavano all’epoca. Nel girone finale però la US Milanese giocò prevedibilmente il ruolo del «vaso di coccio»: infatti perse i primi tre incontri, mentre gli scontri diretti tra la Juventus e il Genoa finivano in entrambi i casi in parità, ma quando all’ultima giornata i rossoblu del Grifone accolsero la US Milanese sicuri di una facile vittoria che li avrebbe condotti allo spareggio a sorpresa non si andò oltre il pareggio, consegnando di fatto il titolo per la prima volta nella sua storia alla Juventus che così poté sollevare la Coppa Spensley, donata alla Federazione Italiana di Football dal portiere del Genoa, James Spensley, e scolpita dallo scultore genovese De Albertis. Il trofeo rimpiazzò la Coppa Fawcus, appena vinta proprio dai genovesi, e si basava sugli stessi principi, venendo consegnata a titolo provvisorio a ogni squadra vincitrice del campionato, e a titolo definitivo a chi si fosse imposto per tre stagioni consecutive oppure cinque complessive.
Gli undici giocatori della Juventus che vinsero il campionato italiano per la prima volta furono Domenico Durante, che in seguito diventerà l’illustratore del mensile Hurrà Juventus e delle campagne promozionali dei bianconeri torinesi, Gioacchino Armano, Oreste Marzia, lo svizzero Paul Arnold Walty, il capitano Giovanni Goccione, lo scozzese Jack Diment, Alberto Barberis, Carlo Vittorio Varetti, Luigi Forlano, l’inglese James Squair e Domenico Donna, quest’ultimo giocatore-allenatore della squadra che quell’anno si aggiudicò anche il torneo di Seconda Categoria, a cui partecipavano sia le squadre riserve sia le prime squadre di club non iscritte alla Prima Categoria. Gli artefici della vittoria della Juventus II furono Francesco Longo, Giuseppe Servetto, Lorenzo Barberis, Fernando Nizza, Ettore Corbelli, Alessandro Ajmone Marsan, Ugo Mario, Frédéric Dick, Heinrich Hess, Marcello Bertinetti e Riccardo Ajmone Marsan, che a coronamento di una stagione straordinaria ottennero un clamoroso successo per 2-1 sui titolari, freschi campioni d’Italia, nella partitella in famiglia al termine del stagione.
Da allora le strisce bianche e nere sfoggiate dalla Juventus e riconosciute in tutto il mondo sono diventate un simbolo di autoritàe potere, che nella storia del calcio ha pochi eguali.
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Se la città di Roma e la squadra della Roma non sono la stessa cosa intanto hanno lo stesso nome e gli stessi colori: l’identificazione quindi è fortemente legittima, quasi scientifica. Lo scrittore Sandro Bonvissuto questo concetto lo sviluppa in un libro che ogni tifoso, di qualsiasi squadra, dovrebbe leggere: La gioia fa parecchio rumore, scritto per Einaudi. Questo bel romanzo de noantri canta di un amore assoluto per la squadra del cuore e mi ha ricordato di quando avevo scoperto quello che rimane(va) del glorioso Campo Testaccio, anzi cosa non ne rimane(va): il leggendario stadio della Roma, infatti, quello “dove nessuna squadra ce passerà”, era ridotto a un cratere, come se non fosse mai esistito. Il quartiere del Testaccio, invece, seppure in continua evoluzione, è riuscito a conservare intatto il suo spirito genuino e popolare che lo rende il quadrilatero della romanità per eccellenza, oggi all’avanguardia nella produzione culturale capitolina, ma al tempo stesso capace di evocare romantiche memorie sportive: quelle della giovane Roma testaccina, squadra amatissima e gagliarda, tutta “petti d’acciaio, astuzia e core”.
A poca distanza dall’imponente Porta di San Paolo, uno dei varchi meridionali della cinta muraria aureliana, si scorge il Sepulcrum Cestii un monumento funerario singolare quanto incongruo, si tratta di una tomba a forma di piramide egizia, costruita tra il 18 e il 12 a.C. e dedicata a Caio Cestio Epulone, un ricco magistrato romano. La piramide, completamente rivestita di lastre di marmo di Carrara, dà il nome alla fermata della metropolitana che si trova al lato di piazzale Ostiense, ed oramai è inglobata nel perimetro delle mura, accanto al suggestivo Cimitero Acattolico. Il camposanto, nascosto da maestosi alberi secolari, è il luogo dove riposano per sempre i non cattolici, soprattutto britannici, come Keats e Shelley, e tedeschi, come il figlio di Goethe, e pure tanti illustri italiani: tra gli altri Gadda, Lussu, Gramsci e Camilleri, il creatore di Montalbano, che qui trascorreva molto tempo a meditare passeggiando in solitudine fra le tombe, in prossimità della piastrella che ricorda il luogo di sepoltura del gatto Romeo, già ospite della vicina colonia, un felino molto amichevole e benvoluto dai visitatori, che in vita era diventato una vera e propria mascotte.
Verso il fiume Tevere, lasciata la quiete del camposanto, si attraversa dapprima piazza Testaccio, il cuore commerciale del rione, e quindi piazza Santa Maria Liberatrice, al centro della sua verace socialità, che ospita l’unica parrocchia del quartiere, Santa Maria Liberatrice appunto, il Teatro Vittoria e un vasto giardino, dove una significativa porzione è stata ri-battezzata, a furor di popolo, piazza Francesco Totti, con tanto di segnaletica. Proseguendo la passeggiata, si raggiunge l’Emporium, dove si trovava niente meno che il grande porto fluviale dell’antica Roma: ne restano alcuni tratti molto ben conservati, incassati nel muraglione del Lungotevere Testaccio, una banchina lunga addirittura mezzo chilometro con gradinate e varchi da cui si accede(va) a due file di magazzini che si affaccia(va)no su un corridoio criptoportico. Le dimensioni dell’infrastruttura non devono sorprendere, perché qui arrivavano le merci provenienti da tutto il bacino del Mediterraneo destinate a Roma, che una volta sbarcate al porto di Ostia proseguivano il loro viaggio a bordo di zattere trainate lungo la terra ferma da grandi buoi che risalivano il Tevere fino all’Urbe, che nel II secolo d.C. con oltre un milione e mezzo di abitanti era la più grande città della storia dell’umanità.
Poco distante dall’attuale indirizzo del Roma Club Testaccio, il primo circolo dei tifosi giallorossi, fondato nel quartiere addirittura nel 1969, dopo una sosta al nuovo mercato rionale, polo gastronomico dal design minimale e contemporaneo, ci si tuffa nella storia della Roma, intesa come squadra, non solo in quella di Roma. E allora, se il tema della passeggiata diventa la squadra giallorossa, c’è un posto imperdibile da visitare, un’atmosfera da respirare: bisogna salire al Monte Testaccio, approfittando delle visite guidate i cui partecipanti si raccolgono ai piedi di quello che viene chiamato familiarmente il Monte dei Cocci. Naturalmente non è un monte, ché a Roma ci sono solo colli, bensì una vecchia discarica a cielo aperto. Già, proprio così: un enorme accumulo di materiale di scarto. Questa collina artificiale, alta poco più di 50 metri con una circonferenza di circa un chilometro, è difatti una grande area archeologica di immenso valore, formata interamente da cocci, che in latino si chiamano testae, da cui evidentemente il toponimo Testaccio. Ma da dove arrivano tutti questi cocci? Questi cocci sono nient’altro che i frammenti di oltre cinquanta milioni di anfore. Tante sono quelle utilizzate nell’arco di qualche secolo per trasportare l’olio d’oliva dalle provincie africane e iberiche fino a Roma.
Queste grandi anfore a causa della rapida alterazione dei residui d’olio un tempo contenuto all’interno, non erano più riutilizzabili e quindi andavano smaltite, come si direbbe oggi. Una volta svuotate venivano quindi frantumate a poca distanza dall’Emporium e i resti, dopo essere stati trattati con calce al fine di impedire lo sviluppo dei batteri portati dalla decomposizione del contenuto, erano accumulati gli uni sugli altri, favorendone la coesione e così raggiungendo, a partire dal X secolo, l’attuale conformazione: una collina, diventata la sede ideale dei festeggiamenti carnascialeschi, ispirati alle antiche festività romane dei Saturnali, che prevedevano addirittura la celebrazione di cruente corride concluse con la mattanza di maiali e tori, fra l’ebbrezza generale. In seguito emerse una funzione religiosa del Monte dei Cocci, che consisteva nella rappresentazione della Via Crucis fino sulla sommità del colle, come testimonia la croce in ferro che dal 1914 si trova lì. Tutta l’area che chiamiamo Testaccio ancora nel medioevo era una vasta zona soggetta alle alluvioni del Tevere, comunque malsana a causa della malaria e, pur dentro le mura, popolata da contadini, emarginati dalla città e poveri.
Nonostante il degrado che caratterizzava l’area, il territorio pianeggiante e la presenza di collegamenti fluviali e terrestri furono alla base della decisione, assunta nelle pieghe del primo piano regolatore di Roma, di prevedere le operazioni di bonifica necessarie a destinare il territorio all’insediamento di una serie di attività industriali, quali ad esempio il grande mattatoio cittadino, i mercati generali agroalimentare e ittico e il parco ferroviario. Il rione nacque quindi come propaggine residenziale destinata agli operai addetti alle attività che si andavano via via insediando lungo l’asse dell’Ostiense: in un contesto di urbanizzazione programmata, che a Roma non aveva precedenti. Lo spazio tra il Monte dei Cocci e le mura aureliane venne lasciato ad uso pubblico, consacrandolo a destinazione tradizionale delle gite domenicali e delle “ottobrate” dei romani dove il vino scorreva a volontà, e proprio la particolare conformazione della collina che permette la circolazione dell’aria al proprio interno, favoriva la conservazione dei vini, offrendo un incentivo ai residenti più intraprendenti che avviarono l’attività di numerose fraschette, le tipiche aree di ristoro e svago dei romani, e che forse sono le remote antenate dei tanti locali che ancora oggi si trovano ai piedi dell’ottavo colle e che richiamano i festeggiamenti di un tempo.
Peraltro, la crescita tumultuosa del quartiere determinò un abusivismo edilizio caotico che deturpò gran parte di quella zona un tempo destinata a prati, al punto che alla fine degli anni Venti dello scorso secolo si rese necessario un intervento di recupero. Così, all’interno di quel perimetro ai piedi del Monte dei Cocci grazie alle risorse di Renato Sacerdoti, un facoltoso imprenditore che decise di investirvi, fu realizzato il Campo Testaccio, progettato sul modello degli stadi all’inglese, in particolare quello dei campioni d’Inghilterra dell’epoca, l’Everton Football Club, il mitico Goodison Park. Una volta realizzato, ben sette ingressi si affacciavano su via Nicola Zabaglia alla base della tribuna principale lunga 112 metri e coperta nella parte centrale da una tettoia di 64 metri sorretta da 6 pilastri. Era il luogo destinato alle autorità, ai soci vitalizi e alla stampa, potendo contenere in tutto 5000 persone disposte su 21 gradoni, mentre al di sotto di essa si trovavano vari locali di servizio e gli spogliatoi da cui i giocatori accedevano al campo attraverso un passaggio sotterraneo. La tribuna opposta, denominata dei “distinti”, era lunga 120 metri, aveva 31 gradoni e poteva contenere fino a 8000 spettatori ed era dotata ai fini della sicurezza del pubblico di un impianto che, sotto il peso della folla, indicava il raggiungimento della massima capienza. Dietro le porte del campo si alzavano le gradinate definite “popolari” che erano sopraelevate di 4 metri dal suolo e lunghe 60 metri per 10 di altezza e 15 gradoni che potevano contenere circa 2000 persone ciascuna.
Fra le tribune e la rete che delimitava l’area di gioco si ricavarono poi due “parterre” leggermente inclinati lunghi ciascuno 120 metri e larghi 7 ove potevano trovare sistemazione in piedi, e quindi a un prezzo più contenuto, altri 6000 spettatori. L’impianto comprendeva anche l’abitazione del custode e dell’allenatore della squadra, un edificio sul cui muro esterno era dipinto un grande stemma della Roma, verniciato di giallo oro e rosso pompeiano. Il terreno di gioco era ricoperto da un soffice tappeto erboso dotato per l’epoca di un innovativo sistema di drenaggio, costituito da un reticolo di canaletti sotterranei che permettevano l’irrigazione e il deflusso dell’acqua piovana, mentre sotto il prato era stato collocato uno strato di carbonella, che insieme alla struttura a schiena d’asino, consentiva che non si formassero delle pozzanghere. L’ingente investimento per la costruzione della casa della Roma era stato sopportato da un personaggio centrale nella storia del sodalizio capitolino, il cosiddetto banchiere di Testaccio, Renato Sacerdoti, che ne diventerà il secondo presidente, dopo il fondatore. I prezzi erano abbastanza elevati per l’epoca, e tuttavia lo stadio che poteva contenere fino a 23 000 spettatori era spesso esaurito, mentre chi era senza biglietto saliva al Monte dei Cocci da dove si vedeva meno della metà del campo a causa della tettoia della tribuna, ma spesso si riunivano sino a 5000 persone. Tanto per dare un’idea della passione che suscitava la giovane Roma basti pensare che se il mezzo più usato all’epoca per raggiungere lo stadio era il tram, su 26 linee in funzione allora nella Capitale d’Italia ben 11 consentivano di arrivare al Campo Testaccio.
L’entusiasmo popolare e la passione travolgente per la neonata squadra capitolina hanno una spiegazione, che ci porta a ricordare e spiegare la nascita della Serie A. Infatti, erano più o meno trent’anni che in Italia si organizzavano tornei di calcio: quello che è considerato il primo vero campionato risale al 1898, venne disputato in un’unica giornata tra quattro squadre e vinto dal Genoa. Negli anni successivi i campionati inclusero più squadre, si articolarono meglio, nacquero categorie diverse, gironi regionali e successive finali sino all’ultima partita della stagione che assegnava il titolo di campione d’Italia. Il tutto sotto la lente della Federazione Italia Giuoco Calcio, la FIGC, che tuttavia non riusciva a trovare l’accordo delle società iscritte a realizzare un assetto più razionale. Il problema era inoltre che le squadre del Nord Ovest erano nettamente più forti di quelle del Nord Est, del Centro e del Sud, ed ogni edizione era in qualche modo diversa nella sua formula dalle precedenti, dal momento che allo scopo di assegnare il titolo nazionale la FIGC cercava di coinvolgere tutto il paese, organizzando degli spareggi tra le squadre vincitrici dei diversi campionati, che peraltro vedevano prevalere sempre le grandi squadre lombarde, piemontesi o liguri, che avrebbero desiderato limitare il torneo a un girone che coinvolgesse esclusivamente il Nord Italia, scatenando l’opposizione di quelle squadre più piccole che si opposero e nel 1921 si arrivò addirittura a una scissione e si disputarono due campionati diversi, uno vinto dalla Novese (quello ufficiale, con le squadre minori) e uno dalla Pro Vercelli. I due campionati furono ricomposti l’anno successivo e si adottò una soluzione di compromesso che prevedeva una Lega Nord e una Lega Sud, con una finale tra le vincitrici, ma il divario tecnico tra le due leghe era incolmabile, e a vincere era puntualmente la squadra del Nord: Internazionale, Milan, Juventus, Pro Vercelli e Genoa non avevano rivali, tanto che la prima squadra di un’altra regione a vincere il campionato sarebbe stata il Bologna solo nel 1925, mentre il primo sodalizio non del Nord sarà la Roma, addirittura nel 1942.
Nel frattempo il fascismo aveva preso il potere, tratteggiando l’idea di un campionato unico, più adatto ai sentimenti autarchici e nazionalisti propagandati dal regime. I progetti per l’unificazione delle diverse competizioni regionali erano però complicati dal fatto che, oltre alla prima divisione, l’impianto del campionato di calcio doveva prevedere strutture simili anche per le divisioni minori, a cui partecipavano squadre piccole per cui era logisticamente difficile, o impossibile, prendere parte a campionati di maggiori dimensioni e ambizioni. Tuttavia una scintilla venne in soccorso del regime e fornì il pretesto necessario a legittimare un intervento radicale. Infatti una grave crisi di sistema aveva colpito il mondo del calcio e quasi travolto la FIGC nel 1926, quando giunse al termine un campionato (per la cronaca, vinto dal Torino e poi revocato per una presunta frode che avrebbe determinato un dirigente granata a comprare un derby poi vinto dal Toro 2 a 1 contro la Juventus) rovinato dalle cosiddette “liste di ricusazione”, ovvero sia elenchi stilati dai club che ponevano all’indice arbitri a loro non graditi. Proprio lo sciopero arbitrale che ne seguì portò di fatto il regime, tramite il presidente del CONI dell’epoca Lando Ferretti, ad organizzare una speciale commissione cui venne dato l’incarico di riorganizzare il calcio italiano, nel frattempo ammorbato da sospetti e violenze, che culminarono nella finalissima fra Genoa e Bologna dell’anno precedente, detta “delle pistole”, e vinta alla quarta ripetizione della sfida dai felsinei, in un clima inaudito. Riunitisi in Versilia, in una sala del municipio di Viareggio, e alla presenza dell’on. Leandro Ferretti presidente del CONI, la speciale commissione composta da Paolo Graziani, Italo Foschi e Giovanni Mauro, presidente dell’Associazione Italiana Arbitri, redasse un documento che venne pubblicato ed approvato dal CONI il 2 agosto del 1926: la cosiddetta “Carta di Viareggio”, che rivoluzionò in maniera sostanziale il calcio italiano, fino ad allora formalmente sport dilettantesco. Con quel documento, per iniziare, si riorganizzò la classe arbitrale, si approvò il professionismo e si cercò di disciplinare il calciomercato.
Venne inoltre ristrutturata la FIGC il cui presidente era Leandro Arpinati, vicesegretario del Partito Nazionale Fascista, e si stabilì di procedere all’organizzazione di un vero e proprio campionato nazionale. Attraverso la “Carta di Viareggio” si dispose fu la chiusura delle frontiere, ispirata dalle idee nazionalistiche propugnate dal fascismo questa decisione colpì duramente i club, che all’epoca contavano più di ottanta calciatori provenienti dall’estero, per lo più da quella Scuola Danubiana che vedeva in austriaci ed ungheresi gli esponenti più illustri, e non piacque ai proprietari più facoltosi di quelle squadre già allora disposte ad effettuare investimenti importanti pur di sopravanzare i propri rivali. Ecco quindi che proprio in risposta all’autarchizzazione del calcio italiano vennero “inventati” gli oriundi. A convincere Benito Mussolini a riconoscere la possibilità di tesserare calciatori figli della “grande Italia al di là degli Oceani” fu Edoardo Agnelli, che di fatto chiese la “grazia” per i figli dei tanti emigrati all’estero nel corso dei decenni precedenti. Così subito dopo che si era arrivati ad annullare il contingente straniero in terra d’Italia, come previsto dalla “Carta di Viareggio”, ecco riaprirsi uno spiraglio nelle frontiere del calcio italiano: nel 1929 furono subito undici gli “stranieri” – ma d’origine nostrana – cui fu permesso di venire a giocare nel Belpaese. Fatta la legge trovato l’inganno, nella migliore tradizione italica.
La ristrutturazione su scala nazionale dei campionati non poteva avvenire in molte realtà locali sulla base delle società esistenti, e non sarà priva di conseguenze, specialmente nelle città del Sud dove vi era una pletora di società di modeste dimensioni e seppure molto amate insignificanti dal punto di vista tecnico. In particolare i maggiori nuclei urbani del Centro-Sud, non esprimevano una singola società che potesse neanche lontanamente competere con i grandi club del Nord. In Toscana ad esempio il calcio si era sviluppato soprattutto lungo la costa a Livorno e Pisa, mentre il capoluogo era sportivamente in ombra, e così pure grandi città come Napoli, Taranto e Bari. Anche nella Roma tanto cara al regime dall’inizio del secolo si era formata una gran quantità di squadre, ma le uniche in grado di imporsi erano la Lazio, l’Alba e la Fortitudo, capaci di vincere in varie occasioni il campionato meridionale ma troppo lontanate dalle squadre del Nord per poterle anche solo impensierire. Quindi per favorire la nascita del campionato nazionale organizzato sulla base di un girone unico, appunto detto all’italiana, dove ogni squadra avrebbe incontrato tutte le altre in casa propria e al loro domicilio allo scopo di determinare la più forte di tutte, si diede avvio a una consistente serie di fusioni fra società della stessa città e nacquero in quegli anni la Fiorentina, il Napoli, la Dominante, che poi si chiamerà Liguria a Genova, il Bari e il Taranto in Puglia, la Fiumana nella città di Fiume, l’Ambrosiana dalla fusione fra l’Internazionale e l’Unione Sportiva a Milano e la Roma.
Il neonato sodalizio capitolino era il risultato della fusione concordata dai dirigenti delle tre società calcistiche che raggiunsero l’intesa: il comm. Italo Foschi, presidente della Fortitudo Pro Roma e promotore della fusione, l’on. Ulisse Igliori, protagonista dell’impresa di Fiume e della Marcia su Roma, squadrista, poi imprenditore e costruttore, presidente dell’Alba Audace, e l’avv. Vittorio Scialoja, raffinato giurista, già ministro della Giustizia e degli Esteri, presidente dell’ Accademia dei Lincei, del Consiglio Nazionale Forense e del Foot Ball Club Roman, che a loro volta avevano aggregato una dozzina di società sportive sorte dal 1900 in avanti e quindi portatrici di un pubblico appassionato e sincero. I colori scelti per caratterizzare la nuova Associazione Sportiva, che nasceva nell’estate del 1927 col nome di Roma, furono il giallo oro e il rosso pompeiano del gonfalone cittadino e il simbolo adottato non poteva che essere la lupa capitolina mentre allatta Romolo, il fondatore di Roma, e suo fratello Remo. Il primo presidente del nuovo sodalizio sarà proprio Foschi che dopo aver pilotato politicamente l’intera operazione, destinato dal regime ad altri incarichi civili lontano da Roma, lascerà lo scranno presidenziale a Renato Sacerdoti, industriale del settore alimentare, un contrabbandiere per i suoi detrattori, certamente un uomo ambizioso e, come il suo predecessore, visceralmente innamorato della Roma, e impegnato nell’impresa di allestire una squadra in grado di competere con gli squadroni del Nord del paese, per questo affidata all’allenatore inglese William Garbutt, il mister per antonomasia, uno dei più prestigiosi e competenti tecnici dell’epoca, che aveva vinto tutto, battendo ogni record, alla guida dell’invincibile Genoa della prima metà degli anni Venti, e che condurrà la neonata Roma alla vittoria della prestigiosa Coppa CONI nel 1928.
acquistando Rodolfo Volk, ottimo centravanti istriano dalla Fiumana, Guido Masetti, eccellente portiere fra i migliori d’Italia dal Verona, e uno dei giocatori più forti dell’epoca, forse il migliore centrocampista del momento, Fulvio Bernardini dall’Inter, che insieme ad Attilio Ferraris IV, primo nazionale e capitano giallorosso, costituirà una coppia affiatata quanto carismatica, il presidente Sacerdoti permetterà alla Roma di contendere la vittoria finale nel campionato 1930/31 alla fortissima Juventus di Edoardo Agnelli, che avrebbe dominato la Serie A per le successive cinque stagioni: il quinquennio d’oro bianconero appunto. Tuttavia il presidente giallorosso non si era perso d’animo e incoraggiando i suoi collaboratori il 1º maggio del 1933 disse loro “Ora possiamo puntare al titolo!”, infatti dopo essere sbarcati al porto di Genova provenienti dal Sudamerica, quella stessa sera arrivarono alla stazione Termini, accolti dai tifosi romanisti in delirio Enrique Guaita e Alejandro Scopelli dall’Estudiantes de la Plata e Andrés Stagnaro dal Racing Club de Avellaneda, acclamati come fra i migliori oriundi in circolazione. Dopo qualche amichevole per integrarsi in un organico già rodato soprattutto Enrique Guaita esploderà letteralmente, conquistando tutti: il 24 settembre 1933 la Roma all’esordio in campionato vincerà a Firenze per 3-1 e l’argentino, oltre a realizzare una doppietta, manderà in visibilio il pubblico con giocate da fuoriclasse.
Guaita inizia a segnare a raffica e diventa lo “spavento delle difese” mentre la Roma terminerà quel campionato solo al quinto posto, dopo il secondo e il terzo degli anni precedenti. Intanto il commissario tecnico della Nazionale, Vittorio Pozzo, arruola proprio l’oriundo Guaita fra gli azzurri, nonostante le 14 presenze già collezionate con la selezione argentina, e la scelta si rivelerà quanto mai azzeccata: il contributo di Guaita, ribattezzato Enrico, risulterà infatti determinante al successo azzurro nei Mondiali di casa del 1934, realizzando il gol decisivo in semifinale contro l’Austria – il fortissimo Wunderteam che aveva superato l’Italia vincendo nel 1932 la Coppa Internazionale – nonché il decisivo assist per Angelo Schiavio, che confezionerà poi la rete della vittoria nella finale con la Cecoslovacchia. L’argentino è ormai un idolo indiscusso del popolo romanista, terminale offensivo implacabile di una squadra che voleva diventare protagonista del calcio italiano. Nel campionato successivo al Mondiale che porterà la Roma al quarto posto, Guaita sarà capocannoniere del torneo con 28 reti in 29 partite (un record ancora imbattuto nei tornei a 16 squadre), e protagonista di imprese memorabili come i tre gol al Torino con cui la Roma espugnerà il Filadelfia o quello a Milano che stenderà l’Inter in casa, o ancora quelli rifilati al Livorno che verrà polverizzato e che gli varranno il soprannome di “Corsaro Nero”, a motivo della maglia utilizzata dalla Roma in diverse occasioni, completamente nera e agitata dalle movenze grintose e veloci dell’argentino.
I tifosi giallorossi erano estasiati dai colpi dell’attaccante ed eccitati dalla possibilità di competere con le rivali per la vittoria dello scudetto, e il presidente Sacerdoti ci credeva davvero al punto di rafforzare ulteriormente la squadra. All’esito della campagna acquisti estiva arriveranno in giallorosso Eraldo Monzeglio dal Bologna e Luigi Allemandi dall’Ambrosiana-Inter, i due terzini della Nazionale. La Roma è ormai pronta, e in molti la candidano come grande favorita del campionato che sta per incominciare, ma a due giorni dall’esordio nel torneo succede l’imprevedibile: i tre argentini della Roma fuggono dall’Italia. Era successo che all’esito della visita di leva – obbligatoria avendo acquisito anche la cittadinanza italiana – i tre erano stati dichiarati abili e arruolati nel corpo dei Bersaglieri. Si trattava di una prassi in realtà ma da quel momento Guaita, che aveva appena ricevuto un considerevole aumento di ingaggio, Scopelli e Stagnaro iniziarono a temere seriamente di dover partire per l’Africa nel contingente italiano diretto in Etiopia ed Eritrea e non credettero alle rassicurazioni della Roma, preferendo la fuga anche a costo di risultare come disertori e non potendo così più tornare non Italia. I calciatori romanisti, si presentarono all’ambasciata dell’Argentina e partirono in automobile per la Liguria e in treno arrivarono in Francia a Marsiglia, imbarcandosi da lì per il Sudamerica su un bastimento merci.
Con la fuga degli argentini, la Roma venne a trovarsi in una situazione di gravissima difficoltà, stante la mancanza della prima punta e del centrocampista offensivo più forte forse del calcio italiano. Ad aggravare la situazione anche la pratica impossibilità di intervenire con qualche acquisto mirato, visto che la campagna acquisti era ormai conclusa: la soluzione andava trovata all’interno dell’organico. Luigi Barbesino non si lasciò travolgere né scoraggiare: in un primo momento l’allenatore giallorosso cercò di ovviare alla bisogna, inserendo un terzino al centro dell’attacco, per poi provare altre soluzioni anche se con scarsi risultati. Per tutto il girone di andata e nella fase iniziale del girone di ritorno la Roma fu condizionata dalla scarsa vena offensiva della squadra che tuttavia si concentrò sulla solidità della difesa dove giganteggiarono Masetti, Monzeglio e Allemandi e De Micheli. A quel punto, l’allenatore giallorosso decise di buttare nella mischia il giovanissimo Dante Di Benedetti, un attaccante del tutto privo di esperienza che tuttavia ripagò la fiducia del mister nel migliore dei modi, mettendo a segno 7 reti nelle 13 partite disputate e conferendo al reparto offensivo l’efficacia necessaria. Col suo innesto la Roma risolse d’incanto i propri problemi offensivi, e spinta dal suo pubblico, nel fortino di Campo Testaccio, inanellò una serie di risultati che la portarono a scalare imperiosamente la classifica, tanto da insidiare il primo posto del Bologna che, infine, riuscì ad avere la meglio per un solo punto vincendo lo scudetto che anche in questo caso la Roma aveva sfiorando, perdendolo beffardamente.
Il Campo Testaccio era il tempio del tifo romanista, dove la passione vivace del popolo giallorosso esplodeva insieme al carattere vigoroso della squadra, tanto che quella leggendaria Roma testaccina è legata in modo indissolubile allo stadio dove si esibiva e imponeva alle avversarie “la legge del Testaccio”, se è vero che dalla partita inaugurale del 3 novembre 1929, vinta 2-1 contro il Brescia, all’ultima gara disputata nel quartiere il 2 giugno 1940, vinta 3-1 contro il Novara, la Roma lì disputerà in poco più di dieci anni 214 partite, fra campionato e coppa nazionale, concludendone la metà senza subire gol dagli avversari, perdendone 30, pareggiandone 34 e vincendo in ben 150 occasioni. In effetti, quando la squadra capitolina usciva dalla botola del sottopassaggio per entrare in campo, le tribune di legno vibravano di un entusiasmo talmente intenso che si diffondeva ai giocatori portandoli ad uno stato di ebrezza agonistica che rimase proverbiale, perché i calciatori sentivano una responsabilità in più: quella dell’appartenenza. Negli spogliatoi Attilio Ferraris IV, il mitico capitano, nonché primo giocatore della Roma a vestire la maglia azzurra della Nazionale italiana, lo ricordava a tutti, quando, mani sul pallone e sguardo fisso negli occhi dei compagni, recitava la formula consolidata del giuramento con la squadra, prima di guidarla in campo: «Chi s’estranea dalla lotta è un gran fijo de ‘na mignotta».
E ci sono gesta di quel tempo che assurgono a leggenda. La sfida Roma contro Juventus del 15 marzo del 1931 è uno di questi casi. Il 15 marzo è un giorno speciale per la storia di Roma antica: sono infatti le Idi di marzo, quando nel 44 a.C., Caio Giulio Cesare viene pugnalato a morte da un manipolo di senatori congiurati scatenando la guerra civile. Invece, tornando al calcio, a solo quattro anni dalla fusione che aveva portato alla nascita del sodalizio giallorosso, per la prima volta, la Roma poteva covare ambizioni tricolori, in quel 1931 le squadre più forti erano i campioni in carica dell’Ambrosiana-Inter dove giocava Giuseppe Meazza, il più forte giocatore italiano dell’epoca, capocannoniere implacabile e Balilla per antonomasia, il Bologna che aveva già conquistato due campionati negli anni precedenti e stava consolidando quel gruppo che sarebbe diventato lo squadrone che tremare il mondo fa, il Genoa e il Torino che stavano esaurendo il loro ciclo di successi degli anni venti – due campionati i rossoblu e uno i granata del trio delle meraviglie – ma erano ancora molto competitive e naturalmente la Juventus che sotto l’egida di Edoardo Agnelli aveva allestito una compagine straordinaria che saprà vincere i successivi cinque campionati inaugurando proprio quell’anno un lungo periodo di supremazia assoluta della squadra bianconera, ossatura della Nazionale italiana vincitrice due volte della Coppa del Mondo nel 1934 e nel 1938 e dell’Olimpiade nel 1936, sotto la guida di Vittorio Pozzo.
C’è grande attesa nella Capitale per un evento mai vissuto prima, lo si attende “cor core acceso”. Non solo è una sfida d’alta classifica, la Juventus infatti si presenta nella Capitale all’incontro valevole per la ventiduesima giornata con 5 punti di vantaggio sulle inseguitrici Roma e Bologna, è qualcosa di più: la Roma infatti non era mai riuscita a vincere contro la Juventus, è una possibilità di riscatto contro la supremazia del Nord nei confronti del resto del paese, è la sfida fra l’energia popolana della giovane squadra romanista composta quasi esclusivamente da romani e l’aristocratica rivale per eccellenza, la squadra più facoltosa e ambiziosa, espressione dell’antica capitale sabauda, contro la nuova capitale d’Italia. Per l’occasione l’allenatore dei giallorossi, l’inglese Burgess, cultore di un calcio dinamico e pragmatico, studiò una mossa per arginare l’ala sinistra bianconera Mumo Orsi, il più temibile degli avversari, spostando nella posizione di mediano laterale destro il capitano giallorosso Tilio Ferraris IV che in linea con il suo carattere spavaldo si impegnò solennemente coi tifosi: “Domani Orsi nun deve beccà palla.” E i tifosi puntuali accorsero riempiendo come sempre al Campo Testaccio, 25 000 presenza si dice, e un paio di migliaia di appassionati sul Monte dei Cocci crearono una cornice di pubblico mai vista prima, in un’atmosfera d’attesa quasi morbosa: sventolavano fazzoletti, spiccavano ovunque macchie sgargianti di giallorosso, e scintille di elettricità si sprigionavano da ogni parte, mentre la folla continuava ad affluire compatta al Testaccio. La Juventus schierava Combi, Rosetta, Caligaris, Barale, Varglien, Vollono, Munerati, Cesarini, Vecchina, Ferrari, Orsi e la Roma rispondeva con Masetti, De Micheli, Bodini, Ferraris, Bernardini, D’Aquino, Costantino, Fasanelli, Volk, Lombardo e Chini.
Ed ecco che la partita è da poco iniziata, ma sospinta da un tifo immenso la Roma passa subito in vantaggio, già al 6’ infatti quando Ferraris IV allunga al fiumano Volk, segue il passaggio di quest’ultimo a Lombardo che lascia partire una sassata e palla in rete! La Juventus tenta una reazione ma il punteggio rimane invariato sull’1-0 sino alla fine del primo tempo. Alla ripresa delle ostilità è ancora la Roma ad andare in rete al 50’: Costantino salta Caligaris e centra rapidissimo a Volk, il primo grande attaccante della storia della Roma, ribattezzato Sciabbolone per i suoi tiri potentissimi, che nella circostanza infila l’angolo alto con un colpo “de testa da fa ‘ncantà”, e così il risultato diventa 2-0, mentre Testaccio esplode in una gioia mai vista prima, del resto con la Juventus i giallorossi non avevano vinto mai, bensì perso in quattro occasioni e pareggiato una volta. I bianconeri non ci stanno e la partita, giocata senza risparmio di colpi duri, s’incattivisce ulteriormente. Cesarini si scontra con Fasanelli e il capitano Ferraris IV si butta nella mischia per difendere il compagno ma viene sgambettato e finisce a terra, cercando poi un contatto non proprio amichevole con Cesarini e così l’arbitro per non sbagliare li espelle entrambi. Al 62’ Caligaris intercetta con le mani un pallone destinato in rete, è rigore e si incarica della battuta Fulvio Bernardini che senza esitazioni tira e fa 3-0. A questo punto il capitano Ferraris IV, che non era rientrato negli spogliatoi ma era rimasto semi-nascosto accomodandosi sulle scale dentro la “buca” dell’ingresso al campo, perché voleva incoraggiare i compagni, facendo capolino, si liberò di coloro che cercavano di trattenerlo per entrare in campo a baciare “Furvio nostro” Bernardini, due icone del calcio giallorosso. La Roma è in trance agonistica mentre la Juventus è alle corde, con un guizzo al 79’ Fasanelli sfrutta un errato retropassaggio della difesa bianconera e insacca agevolmente per il 4-0 mentre all’87’ arriva il definitivo 5-0, in seguito ad un’azione travolgente del duo De Micheli e Costantino, con cross a Bernardini che insacca perentorio: “Cari professori appatentati sete belli e liquidati perché Roma ce sa fa”.
Quel successo avvicinò i giallorossi a soli tre punti dalla Juventus capolista, che quel campionato lo vincerà comunque, in ragione di qualche passaggio a vuoto degli inseguitori dovuto anche ai provvedimenti disciplinari che indebolirono la Roma, squalificandone diversi giocatori, dopo un infuocato derby di maggio pareggiato 2-2 contro la Lazio e terminato in rissa a causa degli schiaffi che volarono fra il difensore romanista De Micheli e niente meno che il presidente della società biancoceleste, il generale Vaccaro. Tuttavia quella goleada inflitta alla Juventus a corredo della prima vittoria contro i bianconeri, ispirò il regista romano Mario Bonnard, tanto è vero che l’anno successivo nel 1932 uscirà nelle sale cinematografiche “Cinque a zero” la prima pellicola cinematografica italiana a parlare di calcio. Il cinema e il calcio intrattengono rapporti a far data da un film inglese del 1911, “Harry the Footballer”, un cortometraggio muto diretto da Lewin Fitzhamon. Quella fu la prima opera di finzione che si conosca mai realizzata sul calcio e fu di fatto la prima rappresentazione cinematografica di questo sport. Tutt’altro che memorabile, verosimilmente. Una stella del calcio è rapita dalla squadra avversaria, finché viene liberato dalla sua ragazza, appena in tempo per giocare una partita e segnare il gol della vittoria. Distribuito dalla Hepworth, il film uscì nelle sale britanniche nell’aprile del 1911, e sappiamo che venne distrutto nel 1924 dallo stesso produttore, Cecil M. Hepworth, che trovandosi in gravi difficoltà finanziarie giunse a tanto per poter recuperare il nitrato d’argento della pellicola. “Cinque a zero” invece è una commedia di circa 70 minuti che racconta del presidente di una squadra di calcio, interpretato da Angelo Musco, all’epoca attore di gran successo, preoccupato perché il capitano della sua squadra è distratto, nella pellicola l’attore Osvaldo Valenti, uno dei protagonisti della cinematografia italiana del ventennio fascista, perché innamorato di una cantante del varietà, interpretata da Milly, pseudonimo di Carolina Mignone, all’epoca conosciuta soubrette d’avanspettacolo. Naturalmente tutto si riconcilierà in un classico lieto fine, addirittura con la conversione della moglie del presidente che si appassionerà al calcio, mentre la squadra del marito trionferà con un largo 5-0, per l’appunto.
Il film fu girato negli stabilimenti della Caesar Film di Roma ed memorabile anche perché alle riprese parteciparono Attilio Ferraris IV, Fulvio Bernardini, Arturo Chini, Bruno Dugoni, Fernando Eusebio, Casare Augusto Fasanelli, Guido Masetti, Attilio Mattei e Rodolfo Volk, impersonando se stessi. Purtroppo questo documento è introvabile dal momento che sono andate distrutte le poche copie conservate, ed è quindi praticamente invisibile. Bonnard, però, non fu l’unico a essere folgorato da quella squadra, capace di tante imprese. Infatti il paroliere Antonio Castellucci le dedicò una canzone, anzi, la “Canzona”, con la “a”, riadattando il tango “Guitarrita” prendendone le note e plasmandole con i nomi dei calciatori romanisti scesi in campo quel 15 marzo. Nasce così all’epoca “La Canzona di Testaccio” che non è frutto di quella creatività collettiva che risiede nelle curve e che tanti capolavori ha regalato alla cultura sportiva italiana, ma che grazie ad una felice intuizione ed alla determinazione di Sandro Ciotti. che consente alle giovani generazioni di conoscere i miti di una Roma bellissima, spesso presa a modello di tenacia e gagliardia, inno arrivato sino a noi.
Infatti l’attuale traccia musicale facilmente rintracciabile su internet non è quella originale ma una versione registrata da Vittorio Lombardi per il popolare radiocronista e giornalista sportivo che l’aveva sentita canticchiare da Aldo Donati, centrocampista di quella Roma testaccina, mentre raccoglieva la sua testimonianza per il documentario sonoro e fotografico del 1980 intitolato “La Roma racconta”. All’interno Sandro Ciotti voleva inserire una rivisitazione della “Canzona di Testaccio” ma si rese conto che non ne esisteva nessuna registrazione. Si rivolse quindi al romano Vittorio Lombardi, un musicista che si era affermato negli anni Sessanta, e che diede la sua disponibilità. La fretta era tanta che Ciotti non volle prenotare uno studio di registrazione, ma raggiunse Lombardi al “Capriccio” una traversa di Via Veneto la sera stessa per incidere il brano direttamente al registratore, ed è proprio il caratteristico fruscio a dare al brano quell’effetto che lo fa sembrare originale. Grazie alla felice intuizione di Ciotti, quel riadattamento di Castellucci è diventato una delle più esaltanti colonne sonore della curva romanista.
Nel 1981, prima di un Roma-Juventus, viene esposto dalla Sud uno striscione a tutta curva: “Roma, Testaccio ti guarda”. E non dovrebbero occorrere altre motivazioni, per gettare il cuore oltre l’ostacolo.
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Gli anni Ottanta sono stati un’epoca considerata superficiale a motivo di uno stile di vita frivolo, teso al raggiungimento della felicità individuale e dell’affermazione personale. L’esatto opposto del decennio precedente – gli anni Settanta – ricordato come un periodo di grande impegno politico e, sebbene attraversato dalla degenerazione dell’ideologia e dal terrorismo, prolifico di pensieri desiderosi di cambiare il destino di un’intera generazione. In particolare, il passaggio dai Settanta agli Ottanta comportò in Italia una cesura brutale, a cui ci si riferisce definendola riflusso, per comprendere la quale occorre fare un passo indietro, ai Sessanta. Quelli furono gli anni del miracolo economico, quando si propose per la prima volta, dal punto di vista politico, il superamento del centrismo, attraverso l’allora inedita alleanza tra il partito della Democrazia cristiana (Dc) e il Partito socialista (Psi). La novità, a quel tempo rivoluzionaria e dalla portata storica, fu permessa dalla somma di una serie di fattori esterni. Intanto era mutato il quadro internazionale, e in quel momento se non una distensione nei rapporti tra l’Occidente e il blocco sovietico c’era un dialogo. Infatti dopo le lunghe lotte per il potere seguite alla morte di Iosif Stalin, NikitaChruščëv divenne il capo dell’Unione Sovietica e fu il primo segretario del Partito comunista dell’URSS a denunciare pubblicamente i crimini staliniani, dando avvio alla cosiddetta destalinizzazione, e il primo leader sovietico a visitare gli Stati Uniti, con cui intese stabilire dal 1958 un rapporto di pacifica, sebbene competitiva, coesistenza. In quello stesso anno al soglio pontificio era salito Giovanni XXIII, il papa buono, che aveva ammorbidito la posizione della Chiesa e quindi dei cattolici impegnati nella politica nostrana, nei confronti dei socialisti, i quali a loro volta erano andati acquisendo sempre più autonomia allontanandosi dal Partito comunista italiano (Pci), condannandolo quindi irrimediabilmente all’opposizione parlamentare. Intanto anche negli Stati Uniti gli americani avevano scelto di voltare pagina: nel 1961 era stato eletto presidente John Fitzgerald Kennedy, brillante e cattolico, il giovane leader chiese alle nazioni del mondo di unirsi nella lotta contro i comuni nemici dell’umanità, la tirannia, la povertà, le malattie e la guerra.
Fu quindi con il primo governo del democristiano Aldo Moro che si realizzò nel 1963 in Italia un esecutivo di centro-sinistra generando nell’opinione pubblica, a torto o a ragione, l’auspicio di una stagione nuova di grandi riforme in grado di accompagnare i progressi realizzati in campo economico negli anni del boom. Non sarà così, purtroppo. Infatti, mentre l’Inter, la Grande Inter presieduta dal petroliere milanese Angelo Moratti, guidata in panchina dall’allenatore argentino Helenio Herrera, detto il Mago, si affermava in Italia e in Europa come una delle migliori squadre di sempre, laureandosi fra il 1963 e il 1966 per tre volte campione d’Italia e per due consecutive campione d’Europa, vincendo la Coppa dei Campioni, contro gli spagnoli del Real Madrid e i portoghesi del Benfica, e campione del Mondo, vincendo la Coppa Intercontinentale, per due volte contro gli argentini dell’Independiente de Avellaneda, il governo del Belpaese stentava, offrendo risultati modesti o almeno percepiti come tali. Furono create grandi aziende pubbliche, ma queste risultarono poco produttive, molte delle riforme annunciate non furono realizzate o furono realizzate ma delusero le aspettative di quella parte dell’opinione pubblica che le reclamava a gran voce. Così fu ad esempio per la tanto attesa riforma della scuola, e proprio lì ebbe inizio e si radicò negli anni successivi il cosìddetto Sessantotto: la protesta dei giovani contro una società percepita come classista, profondamente ingiusta e reazionaria, sia nella mentalità che nel costume. Gli studenti sommarono le loro mobilitazioni a quelle operaie, che peraltro ottennero migliori condizioni salariali e lavorative, quale anticipazione di quanto sarebbe avvenuto nel 1970 con l’introduzione dello Statuto dei lavoratori che riconosceva il diritto di assemblea, di organizzazione sindacale e di difesa in caso di ingiusto licenziamento, mentre le contestazioni sessantottine ottenevano la liberalizzazione dell’accesso all’università per tutti i diplomati, eliminando nel 1969 la così detta riforma Gentile che subordinava quale condizione imprescindibile per iscriversi agli studi superiori il possesso della maturità classica.
L’espressione anni di piombo richiama efficacemente l’atmosfera plumbea che avvolgeva le città italiane nella seconda metà degli anni Settanta. Diventerà familiare, purtroppo, e tuttavia non è autoctona, derivando invece dalla traduzione dell’omonimo film, premiato a Venezia nel 1981 con il prestigioso Leone d’oro: Die bleierne Zeit (letteralmente, appunto, “Gli anni di piombo”), pellicola della regista e sceneggiatrice tedesca Margharete Von Trotta, ispirata alla vicenda storica delle sorelle Christiane e Gudrun Ensslin. Gudrun, in particolare, fu una terrorista tedesca, cofondatrice insieme ad Andreas Baader, Horst Mahler e Ulrike Meinhof del gruppo armato di estrema sinistra Rote Armee Fraktion(RAF), responsabile di numerose operazioni terroristiche condotte nella Germania occidentale. In particolare, nel 1977 si arrivò ad una vera e propria crisi nazionale conosciuta con il nome Deutscher Herbst (“Autunno tedesco”, appunto), espressione mutuata anche in questo caso da una pellicola cinematografica: Deutschland im Herbst (“Germania in autunno”). Un film collettivo prodotto nel 1978 per iniziativa di una cooperativa di autori tedeschi, che intendevano così esprimere la loro preoccupazione per le restrizioni degli spazi di libertà e di confronto culturale, conseguenti all’emergenza terrorismo, con la pretesa di definire l’atmosfera politica di allora. La RAF, conosciuta dal pubblico semplicemente come la banda Baader-Meinhof, uccise comunque 33 persone, principalmente tra figure di spicco in campo politico ed economico. Un’azione in particolare fece scalpore: il sequestro, dopo un sanguinoso agguato terminato con la morte dei quattro uomini della sua scorta, di Hanns-Martin Schleyer, un alto ufficiale delle Schutzstaffel (SS) ai tempi nazismo, riciclatosi nel dopoguerra come autorevole esponente del Christlich Demokratische Union Deutschlands (CDU), il partito politico di orientamento democratico-cristiano e conservatore che attualmente esprime la leadership di Angela Merkel. Schleyer all’epoca del sequestro era l’onnipotente presidente della Bundesverband der Deutschen Industrie (BDI), la confederazione che raggruppa tutte le federazioni di settore dell’industria tedesca, omologa della Confindustria italiana. Trascorsi quarantatré giorni di prigionia fu ucciso e fatto trovare cadavere il 18 ottobre 1977 in Francia, nel bagagliaio di un’auto, poco oltre il confine tedesco, fu il tragico epilogo di un’azione che ha molto in comune con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, che sarebbe avvenuta solo pochi mesi più tardi in Italia. Anche se più conosciuta, e quasi leggendaria nell’immaginario collettivo per le sue azioni di guerriglia urbana, la RAF condusse meno attacchi terroristici rispetto alle Revolutionäre Zellen (RZ), una formazione ben più attiva e spietata, responsabile di 296 attentati fra il 1973 e il 1995.
In quegli anni Settanta, per somma di risultati, continuità di rendimento e spettacolarità, il Borussia Mönchengladbach è stato forse la squadra di calcio più ammirata nell’arco del decennio, anche più del Bayern di Monaco di Baviera, per tre stagioni vincitore della Coppa dei Campioni. All’epoca queste due formidabili squadre tedesche imperversavano in patria e in Europa, e solo dopo di loro arriveranno il Liverpool di Bob Paisley e il Nottingham Forest di Brian Clough, che vinceranno nei successivi cinque anni la Coppa dei Campioni, tre volte i primi, due volte i secondi. Bisogna fare una premessa peraltro, per spiegare l’ammirazione manifestata verso il sodalizio renano. Infatti anche se anche il Bayern all’epoca sorprese era pur sempre il club espressione di una grande realtà economica e sociale prima che sportiva: niente meno che Monaco di Baviera. Diversamente prima che i Fohlen-Elf (“I puledri”) arrivassero al successo, la gente non sapeva neppure dove fosse la città di Mönchengladbach, tanto che molti all’estero pensavano che il luogo fosse Borussia! Eppure quella squadra di giovani fuoriclasse che annoverava tra gli altri campioni del calibro di Jupp Heynckes, Horst Köppel, Günter Netzer, Uli Stielike, Berti Vogts e Herbert Wimmer, allestita e guidata dal carismatico tecnico Hennes Weisweiler, tra il 1970 e l’autunno caldo del 1977 vincerà ben cinque volte la Bundesliga, il massimo livello del campionato tedesco, una Coppa di Germania e due volte la Coppa UEFA, perdendo invece solo in finale la Coppa dei Campioni, proprio contro gli inglesi del Liverpool, e la Coppa Intercontinentale, contro gli argentini del Boca Juniors, giocata al posto dei Reds inglesi, mentre, sempre nel 1977, uno dei suoi giocatori più rappresentativi, Allan Simonsen, vincerà l’ambito Pallone d’oro creato dalla prestigiosa rivista sportiva France Football nel 1956 e attribuito – dopo che l’anno prima era toccato a Franz Beckenbauer, uno dei più grandi giocatori della storia del calcio, capitano del Bayern Monaco e della Nazionale tedesca, campione del mondo nel 1974 – all’attaccante danese, l’unico calciatore ad aver segnato nelle finali delle tre maggiori competizioni europee, che all’epoca erano la Coppa dei Campioni, la Coppa UEFA e la Coppa delle Coppe.
Sul finire degli anni Sessanta il miglioramento del tenore di vita rese per molti più difficile percepire il peggioramento della situazione economica, che faceva da sfondo alle proteste giovanili del Sessantotto. Intanto gli italiani impararono cosa fosse la moviola che avrebbe cambiato per sempre la loro domenica sera e in conseguenza di ciò il loro lunedì mattina. Moviola era in verità il nome di un sistema elettromeccanico utilizzato per la visione rallentata di filmati cinematografici allora scopo ad esempio di consentire ai montatori di studiare le singole inquadrature, permettendogli di scegliere i punti di taglio più adatti. Il pomeriggio del 22 ottobre 1967 a San Siro si giocava la stracittadina tra i nerazzurri dell’Inter e i rossoneri del Milan, colloquialmente detta derby della Madonnina, dalla caratteristica statua della Madonna Assunta posta in cima al Duomo di Milano. L’Inter era in vantaggio per 1-0 fino a quando Gianni Rivera con un tiro dei suoi colpiva la traversa nerazzurra e la palla rimbalzava in campo vicino alla linea bianca, in prossimità della quale l’interista Tarcisio Burgnich in rovesciata la allontanava. L’arbitro, immediatamente assediato dai giocatori rossoneri, si consulta a a lungo col guardalinee, dopodiché concedeva il gol del pareggio al Milan. Quella stessa sera alla Domenica Sportiva il conduttore, l’indimenticabile Enzo Tortora, annunciava la straordinaria novità: il giornalista della Rai, Carlo Sassi, era in grado di mostrare un’immagine inequivocabile da cui risultava che la palla in realtà non aveva mai superato la linea di porta. Il primo errore arbitrale era appena stato inconfutabilmente dimostrato. L’episodio sportivo può essere considerato di secondaria importanza, perché a fine stagione quel Milan vincerà il suo nono scudetto e non in virtù di quell’ingiusto vantaggio. Il Diavolo infatti era una squadra fortissima e quel campionato nella stagione 1967/68 lo stravincerà con un ampio margine sulla Fiorentina, che tuttavia si imporrà l’anno successivo, quando lo scudetto andrà in riva all’Arno, mentre i rossoneri allenati da Nereo Rocco e guidati in campo da Gianni Rivera trionferanno nell’edizione 1968/69 della Coppa dei Campioni, disintegrando per 4-1 gli olandesi dell’Ajax di Amsterdam, e pure nella Coppa Intercontinentale, dopo aver fatto a botte, contro gli argentini dell’Estudiantes, campioni del Sudamerica. La violenza era nell’aria, si respirava odio ovunque: nel 1968 erano stati assassinati Martin Luter King e Bob Kennedy ed era stata soffocata la cosiddetta Primavera di Praga quando Alexander Dubček diventato segretario del Partito comunista di Cecoslovacchia aveva intrapreso una coraggiosa stagione di riforme, terminata quando un corpo di spedizione militare dell’Unione Sovietica e degli alleati del Patto di Varsavia invase il paese.
Una soddisfazione e un po’ di gioia per gli sportivi italiani arrivò proprio nel 1968 quando la Nazionale, dopo la delusione patita ai Mondiali inglesi nel 1966, la disfatta e l’umiliazione per mano della famigerata Corea bruciava ancora, riuscirà a vincere per la prima volta gli Europei di calcio. Lo farà proprio in casa, in finale allo stadio Olimpico, battendo la Jugoslavia per 2-0, davanti a 70mila tifosi emozionati, e mentre la contestazione giovanile faceva cadere in disuso parole come patria e nazione, con quella vittoria il calcio contribuì a far sì che gli italiani riscoprissero l’orgoglio di sventolare il tricolore. Si trattò solo di una parentesi di festa in un difficile periodo di recessione economica, mentre all’orizzonte si profilavano anni bui, ma con il trionfo azzurro nacque l’uso dei caroselli per le strade italiane: un entusiasmo condiviso che univa migliaia di tifosi, trascinati dall’impresa dei ragazzi azzurri di Valcareggi. Nel novembre dello stesso anno nasceva a Milano il primo gruppo ultras italiano, la Fossa dei Leoni, con canti e slogan direttamente ispirati a quelli dei cortei politici. Calcio e politica extraparlamentare intrecciavano così parte delle loro esperienze, e dopo qualche anno compariranno gli striscioni delle Brigate Rossonere e delle Boys-San, ovvero Boys-Squadre d’Azione Nerazzurre (l’acronimo SAN si riferisce verosimilmente alle Squadre d’azione di Benito Mussolini), del Commando Ultrà Curva Sud (CUCS) a Roma e del Nucleo Armato Bianconero (NAB), forse l’unico gruppo juventino, un pubblico tradizionalmente noto per l’anticampanilismo, paragonabile agli hooligan. La moviola intanto diventava un vero e proprio fenomeno di costume, accrescendo la popolarità dei giornalisti Carlo Sassi e Bruno Pizzul, i quali si alternavano nella conduzione dell’apposita rubrica che dalla stagione di campionato 1969/70 prese un posto fisso all’interno della Domenica Sportiva, diventando uno dei momenti più attesi della televisione italiana, seguito anche da venti milioni di telespettatori. Molti sono gli episodi che ne hanno segnato la storia, memorabile quando la sera del 20 febbraio 1972, l’arbitro Concetto Lo Bello, sempre inflessibile, duro e giusto, messo di fronte alle immagini del calcio di rigore da lui negato al Milan nei confronti della Juventus, sarà costretto ad ammettere il clamoroso errore. Il clima generale in quel fatidico 1969 al quale conviene tornare è denso di contestazioni e contrasti: è il cosiddetto autunno caldo per antonomasia e l’inverno che seguirà purtroppo non sarà da meno. Infatti, il 12 dicembre del 1969 sarà una giornata terrificante: in poco meno di un’ora in Italia si verificheranno ben 5 attentati: tre a Roma e due a Milano. Il più grave sarà la strage di Piazza Fontana, dove una bomba, esplosa nella sede milanese della Banca Nazionale dell’Agricoltura, provocherà 17 morti e 88 feriti.
La strage della Banca Nazionale dell’Agricoltura è considerata il primo e più dirompente atto terroristico dal dopoguerra nonché da alcuni ritenuto l’inizio del periodo passato alla storia in Italia come degli anni di piombo nonché della strategia della tensione, che nel corso degli anni strazierà il Paese: a Brescia il 28 maggio 1974 (8 morti), sul treno Italicus del 4 agosto dello stesso anno (12 morti) e a Bologna il 2 agosto 1980 (85 morti), alzando il livello dello scontro. In un primo momento di questi attentati verranno accusati i nascenti gruppi del terrorismo rosso che si riveleranno invece estranei, mentre emergeranno indizi di collusioni occulte di settori deviati dello Stato, successivamente confermati: si comincerà a parlare allora di stragismo di Stato. All’inizio del decennio dei Settanta, nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970, Junio Valerio Borghese, soprannominato il principe nero, tentava un colpo di stato – il cosiddetto Golpe dell’Immacolata – salvo annullarlo in fase di esecuzione e riparare in Spagna per evitare l’arresto. In quei tristi mesi invernali del 1970 terminava anche la intanto era terminata la splendida parabola del Cagliariscudettato che, se dopo aver schiantato l’Inter a Milano e aver preso la testa del campionato, candidandosi alla vittoria finale manifestando una superiorità indiscussa su tutti i rivali, durante la partita tra Italia e Austria giocata a Vienna il 31 ottobre, a causa di un grave infortunio che ne comprometterà la carriera, perderà il suo impareggiabile fuoriclasse.Gigi Riva era stato il principale artefice dei successi del Cagliari, che senza di lui non riuscirà a difendere il titolo conquistato l’anno prima quando il 12 aprile 1969 chiuse la miglior stagione della sua storia festeggiando il primo e fin qui unico scudetto vinto. Si trattò di una sorpresa, a soli 6 anni dall’approdo in massima serie i rossoblù guidati ai vertici del calcio italiano da Manlio Scopigno, detto il filosofo, con il secondo posto nel 1968/69 e soprattutto con lo storico scudetto del 1969/70, il capolavoro della sua carriera, portavano per la prima volta il titolo di campione d’Italia nel Mezzogiorno, lontano dalle grandi città del Nord e del Centro, conquistando una vittoria ricca di significati per l’intera Sardegna, isola distante – ritenuta patria di pastori e banditi, come ricordava Gigi Riva – praticamente sconosciuta fino a quel momento al resto degli italiani.
Nel quadro della strategia della tensione la società italiana era sempre più divisa e polarizzata in gruppi che facevano politica extraparlamentare e non rifiutavano la violenza, passando dalla clandestinità alla lotta armata. A sinistra erano nate organizzazioni come i Gruppi d’Azione Partigiana (GAP), i Nuclei Armati Proletari (NAP), Prima Linea (PL) e le Brigate Rosse (BR), mentre a destra militavano Avanguardia Nazionale, i Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR), Ordine Nero, Terza Posizione e Ordine Nuovo. Si diffuse un clima di insicurezza e pericolo, perché non furono compiuti soltanto attentati clamorosi o stragi dai loro esecutori, ma uno stillicidio continuo di attacchi contro obiettivi minimi, singoli cittadini e forze dell’ordine, in esecuzione quotidiana di disegni talvolta ignoti e misteriosi. In piazza i manifestanti si presentavano ovunque a volto coperto e spesso armati di spranghe, chiavi inglesi e bottiglie molotov e la violenza poteva scoppiare in qualsiasi istante e ovunque. In quel contesto, iniziarono ad agire le BR compiendo atti di guerriglia urbana e terrorismo contro persone ritenute rappresentanti del potere politico, economico e sociale, operando tra il 1970 e il 1974 prevalentemente attraverso piccoli gruppi all’interno delle fabbriche in modo spesso clandestino, con il compito di fare propaganda in particolare nelle aziende soggette a piani di ristrutturazione o nelle quali il rapporto dei lavoratori con la dirigenza e la proprietà fosse particolarmente conflittuale. I militanti delle BR, oltre a diffondere le proprie idee, presero di mira quadri e dirigenti aziendali, incendiandone le auto o realizzando brevi sequestri, della durata di qualche ora o di pochi giorni, allo scopo di intimidire il rapito e la dirigenza dell’azienda e dimostrare la forza e la spregiudicatezza dell’organizzazione: il primo si realizzò il 3 marzo 1972 a Milano, Idalgo Macchiarini, un dirigente industriale, prelevato di fronte allo stabilimento, fotografato e rilasciato dopo qualche giorno con un cartello appeso al collo dove c’era scritto: “Colpiscine uno per educarne cento!” Sempre in quell’anno, il 5 settembre 1972 a Monaco di Baviera, un commando dell’organizzazione terroristica palestinese Settembre Nero irruppe negli alloggi destinati alle squadre israeliane del villaggio olimpico uccidendo subito due atleti che avevano tentato di opporre resistenza e prendendo in ostaggio altri nove membri della squadra olimpica di Israele, un successivo tentativo di liberazione da parte della polizia tedesca portò alla morte di tutti gli atleti sequestrati, brutale epilogo del Massacro di Monaco di Baviera che aveva insanguinato le Olimpiadi, evento tipico della cultura umana che storicamente addirittura sospendeva ovunque le guerre e la violenza.
In Italia il 12 febbraio 1973 la colonna brigatista torinese compì il sequestro di Bruno Labate, sindacalista legato al Movimento Sociale Italiano dello stabilimento FIAT di Mirafiori, interrogandolo e poi lasciandolo incatenato alla gogna operaia davanti alla fabbrica, guadagnando adesioni e simpatizzanti in tutti gli stabilimenti nelle grandi fabbriche del Piemonte, come già era accaduto in Lombardia. In quei primi anni le BR volevano tramettere segnali di lotta concreti con azioni dimostrative e atti di forza, per conquistare consensi all’interno della classe operaia: era la cosiddetta propaganda armata. Dopo Milano e Torino le BR si allargarono, in particolare a Porto Marghera fu costituita la terza colonna, quella veneta, mentre in Liguria fu creata la colonna genovese. E uscendo dalla logica dello scontro all’interno delle fabbriche i dirigenti brigatisti desideravano incidere direttamente sul processo politico del Paese, e proprio da Genova partì la prima azione condotta contro un esponente dello Stato: il rapimento, avvenuto il 18 aprile del 1974, di Mario Sossi, un magistrato che era stato pubblico ministero in un processo a un gruppo armato genovese. Condannato a morte dalle BR con lo slogan «Sossi fascista, sei il primo della lista!» il magistrato venne poi rilasciato senza ottenere una contropartita: liberato a Milano, tornò a Genova in treno e si consegnò alla Guardia di Finanza. Invece Francesco Coco, il procuratore generale della Repubblica che non aveva voluto trattare con i brigatisti, rifiutandosi di firmare la scarcerazione dei detenuti che i terroristi chiedevano in cambio della liberazione dell’ostaggio, verrà ucciso da un commando guidato da Mario Moretti, esponente dell’ala dura del movimento, che l’arresto di Renato Curcio e Alberto Franceschini avevano catapultato ai vertici dell’organizzazione, in un agguato a Genova, l’8 giugno 1976 insieme a due uomini della scorta: il primo magistrato trucidato durante gli anni di piombo.
Intanto negli stadi la passione degli italiani per il campionato di calcio non conosceva incertezze né si attenuava. Dopo quella memorabile del Cagliari, un’altra impresa infiammò gli animi dei tifosi e catturò l’attenzione degli appassionati: quella Lazio, l’undici capitolino di Giorgio Chinaglia, soprannominato Long John, bomber inarrestabile e simbolo della squadra biancoceleste, guidata in panchina dal tecnico Tommaso Maestrelli, che al termine del campionato del 1973/74 conquisterà lo scudetto. In quello stesso mese di maggio l’Italia votava il referendum voluto promosso dalla Democrazia Cristiana e sostenuto in Parlamento dal Movimento Sociale Italiano e fuori da Comunione e Liberazione, allo scopo di abrogare la legge che permetteva il divorzio. L’esito della consultazione popolare del 12 maggio 1974 fu clamoroso segnando contro le attese la prima grande sconfitta della Democrazia Cristiana e testimoniando come la modernizzazione del Paese introdotta dal boom economico e la contestazione sessantottina dell’etica dominante avesse profondamente inciso anche in Italia sull’evoluzione di costumi e mentalità. L’Italia tuttavia verrà scossa da due tremendi appuntamenti con la devastazione e la morte, il 28 maggio la strage di Piazza della Loggia a Brescia, dove una bomba nascosta in un cestino portarifiuti fu fatta esplodere mentre era in corso una manifestazione, provocando la morte di 8 persone e il ferimento di altre 102, mentre il 4 agosto la strage a bordo del treno Italicus, quando morirono 12 persone e rimasero ferite altre 48 in un attentato dinamitardo presso San Benedetto Val di Sambro, in provincia di Bologna, che avrebbe avuto conseguenze più gravi se l’ordigno fosse esploso nel cuore della Grande Galleria dell’Appennino che si sarebbe trasformata in una fornace, per i circa quattrocento passeggeri dell’espresso. Non successe solo a causa del recupero di tre minuti sul ritardo precedentemente accumulato alla partenza da Roma. Fu comunque un attentato orribile, la quinta carrozza del treno esplose e si incendiò a cinquanta metri dall’uscita della lunga galleria e le persone bruciarono vive, eppure questo tremendo episodio è il meno ricordato, commemorato e considerato dalla storiografia. Mentre nella tragedia, brilla l’eroismo di un giovane ferroviere di 24 anni, il forlivese Silver Sirotti, che munito di estintore, si slanciò tra le fiamme per soccorrere i viaggiatori intrappolati, non pochi si salvarono proprio grazie al suo spirito di servizio: morì eroicamente guadagnando una Medaglia d’Oro al Valor Civile.
Sempre nel 1974 si logora la formula governativa del centrismo e del centro-sinistra, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista quindi iniziarono a parlarsi: era l’alba del dialogo che Enrico Berlinguer aveva suggerito in una serie di pubbliche dichiarazioni alla fine del 1973 rivolgendosi alle forze che rappresentavano la grande maggioranza del popolo italiano. Il terrorismo nero decise di reagire all’ipotesi del compromesso storico fra democristiani e comunisti con le bombe, allo scopo di accresce disordine e panico, con l’auspicio di spingere una parte della società a chiedere un argine alla confusione, favorendo i più intraprendenti – fra questi Edgardo Sogno, con il suo progetto di golpe bianco – che si spinsero a credere di riuscire a instaurare un regime autoritario nel Paese. Quella Lazio, che nella stagione precedente aveva sfiorato il titolo da neopromossa, era figlia dei tempi che correvano, la squadra campione d’Italia era un gruppo turbolento: l’equilibrio del mister Maestrelli infatti si imponeva solo alla domenica, quando c’era da scendere in campo. In settimana invece il quartier generale di Tor di Quinto, il centro sportivo dove i biancocelesti si allenavano, era una vera e propria polveriera. Giorgio Chinaglia era indubbiamente il trascinatore della squadra, ma litigava con tutti, i giocatori si detestavano fra loro, addirittura mangiavano in mense separate e si cambiavano in spogliatoi diversi, caso unico nella storia di questo sport: da una parte la vecchia guardia guidata da Chinaglia e Pino Wilson, dall’altra i ribelli, entrati nel gruppo più recentemente, come Luciano Re Cecconi e Mario Frustalupi. Anche le partite settimanali di allenamento erano conflittuali e finivano in rissa, ogni volta si regolavano i conti in sospeso, e talvolta i calciatori laziali non riuscivano a scendere in campo alla domenica a causa degli infortuni che si procuravano in allenamento. Molti biancocelesti avevano il porto d’armi e si esercitavano al poligono, ma non si facevano scrupoli a portare le pistole in ritiro e sparare anche durante gli allenamenti o a farsi vedere armati in giro per Roma. Comunque, la dirompente ascesa sarà il preludio della fragorosa caduta di quella Lazio, che nella stagione 1974/75 non partecipò nemmeno alla Coppa dei Campioni a causa di una rissa scoppiata negli spogliatoi dell’Olimpico dopo il ritorno dei sedicesimi di finale della Coppa UEFA dell’anno precedente contro l’Ipswich Town che comportò per il club biancoceleste la squalifica dalle competizioni europee. Anche in campionato i biancocelesti non saranno all’altezza delle aspettative e non solo non riusciranno a difendere il tricolore, ma dovranno affrontare circostanze drammatiche che segneranno il declino nelle stagioni a venire: l’omicidio di Re Cecconi durante una rapina, quando il centrocampista, uno dei leader della squadra, fu ucciso da un colpo di pistola in una gioielleria di Roma e ancora oggi non si sa bene perché, la scomparsa dopo lunga malattia del mister Maestrelli oltre all’improvviso trasferimento di Chinaglia negli Stati Uniti.
A partire dai primi anni Settanta una nobile decaduta era tornata competitiva: il Torino. Il presidente della società granata, Orfeo Pianelli, grazie a mirate operazioni di mercato, stava via via costruendo una squadra all’altezza dei rivali cittadini della Juventus, inavvicinabili fino a pochi anni prima, da quando la tragedia di Superga aveva cancellato il Grande Torino consegnandolo al mito. Proprio per invertire quella tendenza alla frustrazione il presidente Pianelli decise di ingaggiare il paròn Nereo Rocco che pur non vincendo nessun trofeo con il Toro nei suoi tre anni di permanenza sulla panchina della squadra piemontese, lasciò un’impronta di forza e la voglia di tornare a competere ai massimi livelli. Nell’estate del 1971 arriverà al Torino Gustavo Giagnoni, sardo di nascita e mantovano d’adozione: sarà immediatamente contagiato dall’amore per il Toro, in quei freddi inverni torinesi il mister prenderà l’abitudine di indossare una sciarpa granata e un colbacco al quale verrà dato un significato politico, che non aveva. Con lui in panchina il Toro ha una marcia in più, e in quella stagione 1971/72 tornerà addirittura a competere per lo scudetto, per la prima volta dal “dopo Superga”. A metà aprile i ragazzi granata erano in testa, davanti alla Juventus, ma la classifica finale premierà i bianconeri che saranno campioni d’Italia, con il Toro staccato di un solo punto e il rammarico di un paio di clamorosi errori arbitrali che avrebbero cambiato le sorti della sfida per il titolo in favore del sodalizio granata. A fine campionato un nuovo termine entrò nell’enciclopedia del calcio italiano: il tremendismo granata. A parere di Giovanni Arpino, scrittore e giornalista: “L’espressione è perfetta per un club che magari non vince, ma è un osso durissimo per chiunque. Una squadra di orgoglio, di rabbie leali, di capacità aggressive, mai doma, temibile in ogni occasione e soprattutto quando l’avversario è di rango”. Ecco, tutto questo significa tremendismo. Giagnoni infatti aveva con la sua aria un po’ truce, la grinta e la sua personalità, aveva trasmesso alla squadra un gioco incisivo e una mentalità aggressiva, il Toro non mollava mai, e l’allenatore col colbacco entrava definitivamente nella mitologia granata in un derby del dicembre 1973: a un certo punto del match, Giagnoni non riesce più a resistere alle continue provocazioni di Franco Causio, così una volta raggiunto il giocatore juventino a bordocampo, spostando il guardalinee, lo colpisce con un cazzotto sullo zigomo e lo stende. A fine partita, l’allenatore sardo, pentito del suo gesto, teme le reazioni della stampa e una pesante squalifica, ma intanto i tifosi granata lo attendono impazienti, per portarlo in trionfo e gridare: “Questo è il Toro!”
Intanto alle elezioni amministrative del giugno 1975 la straordinaria avanzata in termini di preferenze del Partito Comunista fece ritenere vicinissimo il sorpasso sulla Democrazia Cristiana e provocò un terremoto nelle amministrazioni locali, dove si andavano radicando maggioranze di governo sempre più apprezzate fra socialisti e comunisti. In un anno segnato dalla fine della guerra in Vietnam, con la caduta di Saigon e relativa ritirata americana, e in cui i sindacati e gli operai parlavano di scala mobile per adeguare i salari all’inflazione, sulla panchina granata arriva un innovatore: il giovane Gigi Radice. Il prussiano, così lo chiamano per gli occhi chiari, vuole uno stile di gioco votato al pressing a tutto campo, a imitazione del calcio totale dell’Olanda di Cruijff e compagni, e sarà l’uomo giusto al momento giusto, nel posto giusto. Nei rituali da seguire prima delle partite c’è il consueto cinque che Radice scambia con tutti i giocatori, al momento dell’ingresso in campo, tutti tranne uno, perché il mister quando si trova davanti Pulici non gli dà la mano, ma vuole un testa contro testa col suo bomber che quando entra in campo fa esplodere la Curva Maratona in un boato impressionante. Poco dopo l’inizio di quel campionato, nella notte tra il 1º e il 2 novembre del 1975, fu ucciso in maniera brutale, percosso e travolto dalla sua stessa auto sulla spiaggia dell’Idroscalo di Ostia, vicino a Roma, Pier Paolo Pasolini. Era considerato tra i maggiori artisti e intellettuali del XX secolo, attento osservatore dei cambiamenti della società italiana e figura a tratti controversa, per la radicalità dei suoi giudizi assai critici nei riguardi delle abitudini borghesi come nei confronti del Sessantotto e dei suoi protagonisti. Il suo rapporto con la propria omosessualità – all’epoca nemmeno tollerata in Italia – fu al centro del suo personaggio pubblico, mentre lui, innamorato della sua squadra del cuore, il Bologna, considerava i pomeriggi trascorsi a giocare a pallone i più belli della sua vita. In quella stagione del 1975/76 il Torino sarà Campione d’Italia: una redenzione attesa per ventisette anni dopo Superga, raccogliendo grazie alla leadership di Gigi Radice i frutti maturati nel corso delle stagioni precedenti, facendo convivere e valorizzando al meglio sia generosi gregari che raffinati esteti come Sala – il poeta – e Pecci, un centrocampista d’assalto come il gentleman Zaccarelli e implacabili cannonieri, come i gemelli del gol Pulici e Graziani, insieme al giaguaro Castellini, un estremo difensore di grandi qualità, secondo solo a Zoff in Nazionale. Quattordici vittorie su quindici in casa, con un solo pareggio proprio nell’ultima e decisiva giornata, ma soprattutto una cifra di gioco eccezionale ed una velocità mai viste prima. Il sogno del presidente Pianelli era finalmente realtà: aveva restituito la gioia al popolo granata. Nel Paese, arrivati a giugno, trascorsa un’infuocata campagna elettorale in un clima di contrapposizione frontale, sembrò prossimo il sorpasso del Partito Comunista sui democristiani e nell’attesa da un lato della vittoria finale dei progressisti sui moderati e dall’altro di una rinnovata paura per il pericolo rosso, la mobilitazione in favore della Democrazia Cristiana fu senza quartiere e coinvolse anche Indro Montanelli, che dalle colonne del suo il Giornale ammonì i lettori con uno slogan poi rimasto celebre: turatevi il naso ma votate DC!
Ed effettivamente andò proprio così: la Democrazia Cristiana dimostrò grandi capacità di recupero, conservando la maggioranza ma indebolendo i tradizionali alleati, mentre a sinistra il Partito Comunista non sfondò ma ottenne il miglior risultato elettorale della sua storia, anche in quel caso a scapito degli alleati socialisti e dell’estrema sinistra. A settembre intanto l’Italia del tennis tornava da Santiago del Cile dove aveva vinto per la prima volta la Coppa Davis, la massima competizione mondiale di questo sport, avendo rischiato fino a pochi giorni prima di non giocarla nemmeno. La gara, infatti, la finalissima, era prevista contro la nazionale cilena proprio in Cile, paese retto dalla brutale dittatura di Pinochet e per giunta, il campo di gioco si trovava nel complesso dello Stadio Nazionale, divenuto uno dei simboli della repressione del regime, usato, negli anni precedenti, come campo di concentramento per i prigionieri politici. E in Italia, dove la polarizzazione delle posizioni sembra insanabile, cortei e manifestazioni si susseguivano al grido Non si giocacon il boia Pinochet, mentre Adriano Panatta, il nostro tennista più forte e rappresentativo, veniva accusato di essere miliardario e fascista mentre era diventato benestante col talento e mai si era identificato con i progetti della destra liberale, figurarsi con quella estrema. I parlamentari socialisti sono contrari a partecipare e Domenico Modugno canta in favore del boicottaggio, mentre il governo di Giulio Andreotti non prende posizione, aspetta. L’estrema sinistra spinge per il rifiuto, non vuole giocare. Ma il capitano della Nazionale, Nicola Pietrangeli, e i tennisti vogliono giocare, Andreotti allora fa decidere al CONI, che a sua volta si affida al parere della FIT, la Federazione italiana del tennis. La Federazione, che ha da poco nominato Paolo Galgani nuovo presidente, aspetta di vedere da che parte tira il vento e alla fine si fa convincere da Enrico Berlinguer, l’ideatore dell’euro-comunismo, che si muove in direzione contraria rispetto all’Unione Sovietica, che ha boicottato la Coppa Davis e si aspetta lo stesso dall’Italia.
Il carismatico segretario del Partito comunista matura la decisione dopo essersi in qualche modo consultato con il leader comunista cileno, Luis Corvalán infatti gli suggerisce di non procedere con un boicottaggio che si sarebbe potuto rivelare vantaggioso per Pinochet, verso il quale il consenso nazionalistico all’epoca cresceva. A quel punto il Rubicone è oltrepassato: si va in Cile per vincere. Nel corso del doppio Adriano Panatta, noto per le sue simpatie politiche di sinistra, decise di giocare con una maglietta rossa, in omaggio alle vittime della repressione di Pinochet, convincendo il suo compagno Bertolucci a fare lo stesso: la prima Davis italiana diventa realtà. Dopo la pausa, alla fine del terzo set, Panatta e Bertolucci si erano cambiati, abbandonando la maglietta rossa. Il trionfo imminente andava celebrato in azzurro. Intanto si ragionava nei palazzi della politica circa la necessità di un governo di “solidarietà nazionale”, invece in California nasceva nell’estate del 1976 Apple Computer, Inc. quando Steve Jobs e Steve Wozniak, a Cupertino nella Silicon Valley, si organizzarono, coi pochi soldi di cui disponevano, allo scopo di sviluppare e vendere il personal computer Apple I: nel giro di pochi anni Jobs e Wozniak avevano assunto uno staff di progettisti di computer e avevano una linea di produzione, che dopo molti anni sarebbe arrivata a cambiare lo stile di vita della maggior parte dell’umanità, niente meno. Era iniziato puntualmente il campionato del 1976/77 che appassionerà come sempre tutto il Belpaese e si rivelerà fin da subito un furibondo testa a testa fra il Toro e la Juventus, fino all’ultima giornata, fra sorpassi e controsorpassi. Alla fine, la squadra granata raggiungerà la stratosferica cifra – in un campionato a 16 squadra – di cinquanta punti, cinque più della stagione precedente, ma la Juventus per loro sfortuna ne farà uno in più. Delusione difficilissima da smaltire, da aggiungere alla cocente quanto rocambolesca eliminazione in Coppa dei Campioni, agli ottavi terminando in otto con Ciccio Graziani in porta la partita di ritorno, per mano dei fortissimi tedeschi del Borussia Mönchengladbach. Il Toro si avvierà da allora verso un nuovo lento declino, mentre i rivali della formidabile Juventus guidata da Giovanni Trapattoni, inizieranno uno straordinario ciclo di vittorie in Italia e, più tardi, in Europa.
Oramai nel Paese divampava il conflitto politico e culturale in tutti i luoghi del sociale. Gli effetti della politica d’austerità varata dal primo governo di “solidarietà nazionale” portarono allo scoperto una composita area di dissenso, indicata col nome generico di movimento del 77 che tracciava un perimetro all’interno del quale convivevano posizioni anarcoidi, rifiuto del lavoro e operaismo, istanze pacifiste e teorizzazione dell’illegalità di massa, che costituirono il diffuso retroterra ideologico ispiratore dello scontro frontale con le istituzioni. In particolare, ci fu un’avvisaglia: il 17 febbraio la violenta contestazione rivolta contro il segretario della CGIL Luciano Lama si trasformò in scontro aperto con il servizio d’ordine del sindacato. Gli scontri per violenza e intensità causarono lo scioglimento anticipato del comizio e l’abbandono della città universitaria da parte del segretario e della delegazione della CGIL, l’evento diverrà famoso e ricordato come la cacciata di Lama dall’Università La Sapienza di Roma, oramai occupata e ingovernabile e, in conseguenza di quell’episodio, consegnata dal rettore alla polizia, mentre una fitta serie di episodi di violenza si susseguiranno nelle principali città d’Italia, senza soluzione di continuità. L’11 marzo 1977 a Bologna studenti della sinistra extraparlamentare affrontarono le forze dell’ordine intervenute a difesa di un’assemblea di CL, durante gli scontri fu ucciso Francesco Lorusso, militante di Lotta Continua e studente universitario.
La notizia della morte del giovane si diffuse rapidamente e ne seguì l’affluire di migliaia di studenti verso la zona universitaria che venne barricata in un clima di incredulità, dolore e rabbia. In risposta alle proteste ed ai gravi disordini scoppiati in città, il Ministro dell’Interno, Francesco Cossiga, dispose l’invio di mezzi blindati nelle strade del centro di Bologna, finendo così per accentuare lo scontro politico, vista la profonda impressione suscitata nell’opinione pubblica nel vedere – nel cuore della capitale dell’Emilia, cingolati per il trasporto truppe che furono generalmente percepiti come carri armati. Tutte le iniziative di protesta lanciate nei giorni successivi furono duramente represse, anche attraverso l’esecuzione di numerosi arresti e fermi di polizia. Il 12 marzo dello stesso anno si svolse a Roma una grande manifestazione nazionale di protesta contro la repressione, che per la tensione e la rabbia accumulate nelle ore precedenti, sfociò in violentissimi scontri di piazza e gravi episodi di guerriglia urbana, caratterizzati da assalti e dal lancio di bottiglie molotov contro banche, esercizi commerciali, ambasciate, comandi delle Forze dell’ordine e sedi della DC, considerata politicamente responsabile della situazione. In quel particolare momento va riconosciuto un argine alla violenza: la dura presa di posizione manifestata dalle organizzazioni e dai partiti della sinistra storica, frattura che si rese particolarmente evidente a seguito del forte appoggio fornito dal Partito comunista alle manifestazioni contro la violenza organizzate dai sindacati confederali, dove per fortuna iniziava a guadagnare terreno una più realistica percezione delle esigenze economiche, e tra i lavoratori si diffondevano il disagio e l’insofferenza per il carattere esclusivamente politico delle manifestazioni di protesta.
A seguito della carcerazione di Renato Curcio, fondatore insieme ad altri e ideologo, le BR si riorganizzarono decidendo di accentuare la caratterizzazione “militare” in vista di una nuova fare operativa incentrata su azioni terroristiche violente e di forte impatto, e fu così che durante l’anno ci sarà una vera e propria escalation di ferimenti e omicidi. A Venezia intanto la notte più drammatica fu quella del 31 marzo 1977: i problemi cominciarono nel pomeriggio, ai violenti scontri con la polizia e al lancio delle bottiglie molotov seguirono le devastazioni e i saccheggi di negozi di lusso, e un attacco incendiario al Comando della Guardia di Finanza oltre ad un attentato dinamitardo rivolto alla sede della giunta regionale del Veneto, mentre Marghera, Mestre, Padova, Rovigo e Vicenza venivano messe a soqquadro per quasi due anni quando, durante le così dette notti dei fuochi, una serie di attentati volevano sfruttare il malcontento della classe operaia inducendola a simpatizzare coi terroristi, secondo i programmi degli agitatori. Nel frattempo iniziava a Torino il processo ai “capi storici” delle BR – tra cui Renato Curcio e Alberto Franceschini – ed era accaduto un fatto mai verificatosi in precedenza in Italia: tutti gli imputati detenuti si proclamarono militanti dell’organizzazione comunista Brigate Rosse e combattenti comunisti assumendo collettivamente e per intero la responsabilità politica di ogni sua iniziativa passata presente e futura disconoscendo qualunque presupposto legale per quel processo, revocando il mandato ove già conferito e minacciando di morte i legali che avessero accettato la nomina come difensori di ufficio, rendendo di fatto il processo “impossibile” in mancanza della difesa tecnica, quale garanzia costituzionale, e inducendo il presidente della Corte d’Assise, constatate le difficoltà di pervenire alla nomina di difensori, a incaricare della difesa d’ufficio il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino, l’avvocato Fulvio Croce, il quale pur essendo un avvocato civilista e consapevole dei gravissimi rischi a cui si esponeva, onde non rallentare il corso di un processo così importante, accettò l’incarico dimostrando grande coraggio e assoluta fiducia nella forza della legge.
Nel primo pomeriggio del 28 aprile del 1977, pochi giorni prima della data fissata per l’udienza del processo, un gruppo di fuoco delle BR uccise l’avvocato Croce nei pressi del suo studio legale in via Perrone a Torino, colpendolo mortalmente con cinque colpi di pistola che lo raggiunsero alla testa e al torace. Intanto in quel 1977 dagli Stati Uniti verso il resto inizia una saga cinematografica che non avrà uguali con l’omonimo film Guerre stellari, sottotitolato retroattivamente Episodio IV – Una nuova speranza. Il film, ambientato diciannove anni dopo la fondazione dell’Impero Galattico, narra le avventure dello Jedi Luke Skywalker e del suo maestro Obi-Wan Kenobi, impegnati nella lotta contro il Lato Oscuro della Forza, a fianco dell’Alleanza Ribelle, guidata dalla Principessa Leila, in modo da porre fine al potere dell’Imperatore sulla Galassia. Dopo un inizio in sordina, distribuito in pochi cinema americani, Guerre stellari si rivelò un successo senza precedenti sia al botteghino sia nel modo in cui si radicò nel cuore della coscienza pubblica. La maggior parte della critica spese parole d’elogio giudicandolo capace di immergere gli spettatori nel suo mondo fantastico e di coinvolgere con una narrazione semplice, ma solida ed entusiasmante, coadiuvata da effetti speciali spettacolari come raramente si erano visti prima, la saga poi sarebbe diventata un fenomeno culturale di massa, oramai è un dato storico, fin dall’uscita del primo film, e ha avuto un forte impatto sulla moderna cultura pop e le sue citazioni si sono radicate nell’uso quotidiano: frasi come la Forza sia con te o Io sono tuo padre sono diventate parte integrante del lessico della popolazione, mentre la Forza e Lato Oscuro sono state incluse nell’Oxford English Dictionary.
Il 30 ottobre 1977 anche il mondo dello sport vive una giornata straziante, quando alla stadio Comunale Pian di Massiano il Perugia di Ilario Castagner ospita la Juventus di Trapattoni. All’epoca la squadra dei grifoni faceva sognare tutta l’Umbria, e il giovane Renato Curi in particolare era entrato nel cuore dei tifosi quando il 16 maggio dell’anno precedente un suo destro al volo all’ultima giornata aveva superato Zoff, togliendo lo scudetto ai bianconeri e consegnandolo al Toro di Radice. Il 30 ottobre invece era una giornata da lupi: il cielo sopra Perugia era nero e gonfio di pioggia, che poi inizierò a cadere flagellando senza tregua i giocatori, ma al quinto minuto della ripresa, sullo zero a zero, dopo una rimessa laterale per gli umbri e uno scatto nel tentativo di raggiungere la palla, dal cerchio di centrocampo, Renato Curi si accascia improvvisamente al suolo, come fulminato, allarmando i compagni e gli avversari che gli si avvicinano, gli juventini Roberto Bettega e Gaetano Scirea spaventati gesticolano freneticamente per chiamare soccorso, entrano immediatamente in campo i sanitari e si intuisce che si sta compiendo un dramma sportivo e umano. Non servono il massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca, il centrocampista esce in barella privo di sensi sotto una pioggia sempre più forte: morirà poco dopo stroncato da un arresto cardiaco, all’età di ventiquattro anni, nella commozione generale. Tutta Italia peraltro stava per vivere un altro momento epocale: il 16 marzo 1978 avvenne l’agguato di via Fani a Roma, quando lo sterminio della scorta, fu il preludio al sequestro e al successivo assassinio dell’allora presidente della DC Aldo Moro, consumato il 9 maggio 1978, e definito dalle BR “l’attacco al cuore dello Stato”. Si chiudeva così il sequestro più drammatico della storia dell’Italia repubblicana, durato ben 55 giorni, che gettò il Paese nel panico e stroncò definitivamente la maturazione del progetto politico che Aldo Moro aveva abbozzato: cioè inserire nell’area democratica prima e nelle responsabilità di governo poi il PCI. Questi tempi sembravo non finire mai, dal giugno 1978 al dicembre 1981 aumentarono gli agguati, le uccisioni e i ferimenti terroristici. Le statistiche segnalarono una continuità di attentati mai conosciuta in Europa: il numero delle organizzazioni armate attive in Italia era passato da 2 nel 1969 a 91 nel 1977 fino a 269 nel 1979, mentre in quello stesso anno si registrò la cifra record di 659 attentati. Tuttavia l’anno con più vittime sarà il 1980, quando moriranno 125 persone, di cui 85 solo nella strage della Stazione Centrale di Bologna.
L’Italia era allo stremo, ma a quel punto a Genova successe qualcosa di imprevedibile e imprevisto, tanto da cambiare il corso degli eventi. Lo scopriremo nel seguito del racconto…
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