Eterna Amistad. Una eterna amicizia, un racconto di quelli che, forse più di altri, attribuiscono un senso alla memorabile affermazione di Gianni Brera: “Il calcio è straordinario proprio perché non è mai fatto di sole pedate. Chi ne delira va compreso, non compatito; e va magari invidiato”. Il legame fra la squadra argentina del River Plate e quella italiana del Torino, non ha eguali nel mondo del calcio e, più in generale, dello sport. Il racconto di questo episodio, che appartiene alla Storia, quella con la S maiuscola, è dedicato ad Antonio V. Liberti – uomo poliedrico, argentino e genovese, il presidente che per primo ha reso grande il River – e a Ferruccio Novo, ingegnere ed industriale piemontese, presidente ed architetto del Grande Torino. Il rapporto di amicizia fra il sodalizio albirrojo [biancorosso] e quello granata, maturato dopo la tragedia di Superga, è cosi intenso e attuale da giustificare la celebrazione dedicata dallo sponsor tecnico del River Plate, che ha deciso di valorizzare il cosiddetto “rito granata”, attraverso una splendida camiseta con historia realizzata per accompagnare il River durante le trasferte nel campionato argentino e in Coppa Libertadores, nel nome di un hashtag rivolto al pubblico di tutto il mondo: #EternaAmicizia!
Ho scoperto questa magnifica storia mentre mi trovavo a Mendoza, il capoluogo di una vasta regione dell’Argentina, addirittura la quinta fra le aree vinicole più importanti al mondo. Avevo scelto quella città come base ideale per il mio progetto di esplorare le bodegas [cantine] che si trovano nel suo circondario e a quello scopo ero partito da Buenos Aires con un volo interno della compagnia di bandiera. Luoghi incantevoli, ai piedi delle Ande, dove cresce la materia prima che poi l’uomo trasforma nei migliori interpreti della personalità argentina: il Malbec, un vino rosso intenso dalla struttura possente e quasi impenetrabile, e il Torrentés, un vino bianco aromatico e morbido, ma esplosivo, autentici campioni dell’enologia nazionale. Tuttavia, passeggiando per il centro cittadino di Mendoza, fui attratto dalla vetrina di un negozio di articoli sportivi dove accanto alla maglietta della squadra di calcio locale – il Godoy Cruz – e alle immancabili divise del Boca Juniors e del River Plate di Buenos Aires, avevo riconosciuto un gagliardetto sociale e la maglia del Torino. Non dell’Inter, della Juventus o del Milan, ma del Toro. Non seppi resistere alla curiosità, e decisi di entrare per domandare il motivo di quella preferenza. Mi fu svelato quindi il legame del Toro con il Sudamerica: che nacque in ragione di ben tre storiche tournée estive, avvenute nel 1914, 1929 e 1948, e venne poi esaltato dal River Plate quando decise di onorare i caduti a Superga del Grande Torino, giocando nel 1949 allo stadio Comunale del capoluogo piemontese contro il cosiddetto Torino Simbolo, e ancora a Buenos Aires nel 1951 e quindi di nuovo a Torino nel 1952: quello fu il principio di questa storia di #EternaAmistad [Eterna Amicizia].
Ma andiamo con ordine, e quindi dal principio. Vittorio Pozzo non ha bisogno di presentazioni, tuttavia non tutti sanno che, prima di diventare il più vincente tecnico di sempre, campione del mondo con la nazionale italiana nel 1934 e nel 1938 e campione olimpionico nel 1936, fu uno dei primi allenatori del Torino, squadra che aveva contribuito a fondare, si dice. Comunque, fra le tante intuizioni non scontate Pozzo ne ebbe una, che oggi può persino sembrare ovvia: se il Torino voleva crescere e migliorare doveva giocare tanto e non solo in Italia, misurandosi con avversari di caratura e tradizioni differenti, allo scopo di imparare da ognuno di loro. Fu così che, convinta la dirigenza, Pozzo ottenne per la prima volta nella storia del Toro, il permesso di disputare in quella estate del 1914 una tournée oltreoceano: la squadra si imbarcò da Genova, attraversando l’Atlantico sul piroscafo Duca degli Abruzzi e arrivò dopo quasi un mese di navigazione, e tanti palloni finiti in mare, al porto della città di Santos in Brasile, dove le squadre locali erano desiderose di confrontarsi con un’avversaria italiana di primo piano, capace di contendere in quella stagione al leggendario Genoa il titolo di campione d’Italia; i brasiliani li avrebbero quindi ospitati volentieri per circa un mese ai granata e diviso con loro gli incassi delle partite. La comitiva del Toro in quella estate lasciò il segno: São Paulo era una grande città, una metropoli, e gli italiani furono sommersi da inviti e occasioni mondane, come accadde alla Pro Vercelli, altra squadra piemontese che stava visitando il Sudamerica, che invece si distinse in negativo, sia per la condotta in campo e fuori; invece quanto ai granata l’inflessibile Pozzo ridusse al minimo ogni distrazione e tutte le tentazioni, imponendo come suo costume regole di condotta ferree, improntate alla disciplina e alla massima sobrietà, e i risultati furono evidenti anche in campo. Il Torino, con un vigore insospettabile, liquidò all’esordio, il 9 agosto 1914, lo Sport Club International (0-6), per ben due volte la rappresentativa del São Paulo (1-5; 1-7) e lo Sport Club Luzitano (0-3), vincendo due volte anche contro i campioni nazionali dello Sport Club Corinthians (0-3; 1-2) destando così grande ammirazione anche nella vicina Argentina, dove il calcio era già una malattia, e ricevendo un invito fuori programma: quello di raggiungere Buenos Aires. Nella capitale argentina il Torino – tanto era stimato – affrontò la Nazionale bianco-celeste, che lo sconfisse di misura (2-1), perse poi contro il Racing Club de Avellaneda (1-0), che era l’imbattuto campione d’Argentina, congedandosi però con una vittoria netta contro una selezione dei migliori giocatori della Liga argentina (0-2): era il 6 settembre 1914. Poco dopo il rientro in patria della comitiva granata, anche l’Italia sarebbe stata travolta dalla prima guerra mondiale.
Il Torino di Pozzo sfiorò in diverse occasioni il successo nel campionato italiano, ma non lo vinse; mentre la formazione granata del cosiddetto “Trio delle Meraviglie”, composto dai campionissimi Libonatti, Baloncieri e Rossetti, viaggiò in Sudamerica nella tournée del 1929 avendo vinto l’anno prima lo scudetto della stagione 1927/28, bissando il titolo (ingiustamente) revocato nel 1926/27; a dispetto del palmares tuttavia quel Torino non brillò, anche se fu apprezzato dai tantissimi immigrati italiani (e piemontesi) che andarono ad applaudirlo. I granata iniziarono a Buenos Aires il 28 luglio 1929 e giocarono in quella prima settimana ben tre partite contro la Nazionale argentina, perdendone due (1-0; 4-1) e infine riuscendo a pareggiare (1-1), in seguito furono sconfitti severamente dall’Estudiantes de la Plata (5-0) ma espugnarono il fortino dell’Independiente de Avellaneda (1-2); quindi si trasferirono nella città di Rosario dove sconfissero il Central (2-4) e persero nettamente di fronte all’altra squadra di casa, il Newell’s Old Boys (2-0). A quel punto la comitiva granata raggiungerà Montevideo, dove subirà una sconfitta netta contro la Nazionale uruguagia (5-1) ma riuscirà a pareggiare coi campioni d’Uruguay, i giallo-neri del Club Atlético Peñarol (1-1), prima di mettersi in viaggio per il Brasile. Questa volta il Torino – sicuramente affaticato dalle centinaia di chilometri macinati in treno – sarà duramente sconfitto al São Januário (6-0; 2-1), all’epoca lo stadio più grande del paese, dalla “combinata” carioca di Rio de Janeiro (composta dai giocatori di América, Botafogo, Fluminense e, sopratutto, Vasco de Gama), e dopo aver pareggiato (0-0) con il Paléstra Italia, che poi diventerà il Palmeiras, il Toro sarà travolto (6-1) da una “combinata” paulista, composta essenzialmente dai giocatori dello Sport Club Corinthians di São Paulo, chiudendo così quel lungo ed estenuante viaggio il 14 settembre 1929.
Anche il Grande Torino visiterà il Sudamerica. Nell’estate del 1948, anticipato dall’etichetta di squadra più forte del mondo e quindi generando aspettative e curiosità. La società granata, costruita dal presidente Ferruccio Novo, stava in effetti dominando il calcio italiano dal 1943 (e da allora non perdeva una partita in casa, al mitico campo del Filadelfia) e il 4 luglio aveva trionfato nel campionato italiano ancora una volta, annichilendo ogni avversario: in quel torneo il Grande Torino aveva schierato appena 15 giocatori, nell’arco di una lunga stagione a 21 squadre, confermandosi la migliore difesa (33 gol subiti) e il migliore attacco (125 gol realizzati), con il capitano Valentino Mazzola, oramai leggendario condottiero del cosiddetto “quarto d’ora granata” – quando si arrotolava le maniche e il Toro travolgeva chiunque – capace di segnare 25 gol. I granata, che si erano fatti apprezzare anche in Europa vincendo diverse amichevoli di prestigio, dal Belgio alla Spagna, conquistarono quello scudetto con diverse giornate di anticipo e con ben 16 punti di vantaggio sulle seconde classificate: il Milan, la Juventus e la Triestina. Quindi, dopo essersi imbarcati su un volo di linea della compagnia aerea brasiliana, i giocatori granata raggiunsero São Paulo dove rimasero dal 18 al 28 luglio, giocando in quei pochi giorni, ben quattro amichevoli: persero contro lo Sport Club Corinthians (2-1), pareggiarono con il Palmeiras (1-1) e il São Paulo (2-2), e vinsero poi contro la Portoguesa (4-1), entusiasmando il pubblico brasiliano e approfittando per prendere confidenza con l’ambiente del paese che avrebbe ospitato i campionati mondiali di calcio nel 1950, dove la Nazionale italiana avrebbe difeso il titolo conquistato nel 1934 e bissato nel 1938; Nazionale azzurra che – è bene ricordarlo – solo l’anno prima aveva sconfitto l’Ungheria, schierando dieci giocatori del Grande Torino su undici, in campo.
Nello stesso decennio però anche un squadra argentina era accreditata da molti critici e osservatori come la più forte al mondo: il River Plate, la grande squadra di Buenos Aires, che in quella decade segnò una vera e propria epoca. Negli anni Quaranta del secolo scorso infatti la Primera División era contesa principalmente da tre squadre, tutte molto forti: il Boca Juniors, campione nel 1943 e nel 1944 e il San Lorenzo de Almagro, campione nel 1946; ma nessuna si affermerà come il River che sarà campione nel 1941, 1942, 1945 e 1947 mancando per un soffio la vittoria, arrivando secondo, nel 1943, 1944, 1948 e 1949. Quella squadra impressionò, grazie a uno stile di gioco mai visto a quelle latitudini in precedenza: l’occupazione tattica degli spazi si sommava alla velocità di esecuzione e alla precisione delle giocate dei suoi cinque formidabili attaccanti: Juan Carlos Muñoz, José Manuel Moreno, Ángel Amedeo Labruna e Félix Loustau e Adolfo Pedernera, soprannominato El Maestro è il giocatore che ha inventato in Sudamerica il ruolo di trequartista, e che favorì l’inserimento – nell’ingranaggio, è proprio il caso di usare questo termine – di un altro mostro sacro Alfredo Di Stéfano. Infatti, ci si riferisce abitualmente a quel River Plate definendolo “La Máquina”, che potrebbe apparire un soprannome poco evocativo e quindi va contestualizzato: fu Ricardo Rodríguez, uno dei più grandi giornalisti sportivi sudamericani a coniarlo, quando nel 1942 dopo una partita contro il Chacarita Juniors, annientato per 6-2 al Monumental, scrisse a proposito del River su “El Gráfico” un articolo titolato “Jugó como una máquina”, dove esaltava il collettivo biancorosso: “El tiempo, el buen entrenamiento, la moral que posee el equipo y el valor individual de sus componentes, todo ha contribuido para que River en los actuales momentos dé la sensación de ser una máquina”. Dopo di lui, Eduardo Galeano, una delle personalità più autorevoli della letteratura latinoamericana e grande appassionato nonché fine conoscitore di calcio, proiettò quel River nella giusta dimensione paragonando quel gioco al totaalvoetbal di Rinus Michels, che alla guida dell’Olanda e dell’Ajax di Amsterdam rivelò al mondo il “calcio totale”, che La Máquina in realtà giocava trenta anni prima.
Un uomo in particolare segnò la storia del River Plate, assemblando “La Máquina”, esattamente come Furruccio Novo, che in quegli anni costruiva il Grande Torino: il presidente don Antonio Vespucio Liberti; fin da ragazzo trascorreva tutto il suo tempo aiutando i magazzinieri al campo di allenamento del River, dove lo chiamavano El Gordo, a causa della costituzione pingue, già in tenera età, ma tutti gli volevano un gran bene, considerandolo una sorta di mascotte. Una volta cresciuto, raggiunto il successo negli affari e addirittura la ricchezza, don Antonio venne eletto a furor di popolo – di soci, pardon – alla presidenza del club, governandolo a più riprese in un arco temporale di oltre due decadi, riuscendo a realizzare il suo sogno: rendere grande il River, ma grande davvero, senza badare a spese e attingendo largamente alle proprie finanze personali. Appena arrivato alla presidenza del sodalizio, che da circa un ventennio non vinceva, in un clima generale di rassegnazione dei propri tifosi, don Antonio decise di scuotere l’ambiente: fece confezionare, rinnovandole, le mitiche maglie bianche con la banda rossa in diagonale, provvedendo a consegnarle personalmente ai suoi giocatori, che ammoniva, uno per uno: “Cuídenla mucho, porque ésta es la camiseta de River”, come dire, cerca di averne cura e di meritarla, perché questa è la maglia del River!, in seguito decise di mettere mano al portafoglio per acquistare due giocatori straordinari: Carlos Peucelle, dal Club Sportivo, e Bernabé Ferreyra, dal Club Tigre, per una somma a quei tempi inaudita, pagata per la maggior parte in lingotti d’oro, meritando così il soprannome che da allora accompagnerà il club della capitale: “Los Millonarios”.
Don Antonio però aveva appena iniziato. E con l’entusiasmo che cresceva in modo irrefrenabile intorno al club decise di comprare un vasto terreno ai margini del prestigioso quartiere di Núñez e nel 1935 diede inizio alla costruzione di uno stadio gigantesco, inaugurato non appena furono agibili tre delle quattro tribune previste: nel 1938 era pronto. Il Monumental si presentava con il suggestivo aspetto di un ferro di cavallo, aperto verso il Río de la Plata, già in grado di ospitare ben oltre 60 mila spettatori; alla fine degli anni Cinquanta verrà attuata poi la chiusura dell’ovale, con la costruzione del primo anello della quarta tribuna, finanziata con il denaro pagato dalla Juventus al River, a seguito della cessione di Omar Sívori ai bianconeri. Don Antonio decise di affidare la sua squadra che iniziava a prendere forma a un giovane tecnico ungherese: Imre Hirschl, che aveva trasferito in Sudamerica il proprio know-how mitteleuropeo; don Antonio fu coraggioso, ma il giovane tecnico lo ripagò: grande equilibrio difensivo e rapidi cambiamenti in campo nella disposizione dei ruoli, a seconda delle fasi di gioco, portarono il River Plate alla vittoria del campionato nel 1936 e nel 1937 gettando le basi di quel gruppo formidabile che il suo successore affinerà. Toccherà infatti a Renato Cesarini, la celebre ex mezzala sinistra della nazionale italiana e della Juventus, di trasformare quella squadra già molto forte ne “La Máquina”, ovvero la rappresentazione dominante, anche sul campo da gioco, di quello che era diventato il River Plate: un club ambizioso e solido finanziariamente, ottimamente organizzato e gestito secondo criteri imprenditoriali, con uno stile che Liberti amava definire fútbol empresa e che Cesarini, insieme a Carlos Peucelle, nel frattempo ritiratosi dall’attività agonistica e diventato il direttore tecnico del club, riuscirà a trasferire nella prestigiosa “Escuela de River”. Lì nasceranno talenti del calibro di Alfredo Di Stéfano e Omar Sivori, per citare solo i due più celebri.
In quel periodo così denso di successi Don Antonio amava ripetere: “Dios no me dio la posibilidad de tener hijos pero me dio otra chance: ese lugar para mí lo ocupa River!” Non aveva mai avuto i figli che tanto avrebbe desiderato, ma Dio gli aveva concesso il privilegio di colmare quel vuoto occupandosi del River Plate!, che peraltro era di grande supporto alla Nazionale argentina, capace in quella decade di vincere quattro volte su cinque il massimo trofeo continentale, la Coppa América. Intanto, sulla sponda europea dell’Atlantico, un altro uomo aveva attraversato quel decennio dedicando tutta le sue energie alla squadra di calcio del suo cuore: il Torino; anche lui con l’obiettivo di renderla grande. L’Ing. Ferruccio Novo però stava per vivere un dramma senza pari, che nessuno al mondo avrebbe mai più dimenticato: accadde il 4 maggio 1949, la tragedia di Superga. Quel giorno sul Piemonte ed in particolare su Torino era in corso una tempesta di vento, pioggia e lampi, mentre la nebbia avvolgeva le pendici delle colline lambendo la città; ad un certo momento del pomeriggio, pochi minuti dopo le cinque, si avvertì un boato terribile che rintronò nel grandioso edificio della Basilica. Il trimotore Fiat G.212 delle Avio Linee Italiane, con a bordo 31 persone, fra le quali l’intera squadra sportiva del Torino, di ritorno dall’estero, si schiantò a piena velocità contro il muraglione del terrapieno posteriore del grande tempio. Il cappellano, don Tancredi Ricca, accorse sul luogo dello schianto, dove erano nel frattempo convenuti alcuni volenterosi contadini per portare soccorso, ma purtroppo non c’erano sopravvissuti fra i rottami dell’aereo, solo sagome annerite dal fuoco. Uno spettacolo spaventoso. I bagagli della comitiva erano stati scaraventati lontano dalla carlinga, letteralmente esplosa e accartocciata contro il muraglione, e fu allora che fra i soccorritori si levò una voce: “C’è una maglia rossa … misericordia, sono quelli del Torino!” Al sacerdote, rientrato in Basilica, non restò che dare l’allarme per telefono: “Sono tutti morti!”
“Il Grande Torino è calcio, ma non soltanto”. Fu Dino Buzzati a scriverlo, quando il Corriere della Sera gli chiese, come inviato speciale, di seguire – e spiegare agli italiani – la tragedia; “Anche chi non sa di sport, anche chi non mai ha sentito nominare – ma è impossibile – Valentino Mazzola, e così anche l’intellettuale che non ha mai letto di sport e disdegna il calcio, oggi si sono sentiti stringere il cuore”, così scriveva Buzzati, perché “Il dolore è davvero di tutti. Il tifo non conta”. Secondo Gianni Brera la spiegazione di tanto affetto diffuso era che “Quei calciatori, considerati pressoché imbattibili da oltre quattro anni, ossatura della Nazionale, non sono per una città, non sono solo per una sua parte: perché il Torino era lo sport, era la sua sintesi più armoniosa. Il Torino era l’Italia”. Forse anche in ragione di questa speciale grandezza, la Federazione decise di proclamare ufficialmente il Torino vincitore del torneo e quindi conferirgli il titolo campione d’Italia 1948/49; anche se il sodalizio granata in realtà aveva totalizzato sino a quel momento 52 punti, e mancavano quattro turni alla fine del campionato (tre di quelli li avrebbe disputati in casa nell’inespugnabile Filadelfia); erano ben quattro i punti di vantaggio sulle inseguitrici dell’Inter e del Milan (ma il Torino non poteva contare più nemmeno un titolare da mandare in campo) è vero, ma furono proprio i dirigenti delle due squadre milanesi – che con 48 e 46 punti avrebbero potuto ancora aggiudicarsi lo scudetto – a proporre generosamente la proclamazione del Torino, approvata all’unanimità. Tuttavia alla ripresa del torneo, dopo Superga, il presidente Novo decise che il Torino sarebbe tornato in campo per disputare le ultime partite di campionato, allo scopo di onorare il gesto delle avversarie di proclamarlo campione d’Italia, schierando i migliori ragazzi delle giovanili, cosa che fecero cavallerescamente anche gli avversari del Genoa, della Sampdoria, del Palermo e della Fiorentina, vincendo così – il Torino – anche sul campo.
Quando la notizia della tragedia arrivò a Buenos Aires il presidente del River, don Antonio, si commosse profondamente: da tempo accarezzava l’idea di organizzare una sfida senza precedenti, il suo River Plate contro il Grande Torino, per incoronare la più forte squadra al mondo. Entrambe le compagini erano infatti senza rivali in patria e nessuno avrebbe osato mettere in discussione la loro superiorità, nemmeno a livello continentale. Purtroppo non sarebbe stato più possibile giocarla quella sfida. Allora Don Antonio decise: “Nos vamos a Turín”, perché il River aveva il dovere morale, secondo il suo presidente, di recarsi in Italia per rendere omaggio alla memoria di quei campioni appena caduti e alla squadra che era un mito sportivo e adesso era diventata immortale, offrendo inoltre l’occasione al sodalizio torinista di una concreta solidarietà verso le famiglie dei caduti, destinando loro l’incasso di una partita celebrativa da organizzare. Il presidente Novo giudicherà il gesto “Una immediata prova di fraterno amore, e di una grandiosità pari a quella della tragedia”. Fu così che il River, con tutti i suoi campioni e con l’approvazione del presidente argentino, il generale Juan Domingo Perón, e di sua moglie Evita, partì alla volta dell’Italia. Il 26 maggio 1949 ebbe quindi luogo a Torino una partita unica. Infatti, il Club Atlético River Plate, con indosso le casacche bianche attraversate dall’iconica banda trasversale rossa, scese in campo per affrontare un gruppo di undici fuoriclasse, prestati da tutte le squadre italiane, che per l’occasione indossavano la maglia granata e si chiamavano Torino Simbolo, in un Comunale al limite della capienza; la partita-spettacolo terminò 2-2, e fu bella davvero. Così, prima di tornare a Buenos Aires, sia il presidente della Repubblica italiana, Luigi Einaudi, che Sua Santità, il papa Pio XII, vollero incontrare i calciatori del River Plate applaudendo il loro comportamento tanto nobile, che rinsaldava il vincolo fra i popoli fratelli dell’Italia e dell’Argentina.
E questa magnifica pagina di sport e amicizia troverà una degna replica quando – in occasione dei festeggiamenti per il cinquantenario della sua fondazione – il River Plate inviterà a Buenos Aires proprio il Torino Simbolo a giocare al Monumental; così il 29 giugno 1951, davanti a quasi centomila spettatori, niente meno che il generale Perón scese sul terreno di gioco per salutare uno a uno quei calciatori giunti dall’Italia, passando in rassegna le squadre e dando il calcio d’inizio. La partita la vinceranno nettamente gli argentini per 3-1, ma il Torino sarà applaudito con entusiasmo e salutato da un magnifico striscione granata apparso sulle gradinate e dedicato al capitano del Grande Torino: “Mazzola presente”. A fine partita il presidente Novo, distrutto dal lutto sempre vivo per i suoi ragazzi scomparsi e scosso dalla commozione, aveva omaggiato gli argentini regalando loro le maglie granata, che i giocatori del River Plate indosseranno nelle stagioni successive, preferibilmente nel mese di maggio, onorando così eternamente la memoria del Grande Torino. Trascorsi sette mesi da allora il River tornerà in Italia per affrontare il Torino: accadrà il 16 gennaio 1952 al Comunale, coi granata che (quell’anno arrivarono al 15° posto su 20 e non retrocessero in Serie B per soli due punti) pur non essendo all’altezza dei loro avversari riuscirono con orgoglio a difendere un memorabile pareggio, e fu comunque grande spettacolo, sempre allo scopo di raccogliere fondi, per ovviare in questo caso ad una situazione finanziaria assai difficile per Novo, il quale – commosso sino alle lacrime – consegnerà al presidente del River, don Antonio, un piatto d’argento con inciso il motto latino Cordium consensus vitam parit novellam [Il consenso dei cuori prepara il rinnovarsi della vita], come ringraziamento per l’amicizia e la sensibilità dimostrate.
Nella successiva stagione, quella 1952/53, il Torino vestirà per la prima volta una casacca ispirata alla divisa del River Plate, aggiungendo alla tradizionale seconda maglia bianca una striscia diagonale granata; peraltro, dopo aver fantasticato di riuscire a ricostruire una grande squadra in tempi brevi e non esserci riuscito, ormai deluso, sfiduciato e annichilito dal dolore, Ferruccio Novo abbandonerà la presidenza della società, sostituito da un gruppo di dirigenti passato alla storia come il Comitato di reggenza, che governerà la società per stagioni in cui la squadra per due volte otterrà un dignitoso 9° posto; in seguito arriverà, nella stagione 1955/56, un nuovo presidente: un industriale, banchiere e senatore, Teresio Guglielmone; egli tuttavia lascerà presto per motivi di precaria salute, e gli subentrerà in una condizione di precarietà un Comitato esecutivo che, nella stagione 1956/57, cercherà di mettere ordine e del quale faranno parte: Arturo Colonna, Beniamino Gay e Antonio Vespucio Liberti. Sì, proprio “quel” don Antonio Vespucio Liberti, che addirittura dovrà assumere la direzione tecnica del Toro, accompagnando per 4 giornate di campionato sulla panchina granata – dopo l’esonero di Fioravante Baldi – il fidato Oberdan Usello, che cederà poi la guida tecnica della società a un personaggio pittoresco ma inaspettatamente efficace: un allenatore serbo, Blagoje Marjanovic, che arriverà quasi per caso e salverà il Toro che, da ultimo in classifica su 18 squadre, condurrà a fine campionato al 7° posto, realizzando una vera e propria impresa, sempre fedele al suo proclama: “Per salvarsi le tattiche difensive non servono. Bisogna avere coraggio, rischiare. Per andare avanti occorrono gol e vittorie. E convinzione!”
Questa storia di #EternaAmicizia o, se preferite, #EternaAmistad, certifica la correttezza di un’affermazione impegnativa: oltre all’amore dei suoi tifosi il Toro aveva guadagnato il rispetto di tutti gli avversari e l’ammirazione di ogni sportivo, ovunque; nessuna squadra al mondo infatti ha mai rappresentato per il calcio quello che ha significato, e significa – perché, come scrisse Indro Montanelli, gli eroi sono sempre immortali – il Grande Torino.
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È l’autunno del 1897 quando un gruppo di studenti torinesi del Liceo Massimo d’Azeglio, fonda l’allora “Sport-Club Juventus”, come naturale conseguenza dei pomeriggi post-scolastici trascorsi a parlare dell’associationfootball, il nuovo sport – già affermato in Gran Bretagna – che si stava diffondendo come una febbre proprio a Torino, e che quei ragazzi avevano iniziato a giocare nella vicina piazza d’armi cittadina, imitando alcuni adulti che lo praticavano poco distante, al parco del Valentino.
Il Liceo “D’Azeglio” è oggi una delle scuole “storiche” di Torino: i suoi albori risalgono al 1831 quando nella zona sud-orientale della città, area di ampliamento nei primi decenni dell’Ottocento, venne istituito il Collegio di Porta Nuova, che nei primi anni funzionava solo con quattro classi di “grammatica”, cui a partire dal 1838-39 viene aggiunto l’insegnamento di “umanità” e infine, dall’anno scolastico 1845-46, anche l’insegnamento della “retorica” che completava il ciclo di studio all’epoca definito preparatorio. Nel 1852 il Collegio di Porta Nuova viene poi trasferito in via Arcivescovado, presso la Parrocchia della Madonna degli Angeli e più tardi, nel 1857, trova collocazione in quella che da allora è rimasta la sua sede, con il nome di Collegio Municipale Monviso, assumendo dal 1860 il nome di Regio Collegio Monviso. Con il crescere della popolazione torinese, in ripresa dopo gli anni difficili del trasferimento della capitale d’Italia prima a Firenze e quindi a Roma, intorno agli anni Ottanta del XIX secolo si sente il bisogno di creare un nuovo Liceo Classico (dopo il “Cavour” e il “Gioberti”, risalenti al 1859): nel 1882, in luogo del “Monviso”, viene così fondato il “D’Azeglio”, intitolato al grande uomo politico del Risorgimento, che comprendeva i cinque anni di corso ginnasiale (gli attuali tre anni di Scuola Media e i due ginnasiali) e i tre del corso liceale.
Gli studenti del Liceo degli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento appartengono, per lo più, alla borghesia che abita i palazzi della Torino umbertina e liberty (la zona della Crocetta e il corso Re Umberto), mentre le ragazze frequentavano scuole femminili o ricevevano una forma di insegnamento familiare. Del resto l’istruzione paterna (tramite un precettore) era ancora molto diffusa anche tra i maschi: talvolta si frequentava la scuola pubblica infatti solo per sostenere gli esami. I giovani fondatori del nuovo sodalizio sono quindi molto giovani, dapprima 13 ragazzi, le due coppie di fratelli liguri Eugenio ed Enrico Canfari e Gioachino ed Alfredo Armano, il toscano Luigi Gibezzi, i piemontesi Umberto Malvano, Carlo Vittorio Varetti, Umberto Savoja, Domenico Donna, Carlo Ferrero, Luigi Forlano, Enrico Piero Molinatti ed il pavese Francesco Daprà a cui si aggiunsero successivamente altri studenti, Guido Botto, Pio Crea, Carlo Favero, Gino Rocca ed Eugenio Secco, tutti con un’età compresa tra i quattordici e diciassette anni. Il luogo tipico di riunione di questi 18 liceali era una panchina non distante dalla loro scuola, di fronte alla pasticceria Platti verso il corso Duca di Genova, oggi corso Re Umberto, all’angolo di corso Vittorio Emanuele II; la panchina, dove i ragazzi poggiavano i loro libri e le loro cartelle, è custodita dal 2012 nel bellissimo museo del club bianconero, il J-Museum.
La data ufficiale di fondazione del club non è nota né contenuta in alcun documento e pertanto si assume come data convenzionale il 1º novembre 1897, mentre in Inghilterra da quasi trenta anni si disputava già il più antico al mondo e prestigioso dei tornei, che metteva in palio l’ambitissima The Football Association Cup [The FA Cup, o Coppa d’Inghilterra] vinta dai londinesi Wanderers (5), dall’Oxford University (1), dai Royal Engineers (1) del corpo genieri dell’esercito britannico, dall’Old Etonians (2) la squadra degli ex studenti del prestigioso Eton College, dal Clapham Rovers (1), dall’Old Carthusians (1) della Charterhouse School, dal Blackburn Olympic (1) e dal Blackburn Rovers (5), dall’Aston Villa (3), dal West Bromich Albion (2), dal Preston North End (1), dai Wolves del Wolverhampton (1), dallo Sheffield Wednesday (1), dal Notts County (1) e proprio quell’anno, per la prima volta, dal Nottingham Forest, mentre il più recente (si fa per dire, la prima edizione nel 1888) campionato inglese, denominato FirstDivision, era un affare fra il Preston North End (2), l’Everton (1), il Sunderland (3) e campioni in carica dell’Aston Villa (3) di Birmingham. Inizialmente invece a Torino i soci fondatori del neonato sodalizio erano impegnati ad affrontare il non secondario problema della sede, risolto però dai fratelli genovesi Canfari che offrirono il retrobottega dell’officina ciclistica di proprietà del padre, in corso Re Umberto, al numero 42, dove ebbe luogo la prima riunione sociale.
Dopo una discussione accesa e molto partecipata i giovani soci selezionarono tre possibili denominazioni, fra cui votare quello che sarebbe diventato il nome della loro creatura. Una era “Società Via Fort”, il prediletto dagli studenti più classicheggianti, l’altra, caldeggiata invece dai latinofobi, era “Società Sportiva Massimo d’Azeglio” e, infine la meno quotata “Sport-Club Juventus” che alla fine – benché la maggioranza propendesse per i primi due nomi – prevalse, forse perché suonava come un elegante compromesso tra un nome anglosassone e uno latineggiante, e sembrò di certo più adatto per favorire la diffusione del nuovo sport e la passione per la squadra anche fuori dell’ambito cittadino o regionale. Mentre in Inghilterra, che da Torino si osservava con curiosità, l’irlandese Bram Stoker aveva pubblicato a Londra il suo capolavoro, il romanzo horrorDracula, che in Italia sarebbe arrivato solo nel 1922, il già famosissimo e discusso Oscar Wilde era stato rilasciato dalla prigione, e abbandonava la Gran Bretagna dove non avrebbe più fatto ritorno, e il genio italianoGuglielmo Marconi aveva brevettato la radio, sempre a Londra, e nella capitale britannica fondato la Wireless Telegraph Trading Signal Company che diventerà poi la Marconi Company Ltd, Enrico Canfari, a cui dobbiamo l’unico documento con caratteristiche di “ufficialità” attestante con sufficiente certezza la nascita e i primi anni della Juventus, scriveva che pochi simpatizzavano per il nome scelto, e che fra gli oppositori c’era proprio lui, che era il più maturo del gruppo, perché gli sembrava che quel “Juventus” più non s’addicesse ai soci una volta fattisi maturi, ma riconobbe poi di avere torto “perché nella Juventus non s’invecchia”, e proprio lui ne divenne il secondo presidente, succedendo al fratello Eugenio il quale aveva occupato il ruolo a partire dalla fondazione del club che aveva iniziato ad allenarsi sfoggiando una divisa molto semplice: una camicia bianca e lunghi pantaloni neri.
Allenamenti e primi confronti continuarono a svolgersi in prevalenza nella piazza d’armi torinese e proprio lì il giorno 11 giugno 1899 ebbe luogo la prima amichevole documentata della Juventus giocata contro la rappresentativa dell’Istituto tecnico Germano Sommeiller di Torino, sconfitto per 3-0, con tutte e tre le segnature intervenute nel secondo tempo da parte degli juventini che nel frattempo avevano adottato quella che è comunemente considerata la storica tenuta di gioco della Juventus, una camicia rosa carnicino con cravatta o farfallino nero accompagnata a pantaloni e calzettoni pure neri, introdotta dopo la sua ridenominazione del sodalizio quale Foot-Ball Club Juventus nel 1899 e originariamente adottata, date le ristrettezze economiche in cui versava il club agli albori, essenzialmente per l’esigenza di ricorrere al tessuto meno costoso disponibile sul mercato, per l’appunto il percalle rosa. Comunque questa divisa, comprendente anche voluminose cinture, che richiamavano le fasce dei giocatori di palla basca, venne sfoggiata sino all’entrata nel Novecento, e accompagnò l’esordio della Juventus nel campionato italiano del 1900, quando la squadra debuttò l’11 marzo nelle eliminatorie piemontesi perdendo 1-0 contro la FC Torinese, ma cogliendo poi il suo primo successo della storia la settimana successiva (18 marzo), superando per 2-0 la Ginnastica Torino e chiudendo il girone al secondo posto, non sufficiente per qualificarsi alla finale, dove la FC Torinese sarà poi battuta dal Genoa per 3-1 ai tempi supplementari.
Invece la stagione successiva, nell’edizione del 1901, gli juventini saranno sconfitti in semifinale dal Milan, che poi si aggiudicherà il torneo, diventando campione d’Italia per la prima volta, dopo i tre successi consecutivi del Genoa. Nel mentre le divise rosanero avevano fatto il loro tempo in casa juventina, sia perché irrimediabilmente usurate dalla pratica sportiva, sia perché il rosa era ormai visto da più parti come una tinta non conforme all’immagine che il club desiderava trasmettere. A questo punto non è più dato conoscere con certezza lo svolgimento dei fatti, che si perde nei racconti di allora, tramandati in più versioni, confusi dal tanto tempo trascorso. Si fece avanti a un certo punto un socio di nazionalità inglese, tale Gordon Thomas Savage, noto anche come John o Jim, commerciante all’ingrosso di prodotti tessili a Torino, giocatore di calcio oltreché arbitro in alcune partite ufficiali. Qualcuno racconta che Savage propose di comprare a Nottingham delle nuove divise, rosse con bordini bianchi, simili a quelle utilizzate dal Forest, la storiografia ufficiale fissa convenzionalmente al 1903 questo momento, perché nelle sue memorie Enrico Canfari racconta di «un percalle sottile e roseo che portammo, sbiadito all’inverosimile, sino all’anno 1902».
Nuove ricerche hanno ventilato l’ipotesi di retrodatare financo al dicembre del 1901 l’abbandono del rosanero e il debutto della maglia bianconera, all’amichevole contro il Milan giocata l’8 dicembre 1901 al Campo Trotter di piazza Doria a Milano, perché sulla cronaca dell’incontro riportata il giorno seguente dal quotidiano meneghino Corriere dello Sport – La Bicicletta si presenta l’ingresso dei calciatori torinesi in campo «sfoggiando i nuovi colori non più bianco e rosa ma bianco e nero». Fatto sta che, ricevuto l’incarico, Savage si mise in contatto con una fabbrica tessile di Nottingham e inviò l’ordine d’acquisto, accompagnandovi come campione la più maltrattata delle vecchie camicie rosa. Alla vista dello scolorito capo, probabilmente l’impiegato del fornitore credette che la camicia anziché rosa fosse bianca e macchiata: sicché, vista la coincidenza con i colori bianconeri della più antica compagine di Nottingham, il Notts County, uno dei più antichi club del calcio inglese, fondato nel 1862, pensò bene di spedire in Italia una dotazione di uniformi appunto dei Magpies. A Torino, quando fu aperto il grosso pacco postale, inizialmente le quindici maglie a strisce verticali bianche e nere decisamente non piacquero, ma data la prossimità degli impegni ufficiali non vi erano alternative per i soci-giocatori juventini. Vale la pena di ricordare tuttavia che Savage prima di trasferirsi in Italia in Inghilterra aveva giocato a calcio militando nel Notts County che solo pochi anni prima aveva vinto la Coppa d’Inghilterra nel 1894 ed era la sua squadra del cuore.
In ogni caso i nuovi colori porteranno fortuna e segneranno la progressiva e inarrestabile ascesa del club bianconero. Intanto il 10 aprile del 1903 per la prima volta una squadra straniera venne invitata a disputare una gara in territorio italiano, successe al Velodromo Umberto I, dove la Juventus ospitò gli svizzeri del Montriond Lausanne, e venne sconfitta per 0-1. Mentre il 13 aprile 1903 i bianconeri parteciperanno per la prima volta alla finale del campionato italiano di calcio, sul campo sportivo di Ponte Carrega a Genova, in Val Bisagno, dove saranno travolta dal fortissimo Genoa che sconfiggerà la Juventus nettamente con un perentorio 3-0. Il 1904 tuttavia qualcosa cambierà, arrivarono alla Juventus nuovi soci e in particolare i tre fratelli Alessandro, Annibale e Riccardo Ajmone Marsan che organizzeranno al meglio le “riserve” e il cui facoltoso padre Marco si impegnerà a pagare l’affitto del nuovo campo di gioco ufficiale che diventò il Velodromo Umberto I, dotato di tribune che iniziarono a riempirsi. Nel campionato italiano di Prima Categoria, dopo avere vinto le eliminatorie, per la seconda volta consecutiva la Juventus arrivò in finale contro il Genoa, perdendo tuttavia ancora una volta sull’inviolabile campo di ponte Carrega, ma questa volta con il risultato di 1-0. Nel 1905 divenne poi presidente della Juventus lo svizzero Alfred Dick, un uomo caratteriale e spigoloso, grande organizzatore e proprietario di un’industria molto bene avviata di calzature, che rinforzerà la squadra inserendo alcuni giocatori, suoi dipendenti, che renderanno la Juventus più solida. In quella stagione la società spostò la sua sede a via Donati 1 e il nuovo presidente firmò un lungo contratto di affitto per l’utilizzo del Velodromo di corso Re Umberto.
Nel campionato dello stesso anno la Juventus aveva superato il girone eliminatorio vincendo 2-0 per forfait le due partite contro la Torinese, ritiratasi dalle eliminatorie regionali. Dopo due anni in cui la vittoria fu solo sfiorata nel 1905 finalmente la Juventus riuscì a cogliere il suo primo titolo di campione d’Italia. La nuova formula delle finali nazionali metteva di fronte tutti e tre i campioni regionali, ma la sorpresa arrivò dalla Lombardia: un Milan alle prese con un ricambio generazionale, causato dall’addio di molti dei suoi fondatori inglesi, fu per la prima volta eliminato dalla US Milanese in due gare spettacolari, come sovente se ne verificavano all’epoca. Nel girone finale però la US Milanese giocò prevedibilmente il ruolo del «vaso di coccio»: infatti perse i primi tre incontri, mentre gli scontri diretti tra la Juventus e il Genoa finivano in entrambi i casi in parità, ma quando all’ultima giornata i rossoblu del Grifone accolsero la US Milanese sicuri di una facile vittoria che li avrebbe condotti allo spareggio a sorpresa non si andò oltre il pareggio, consegnando di fatto il titolo per la prima volta nella sua storia alla Juventus che così poté sollevare la Coppa Spensley, donata alla Federazione Italiana di Football dal portiere del Genoa, James Spensley, e scolpita dallo scultore genovese De Albertis. Il trofeo rimpiazzò la Coppa Fawcus, appena vinta proprio dai genovesi, e si basava sugli stessi principi, venendo consegnata a titolo provvisorio a ogni squadra vincitrice del campionato, e a titolo definitivo a chi si fosse imposto per tre stagioni consecutive oppure cinque complessive.
Gli undici giocatori della Juventus che vinsero il campionato italiano per la prima volta furono Domenico Durante, che in seguito diventerà l’illustratore del mensile Hurrà Juventus e delle campagne promozionali dei bianconeri torinesi, Gioacchino Armano, Oreste Marzia, lo svizzero Paul Arnold Walty, il capitano Giovanni Goccione, lo scozzese Jack Diment, Alberto Barberis, Carlo Vittorio Varetti, Luigi Forlano, l’inglese James Squair e Domenico Donna, quest’ultimo giocatore-allenatore della squadra che quell’anno si aggiudicò anche il torneo di Seconda Categoria, a cui partecipavano sia le squadre riserve sia le prime squadre di club non iscritte alla Prima Categoria. Gli artefici della vittoria della Juventus II furono Francesco Longo, Giuseppe Servetto, Lorenzo Barberis, Fernando Nizza, Ettore Corbelli, Alessandro Ajmone Marsan, Ugo Mario, Frédéric Dick, Heinrich Hess, Marcello Bertinetti e Riccardo Ajmone Marsan, che a coronamento di una stagione straordinaria ottennero un clamoroso successo per 2-1 sui titolari, freschi campioni d’Italia, nella partitella in famiglia al termine del stagione.
Da allora le strisce bianche e nere sfoggiate dalla Juventus e riconosciute in tutto il mondo sono diventate un simbolo di autoritàe potere, che nella storia del calcio ha pochi eguali.
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Esiste solo una foto, piegata dal tempo, che ritrae un gesto clamoroso: una squadra di calcio schierata a centrocampo, rivolta verso la tribuna di uno stadio in costruzione dove i calciatori sono ritratti nel gesto di salutare le autorità e il pubblico in un modo tristemente familiare: il braccio destro teso. Fra loro uno solo ha le braccia lungo il corpo, verso il basso. È un mediano, e si chiama Bruno Neri.
Si tratta della partita inaugurale del nuovo stadio di Firenze – che ora conosciamo come Artemio Franchi – intitolato all’epoca a Giovanni Berta, giovane militante fascista e squadrista fiorentino ucciso dieci anni prima, dopo l’omicidio da parte delle squadre d’azione del dirigente comunista Spartaco Lavagnini, mentre da solo si trovava a transitare in bicicletta su di un ponte fu circondato e, dopo essere stato pugnalato, fu gettato nell’Arno al di là del parapetto del ponte. Terranno a battesimo il magnifico impianto sportivo in quel giorno del 13 settembre 1931 i fortissimi giocatori austriaci dello Sportklub Admira, squadra di Vienna che sarà proprio quell’anno campione nazionale, affrontando la giovane – ma ambiziosa – Fiorentina che, di fronte a ben 12 000 spettatori in estasi, riuscirà a imporsi vincendo 1-0. Il gol viola lo segnerà tal Pedro Petrone, due volte campione olimpico a Parigi nel 1924 e ad Amsterdam nel 1928 e campione del mondo nel 1930 con la nazionale uruguaiana, niente meno che il primo giocatore straniero a vestire la maglia della Fiorentina nonché il primo straniero a vincere poi la classifica dei marcatori della Serie A a girone unico. In quella circostanza l’impianto sportivo non era ancora stato edificato completamente, ma le aspettative erano molte e i cronisti dell’epoca ricordano che il pallone dell’incontro venne spettacolarmente lanciato da un aeroplano pilotato dal grande aviatore fiorentino dell’epoca Vasco Magrini, che sorvolò a lungo lo stadio prima dell’inizio della partita, impresa celebrata anche attraverso una splendida medaglia commemorativa realizzata da Mario Moschi, scultore e medaglista, che raffigura da una parte un calciatore e, sull’altra faccia, la città stilizzata di Firenze e il nuovo impianto sportivo.
Tanta enfasi non era ingiustificata, comunque. Infatti la nuova struttura progettata da Pier Luigi Nervi, il grande ingegnere che divenne il simbolo di un continuum tra il grande passato artistico dell’Italia e il presente, era ricca di elementi innovativi e addirittura avveniristici, per l’epoca: la grande pensilina a copertura della tribuna centrale priva di sostegni intermedi, ben tre scale elicoidali di accesso alle tribune opposte e la slanciata torre di Maratona, mentre il drenaggio del terreno di gioco era considerato tra i migliori d’Europa e nell’insieme all’altezza dello stadio Littoriale di Bologna, inaugurato nel 1927 da Leandro Arpinati – all’epoca deus ex machina del calcio italiano – e Benito Mussolini a cavallo, niente meno che il duce in persona. L’originalità, il carattere innovativo e la pregevolezza dell’opera fiorentina di Nervi, nel suo coniugare la raffinatezza estetica e il rigore strutturale con le eleganti e ardite strutture in cemento armato, furono comunque apprezzate dagli addetti ai lavori di tutto il mondo che lo definirono un capolavoro dell’architettura italiana evidenziandone anche l’assoluta eccezionalità nel panorama della produzione architettonica fiorentina dell’epoca. Uno dei maggiori allenatori degli venti e trenta, il grande Hugo Meisl, creatore e tecnico del Wunderteam austriaco, descrisse il nuovo impianto fiorentino come «il migliore stadio del mondo sia dal punto di vista strettamente estetico che da quello della funzionalità delle sue attrezzature sportive e della comodità per il pubblico: un’opera all’altezza di Firenze».
Il disobbediente Bruno Neri, nato a Faenza nel 1910, da ragazzo frequenta a Imola l’istituto agrario, e cerca di conciliare lo studio con gli allenamenti, perché già all’età di 16 anni disputa uno strepitoso campionato di rincalzo, la cosiddetta Divisione Nord, giocando titolare proprio nel Faenza dove si disimpegna nel ruolo di mediano. Le sue qualità non passano inosservate agli osservatori di un club neonato quanto già importante – la Fiorentina – che nell’estate del 1929 lo acquisterà per una somma all’epoca niente affatto trascurabile: ben 10 mila lire. Alla presidenza del club viola c’era il marchese Luigi Ridolfi Vay da Verrazzano fascista della prima ora, partecipò alla Marcia su Roma, squadrista e futurista, diventò imprenditore petrolifero, e fu mecenate nella musica, fondatore del Maggio Fiorentino, e nello sport, fondatore del sodalizio gigliato che voleva rendere immediatamente competitivo per partecipare al campionato di serie A, appena inaugurato. Quell’anno la Fiorentina raggiungerà un onorevole quarto posto in Serie B e il mediano faentino disputerà un campionato d’eccezione, meritandosi le lodi della stampa sportiva. Bruno Neri è un calciatore particolare, attento alla cultura e lettore accanito, frequenta musei e pinacoteche, è di casa al Bar delle Giubbe Rosse di Firenze, il suo linguaggio forbito gli consente di avere conversazioni e coltivare amicizie con giornalisti e scrittori. È un ragazzo silenzioso, attento a quello che dice, soprattutto è uno che in campo lavora sodo, non sbaglia un passaggio e dirige con maestria la linea del centrocampo viola, tanto che l’anno successivo al suo esordio, la Fiorentina vincerà il campionato di serie B con tre giornate di anticipo e il merito principale di quell’annata calcistica strepitosa, a giudizio unanime della stampa sportiva, sarà proprio di Bruno Neri.
A 22 anni per il calciatore di Faenza arriva la convocazione nella nazionale B, allenata da Vittorio Pozzo, l’esordio è Italia-Austria che si disputa il 5 maggio 1932, in seguito sarà inevitabile la convocazione nella squadra nazionale maggiore, quella che aveva vinto il campionato del mondo del ’34. È il 25 ottobre del 1936 e a Milano si gioca Italia- Svizzera, finita con un netto 4 a 2 per l’Italia, ed ecco quanto riferisce del mediano di Faenza la Gazzetta dello Sport: «Neri imposta magnificamente l’azione che sviluppa Meazza, Ferrari, Piola». Del resto la stagione 1934/45 aveva visto i giocatori gigliati, tra i protagonisti della Seria A: grazie a una buona difesa e a una notevole partenza in campionato, la Fiorentina si laureò addirittura campione d’inverno il 3 febbraio 1935. La squadra viola non riuscì a ripetersi nel girone di ritorno, complici alcune sconfitte sul finale di stagione e finì terza in classifica dietro ai bianconeri della Juventus e ai nerazzurri dell’Ambrosiana-Inter, conquistando comunque il diritto di partecipare per la prima volta alle competizioni europee, prendendo parte alla Coppa dell’Europa Centrale, dove la Fiorentina esordirà il 16 giugno 1935 a Budapest, sconfiggendo i fortissimi ungheresi dell’Újpest Football Club per 2-0, mentre verrà eliminata ai quarti dallo Sparta Praga, che in seguito vincerà il prestigioso trofeo mitteleuropeo di quell’edizione.
L’anno successivo Bruno Neri passa alla Lucchese che nel frattempo aveva conquistato la Serie A a girone unico per la prima volta. La squadra era composta da giocatori molto forti per la categoria di provenienza, tra cui il portiere Aldo Olivieri e Vinicio Viani, che realizzò addirittura 35 reti in 34 partite. Le “pantere” erano guidata dall’allenatore ungherese Ernő Egri Erbstein, e in quella stagione di esordio nella massima serie, anche grazie all’esperienza e al contributo di Bruno Neri, la squadra rossonera raggiunse un notevole risultato per una matricola: addirittura il 7º posto assoluto. La stagione successiva, Erbstein raggiungerà la sponda granata di Torino dove Ferruccio Novo gli chiederà di allestire quella squadra formidabile che poi avrebbe dominato la Serie A negli anni a venire: il Grande Torino. In principio tuttavia si trattava di gettare le basi, e il grande tecnico aveva bisogno di un mediano affidabile, e così invitò Bruno Neri a raggiungerlo nel capoluogo piemontese dove il faentino vivrà, frequentando artisti e intellettuali che lo videro come lo ricorda il grande storico ed economista AntonelloGerbi, già a capo dell’Ufficio Studi della Banca Commerciale Italiana: «Neri frequentava giovani giornalisti e scrittori, alcuni di loro lo avevano scelto come modello di personaggio, come esempio di atleta con una sensibilità aperta e cordiale, dotato di fermezza di carattere e schiettezza nei rapporti, coraggio e fiducia nel prossimo». A Torino il faentino fu tra i più presenti, giocò e molto fino al 1940, quando a seguito di una serie di incidenti dovette ritirarsi all’età di 30 anni: disputò la sua ultima partita a Milano contro l’Ambrosiana-Inter, finita 5 a 1 per la squadra nerazzurra.
Ritornato a Faenza con un consistente gruzzolo di 600 mila lire, Bruno Neri intensifica i rapporti con il cugino Virgilio, notaio con studio a Milano, dove compra una grande officina meccanica e mette a lavorare alcuni suoi amici. Gli eventi politici tuttavia precipitano e sempre attraverso il cugino, Bruno Neri decide di entrare nella Resistenza. Sono passati molti anni oramai da quel gesto del 13 settembre 1931, che precedeva cronologicamente la fama sportiva che Bruno Neri avrebbe conseguito in seguito e proprio per questo si tratta di un gesto coraggioso, quanto pericoloso. All’epoca erano passati cinque anni dall’omicidio di Giacomo Matteotti, solo tre da quando i partiti di opposizione erano stati sciolti, il diritto di sciopero abolito, la libertà di stampa ridimensionata e Antonio Gramsci incarcerato. Erano passati solo due anni dalle elezioni del 1929 quando la quasi totalità dei circa nove milioni di italiani che andarono a votare dissero va bene, si proceda, ci fidiamo del Fascismo, è tutto a posto, mentre Bruno Neri, apartitico, forse simpatizzante azionista, nutriva la convinzione di stare dalla parte giusta, quella opposta. Decide per questo che è il momento di mettere in gioco quel moto di spirito che lo percorreva, certo in un campo diverso rispetto a quello con linee, pali e traverse, fatto di sentieri di montagna, boschi e nascondigli in casolari isolati. Inquadrato nel battaglione Ravenna, “Berni” questo il nome di battaglia, partecipa all’operazione «Zella», in pratica provvede di persona al trasporto in bicicletta di una radio che farà da centro di informazione per i gruppi partigiani della sua zona. Nel 1944 torna perfino a giocare a calcio nel campionato Alta Italia con la maglia del Faenza, chiudendo così il cerchio e indossando per l’ultima la maglia della sua città natale con la quale aveva debuttato ad appena 16 anni.
È il 10luglio del ’44. Con la bella stagione la montagna è meno dura e le operazioni partigiane si intensificano. Durante una di queste Bruno Neri, o “Berni”, è con l’amico Vittorio Bellenghi, anche lui di Faenza, e insieme devono controllare la strada di Marradi, vicino Firenze, per recarsi a Gamogna dove sul monte Lavane c’è da recuperare un aviolancio delle truppe alleate. I due percorrono la strada e, dopo una svolta, si trovano di fronte a quindici soldati nazisti con divise, fucili ed elmetti, non magliette e pantaloncini. È l’ultima partita. I tedeschi sono più svelti, in un attimo arretrano, si riparano dietro un parapetto ed iniziano a sparare all’impazzata sui due partigiani che inizialmente rispondono al fuoco, poi si rendono conto di essere in strada e senza ripari e battono in ritirata: troppo tardi perché vengono raggiunti da una scarica di pallottole che non lascia scampo a nessuno dei due. A Bruno Neri è oggi intitolato lo stadio cittadino di Faenza.
Lo dicevamo all’inizio: questa storia ci insegna qualcosa pur essendo così lontana nel tempo e nel contesto. Prendere una posizione. In campo e fuori, nelle piccole e nelle grandi battaglie.
[Disclaimer. Le immagini digitali e/o fotografiche utilizzate sono estratte in rete e principalmente (ma non solo) dalle pagine https://it.m.wikipedia.org/ dove si legge la dichiarazione che le fotografie sono nel pubblico dominio poiché il loro copyright è scaduto o altrimenti possano essere riprodotte in osservanza dell’articolo 70 comma 1 della legge 22 aprile 1941 n. 633 sulla protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio, modificata dalla legge 22 maggio 2004 n. 128, e comunque della normativa vigente, in ragione delle mere finalità illustrative e per fini non commerciali, non costituendo concorrenza all’ipotetica utilizzazione economica dell’opera di chiunque altro].
La passione e il tifo per la squadra di calcio del Torino, i cui giocatori indossano la casacca granata, dal 2008 è definita in Treccani fra i neologismi: granatismo, sostantivo maschile.
Giusto. Infatti l’identità di una squadra passa anche dalla divisa, anzi nel calcio i due concetti si fondono. È tramite la maglia, la divisa appunto, che si identifica la squadra, il suo colore è un simbolo intimo, che anima il tifoso in ogni città o nazione, e rappresenta la storia, la missione e gli obiettivi di un sodalizio. Proprio la maglia della squadra del cuore permette all’individuo di sentirsi gruppo, e di condividerne con altri il culto, così centrale nel calcio. Allora, veniamo al colore di quella del Toro, di maglia. Non lo sappiamo con certezza, perché nessuno l’ha scritto inequivocabilmente e sopravvivono quindi alcune teorie sul perché la scelta del colore cadde sul granata. Alcuni parlano di un possibile riferimento al club svizzero del ServetteFootball Club 1890, la squadra che deve il nome a un quartiere di Ginevra, una delle formazioni più forti all’epoca dei pionieri del calcio, soprannominata les Grenat [i granata] e molto amata dalla comunità elvetica, così vivace a Torino. Altri sostengono un’altra teoria, che evoca l’omaggio alla casacca maroon degli inglesi dello SheffieldFootball Club, riconosciuta nella storia di questo sport come la più antica squadra di calcio al mondo, fondata nel lontano 1857 nella cornice della città inglese dell’acciaio. Peraltro c’è un’altra spiegazione possibile, molto più romantica, che vede nella gradazione scelta dai fondatori del Toro un richiamo alla Brigata Savoia, magnifica protagonista della difesa di Torino in occasione del tremendo assedio franco-spagnolo del 1706. E vale la pena di raccontarla bene, questa storia.
“È senz’altro l’invenzione di osservatori superficiali la leggendaria monotonia della città, come un mascheramento da cui l’ingenuo e l’impaziente si lasciano ingannare. Invece, sotto quell’apparenza così ovvia, Torino è una città per intenditori”. Così definiscono la città sabauda ne La donna della domenica, uno dei loro capolavori, Carlo Fruttero e Franco Lucentini. Città per intenditori, quindi. Non potrebbe essere altrimenti. Una città fiera e quasi straniera al resto del Paese dove quasi tutto è nato: l’automobile, il cinema, il cioccolatino, la gianduia, il grissino, la radio, la televisione, il tramezzino, il vermut e l’Unità nazionale. Una città considerata magica, dai conoscitori dell’occulto, che incarna e racchiude una profonda tensione verso il mistero, sullo sfondo di una metropoli ordinata e precisa, ammantata di grazia, densa di riserbo e chiaroscuri, agiata senza sfarzo, elegante ma discreta, golosa di piccoli piaceri accompagnati da un’energia non manifesta, che cela un cuore folle. E un cuore Toro. A proposito, proprio a Torino, in Italia, è nato (anche) il calcio.
La società calcistica più antica d’Italia è il Genoa, come i rossoblu genovesi dichiarano orgogliosamente. Ed è vero, naturalmente. Tuttavia occorrerebbe una precisazione. Infatti il Genoa è certo la squadra più antica d’Italia, ma fra le quelle ancora in attività. Per amor di verità bisogna riferire che, al tempo della fondazione del glorioso sodalizio del Grifone – avvenuta nel 1893 a Genova – in quel di Torino si palleggiava già da un bel pezzo. Francesco Crispi nel 1887 formava il suo primo governo, Giuseppe Verdi tornava a scrivere e trionfava alla Scala con l’Otello. Invece l’Italia, che aveva appena festeggiato i suoi primi 25 anni dall’unificazione, rinnovava il trattato della Triplice Alleanza con Germania ed Austria-Ungheria. E sempre in quel 1887 Edoardo Bosio, un ragioniere di origine elvetica, impiegato presso la sede torinese della grande casa inglese di tessuti Thomas & Adam, rientrando a Torino dopo una lunga trasferta presso la casa-madre a Nottingham, portava con sé un vero pallone di cuoio brevettato per il gioco del calcio e una copia delle regole dell’associationfootball, che lui aveva praticato ed era capace di giocare. Bosio aveva in effetti l’intenzione di creare un’organizzazione che consentisse la diffusione della pratica di quel gioco, e per questo fondava il primo undici italiano, il più antico sodalizio d’Italia in assoluto, che in quel 1887 indossava una camicia a righe rossonere, un berretto in testa e lunghi calzoni: era il Torino Football & Cricket Club, che aveva sede in piazza Solferino, nel salotto di casa del fondatore.
Un paio d’anni dopo, nel 1889, veniva approvato con l’unanimità dei voti in Parlamento il cosiddetto CodiceZanardelli che aboliva la pena di morte (ancora in vigore nei principali Stati europei) per tutti i reati, e consentiva la libertà di sciopero, in condizioni non-violente e anti-intimidatorie. Inoltre introduceva la libertà condizionale, il principio rieducativo della pena ed aumentava la discrezionalità del giudice al fine di adeguare la pena alla effettiva colpevolezza del reo, ammettendo inoltre l’infermità mentale certificata come causa di esonero dal processo, rendendo quella italiana una società più liberale. In quello stesso anno, venne fondato, per volontà del grande ammiraglio, esploratore e alpinista italiano Luigi Amedeo di Savoia, futuro Duca degli Abruzzi, il Nobili Torino. La seconda squadra più antica d’Italia, che permetteva ai rappresentanti dell’aristocrazia cittadina di cimentarsi con il calcio, sfoggiando una maglia a strisce gialle e nere. E sempre allora Friedrich Nietzsche, ebbe un crollo mentale, proprio mentre si trovava a Torino, città che il grande pensatore amava più di ogni altra. Successe che trovandosi in Piazza Carignano, nei pressi della sua casa, dove aveva scritto L’Anticristo, Il crepuscolo degli idoli ed Ecce Homo, vedendo un cavallo adibito al traino di una carrozza fustigato a sangue dal cocchiere, Nietzsche intervenne in difesa dell’animale. Dopo averlo abbracciato, avergli sussurrato qualcosa di incomprensibile e baciato, il grande filosofo cadde a terra in preda a violenti spasmi, e fu soccorso. Dopo questo singolare episodio di follia in pubblico Nietzsche verrà condotto lontano da Torino, per essere ricoverato in Svizzera e non si riprenderà fino al termine dei suoi giorni dal devastante accesso di follia che l’aveva colto nella città sabauda, ma la sua lucida dottrina verrà considerata la più influente nel plasmare la mentalità occidentale fra il XIX e il XX secolo.
Fondendosi poi nel 1891 con il Nobili, il Torino Football & Cricket Club assumerà la denominazione di International Football Club e sarà la squadra protagonista delle prime due edizioni del campionato italiano di calcio, che inizierà nel 1898. Il nuovo club adotterà brevemente una casacca di colore granata, ispirata alla divisa maroon dello Sheffield Football Club, il più antico club di calcio al mondo, salvo poi abbandonarla in favore di una maglietta a strisce bianche e nere. Il 16 marzo 1898 a Torino si era costituita intanto la Federazione Italiana Football (Fif),che poi sarebbe diventerà Federazione Italiana Giuoco Calcio (Figc): ancora non lo poteva immaginare nessuno, ma questo nuovo sport stava per entrare prepotentemente in modo decisivo nell’immaginario e nella vita degli italiani, diventando fenomeno sociale e culturale, e non semplicemente sportivo. Sempre a Torino, poco più di due mesi dopo la nascita della federazione, l’8 maggio 1898, al Velodromo Umberto I veniva organizzata la prima edizione del Campionato italiano di calcio, con 4 squadre partecipanti. Sarà il Genoa ad imporsi, unico sodalizio non torinese, inaugurando la prima – benché breve – rivalità del nostro calcio, quella contro l’International, che perderà la finale ai tempi supplementari contro i genovesi, mentre nel successivo campionato il Genoa difenderà il titolo ripetendo la stessa finale, ma questa volta sconfiggendo l’International di stretta misura. Quest’ultima società poi, a causa di una crisi finanziaria, si fonderà nel 1900 con un altro sodalizio cittadino, che aveva mosso i primi passi già nel 1894 come sezione calcistica del Circolo Pattinatori del Valentino, club di pattinaggio e hockey su ghiaccio nato vent’anni prima, e poi diventata autonoma nel 1897 con il nome di Torinese, grazie all’intervento del duca degli Abruzzi, quel Luigi Amedeo di Savoia, che era già stato ispiratore dei Nobili Torino.
La fusione con l’International diede i suoi frutti, tanto che il nuovo Football Club Torinese arrivò a giocare la finale del terzo campionato nazionale, contendendo l’edizione del 1900 al solito Genoa, che tuttavia prevarrà nettamente e sarà per la terza volta consecutiva campione d’Italia, mentre a Enrico Bosio – che dovremmo considerare il padre del football, in Italia – sempre sconfitto in tre finali su tre, rimarrà la soddisfazione di aver segnato il primo gol ufficiale nella storia del calcio italiano. Intanto, nella città sabauda oramai si stava affermando un’altra squadra: la Juventus, nata nell’autunno del 1897 come “società civile per gioco, per divertimento, per voglia di novità”, su iniziativa di alcuni giovani studenti della terza e quarta classe del liceo classico Massimo d’Azeglio. I ragazzi si davano appuntamento in prossimità di una panchina non distante dalla loro scuola, di fronte alla pasticceria Platti verso il corso Duca di Genova, oggi corso Re Umberto, all’angolo di corso Vittorio Emanuele II, per discutere di sport, e in particolare del football, che dalla Gran Bretagna si stava diffondendo nel resto d’Europa. I ragazzi si ritrovavano poi nella vicina piazza d’armi del quartiere Crocetta per giocare a calcio, e lì scelsero la prima divisa sociale che prevedeva una camicia bianca e pantaloni alla zuava, che sarà presto sostituita da una camicia rosa con cravattino nero, finché nel 1903 arrivarono da Nottingham, sempre Nottingham!, delle divise da gioco più moderne, quelle del Notts County a strisce verticali bianche e nere.
Nel 1906, l’anno in cui il Torino vedrà la luce, proprio la Juventus era la squadra campione d’Italia, avendo vinto nella primavera dell’anno precedente il titolo nazionale, sconfiggendo il Genoa nella partita decisiva. In Europa invece il clima stava cambiando, e iniziava proprio quell’anno una vera e propria “corsa agli armamenti”. Successe quando la Royal Navy britannica varò il 10 febbraio, presso l’arsenale di Portsmouth, la HMSDreadnought [il cui nome significa: “che non teme nulla”]. Fu una nave così rivoluzionaria per l’epoca che il suo nome di battesimo divenne il termine generico per indicare le navi da battaglia moderne, che avevano pensionato le precedenti. La sua introduzione innescò infatti una vera e propria gara ad armarsi tra la Gran Bretagna e le altre marine militari del mondo, in particolare quella della Germania imperiale, circostanza che gli storici considerano una delle cause della prima guerra mondiale. Il 7 febbraio del 1910 quella la nave fu poi il teatro di una burla che all’epoca fece molto “rumore”, perché organizzata da Horace de Vere Cole, un ricco cittadino anglo-irlandese considerato un gran burlone, i cui scherzi avevano ampia risonanza mediatica. Egli inviò addirittura un falso telegramma alla Royal Navy proponendo di accettare una visita a bordo della temibile nave militare da parte di alcuni membri della casa reale abissina durante il loro viaggio in Inghilterra che lui aveva organizzato.
Questi in realtà erano cinque amici di Cole, tra cui c’era la scrittrice Virginia Woolf, vestiti con abiti tribali e con il volto dipinto di nero. I falsi diplomatici durante l’intera visita mostrarono di non comprendere una sola parola di inglese, e si espressero rivolgendosi ai disorientati ufficiali della Royal Navy solo in un incomprensibile idioma di fantasia ricco di termini greci e latini esclamando ripetutamente “Bunga! Bunga!”, come segno di ammirazione per la potenza della nave da guerra e dei suoi apparati. L’espressione, fece allora il giro del mondo, e quasi cento anni dopo, tornerà agli onori delle cronache in Italia, per altri motivi. Invece, sempre in Italia ma al confine con la Svizzera, il 19 maggio del 1906 venne inaugurato dal re Vittorio Emanuele III e dal presidente elvetico Ludwig Forrer, un’imponente opera di ingegneria: all’epoca della costruzione, e per i successivi 76 anni, la più lunga galleria ferroviaria del mondo. Il traforo del Sempione. Il traffico regolare dei treni iniziò in realtà solo il successivo primo giorno di giugno, quando l’opera – che avrebbe permesso al mitico Orient Express di collegare Parigi a Istanbul, senza attraversare la Germania – fu celebrata nel corso dell’Esposizione Universale che si tenne in quello stesso anno a Milano, in grandiosi padiglioni ed edifici appositamente costruiti nell’area alle spalle del Castello Sforzesco, l’attuale Parco Sempione. Appunto.
La sera del 3 dicembre di quello stesso 1906 poi un gruppo composito di sportsmen si diede finalmente appuntamento a Torino, nei locali della birreria-ristorante “Voigt” di Via Pietro Micca, sotto i portici del Palazzo Fiorina. Si tratta di un edificio splendido, concepito nel 1860 e ancora oggi esistente, la cui costruzione venne finanziata dalla famiglia Fiorina, che lo fece arricchire con magnifiche decorazioni tra il liberty e il tardo-barocco ed eleganti porticati con capitelli neoclassici. Il rossiccio condominio fu sede dell’omonimo Grand Hotel Fiorina, per molti anni il più lussuoso di Torino, e della storica libreria Slavia, poi nel 1872 rinominata Petrini, dove Edmondo De Amicis scrisse il suo capolavoro: il libro Cuore. I commensali quella sera erano di diversa estrazione, ma tutti animati dal desiderio di contendere alla Juventus, quell’anno sconfitta in finale dal Milan per non essere voluta scendere in campo, ma già campione d’Italia la stagione precedente, il primato cittadino. C’erano alcuni soci del FootballClubTorinese, perché il sodalizio giallo e nero era oramai prossimo allo scioglimento, e altrettanti soci dissidenti della Juventus, guidati niente meno che dal suo ex presidente. Alfredo Dick, che da poco era stato estromesso dalla maggioranza dei soci bianconeri. Questi ultimi nonostante gli ottimi risultati sportivi e di gestione mal sopportavano un’impronta sempre più autoritaria e il crescente ostracismo espresso da Dick verso gli italiani, criticati per il loro stile di vita, da lui giudicato troppo distante dal rigore svizzero che avrebbe dovuto caratterizzare la “sua” Juventus.
Alfredo Dick era un affermato imprenditore del settore calzaturiero, dove aveva fondato la società anonima Manifattura di Pellami e Calzature – M.P.C., sviluppando diverse partnership commerciali e diventando nel 1909 presidente della neonata Associazione dei Fabbricanti Italiani di Calzature, alla quale aderirono i più grandi calzaturieri di quel periodo: Oreste Vitale (Borri e Vitale di Busto Arsizio), Giovanni Gilardini di Torino, Ermenegildo Trolli (calzaturificio Di Varese) e il cavalier Pietro Giulini di Vigevano. Si trattava di un uomo rigoroso, con un carattere difficile e spigoloso. Ad esempio, nel 1906 fece perdere alla Juventus, campione in carica, la finale contro il Milan a tavolino, per non averla fatta scendere in campo, per principio. Non essendogli stata rinnovata la presidenza Dick, risentito, abbandonò la Juventus e le tolse il terreno di gioco – il Velodromo Umberto I – che lui aveva preso in affitto personalmente, per offrirlo al Torino, che contribuì a fondare, prima di morire. La tragedia accadde nel 1909 quando, come amministratore delegato della Manifattura Pellami e Calzature, Dick aveva compiuto una serie di errori tecnici nelle emissioni degli ordini, a causa dei quali l’azienda perse quasi centomila lire. Dick allora si assunse la responsabilità dei propri errori di fronte al consiglio d’amministrazione e, sconvolto più dalla vergogna che dal danno economico – non irreparabile – il giorno successivo si recò nei suoi uffici, presso il Velodromo Umberto I, e si suicidò sparandosi a una tempia. Aveva solo 44 anni e lasciava la moglie e quattro figli.
Ma adesso torniamo qualche anno indietro, alla sera del 3 dicembre 1906, quando presso la birreria Voigt (oggi bar Norman) in via Pietro Micca, venne costituito il direttivo della nuova società: vicepresidente Alfredo Dick (ex Juve), segretario Walter Streule (ex Juve) e tesoriere Kuster; consiglieri furono scelti Oreste Marzia (ex Juve), Muetzell e Federico Ferrari-Orsi mentre i revisori sarebbero stati Pletscher, Emilio Valvassori e Enrico Debernardi. E così a soli dieci minuti dallo scoccare della mezzanotte, un brindisi festoso consacrava lo svizzero Franz Josef Schönbrod, eletto dagli altri soci all’unanimità, primo presidente del Foot Ball Club Torino, il nuovo sodalizio cittadino cosi fortemente voluto da Dick, il cui statuto, “espressamente esclusa ogni questione politica o religiosa”, fissava i colori sociali nel “granata e bianco”. È giunto quindi il momento di avanzare un’altra ipotesi oltre a quelle già tratteggiate circa la scelta del colore. Il granata, appunto. E quella che segue di ipotesi è senz’altro la più romantica, e a parer mio la più probabile. Infatti, nel 1906 correva il bicentenario dell’assedio di Torino, evento epocale nella storia del Piemonte, avvenuto appunto nel 1706 – durante la Guerra di successione spagnola – quando oltre 44 mila soldati francesi accerchiarono Torino, difesa da circa 10 mila soldati sabaudi che combatterono strenuamente dal 14 maggio fino al 7 settembre, quando l’esercito a difesa della città, comandato dal Principe Eugenio e dal duca Vittorio Amedeo II, costrinse i nemici francesi alla ritirata. Il fallito tentativo di conquistare la città, che gli storici considerano l’inizio del Risorgimento, e la sconfitta dell’esercito del Roi Soleil, il potentissimo Luigi XIV di Francia, fece conquistare ai piemontesi il rispetto di tutta Europa.
E proprio al duca Vittorio Amedeo II, che a seguito di questa vittoria diventerà il primo re della dinastia di casa Savoia, dobbiamo forse l’iconica maglia del Toro. Difatti, mentre infuriava la battaglia decisiva per le sorti dell’assedio, i due Savoia – Eugenio e Vittorio Amedeo II – dopo aver studiato attentamente la loro tattica, dall’alto della collina di Superga, decisero di attaccare il nemico su più fronti, contemporaneamente, per rompere gli equilibri militari e la morsa dei francesi. Quindi dall’alba fino al pomeriggio del 7 settembre francesi e piemontesi si scontrarono presso Lucento, esattamente dove oggi ha sede il centro sportivo della Continassa e si allena la Juventus, e presso la località detta in piemontese Madòna ‘d Campagna. Vinsero i piemontesi, su entrambi i fronti. E tuttavia trovandosi a distanza e non riuscendo a comunicare a vista, fu un cavalleggero della Brigata Savoia, partito al galoppo, a portare le informazioni necessarie da un comando all’altro. Attraversando le linee nemiche in rotta il soldato sabaudo venne però ferito gravemente e arrivò morente al cospetto del Duca, con la divisa intrisa di sangue, per riferire il messaggio che fu solo in grado di sussurrare, prima di spirare fra le braccia del nobile condottiero: “Savoie bonne nouvelle”. Savoia buone notizie: abbiamo vinto, Torino è salva. E fu così che Vittorio Amedeo II, prendendo in mano la stoffa della divisa intrisa dal sangue del giovane, si commosse e stabilì che da quel giorno, a ricordo del sacrificio di quel soldato e della vittoria dei piemontesi, la Brigata Savoia avrebbe indossato un fazzoletto di colore granata, come il sangue versato.
Allora, quale miglior colore per la divisa del Foot Ball Club Torino? La scelta convinse tutti i soci, e se alla sua prima partita, un’amichevole giocata il 16 dicembre 1906 contro la Pro Vercelli, non è certo che il Torino sia sceso in campo con un completo granata, è sicuro che – agli ordini del capitano Johann Friedrich Bollinger – il Toro sfoggiò la sua iconica divisa il giorno della sua prima gara ufficiale, con poco più di un mese di vita alle spalle. Era appena iniziato il 1907 e in Piazza Castello aveva aperto la Buvette Mulassano, che sarebbe stato eletto a elegante ritrovo della nobiltà torinese, ma anche degli artisti del vicino Teatro Regio, fra splendidi specchi, tavoli in marmo e ricche decorazioni, quando il 13 gennaio, sul campo del Velodromo Umberto I, in zona Crocetta, nella cornice invernale offerta da un clima rigido a causa delle precedenti nevicate, il Toro affrontò e sconfisse la Juventus per 2-1, nella prima stracittadina della storia, fra bianconeri e granata: il cosiddetto derby della Mole. La Juventus fu così eliminata dal campionato nazionale proprio dal neorivale Torino che al primo successo abbinò anche quello nella partita di ritorno, ottenuto con un roboante 1-4 siglato da Hans Kämpfer che segnò tutte le 4 reti, stabilendo un record rimasto imbattuto e portando il Toro al girone finale dove per un soffio, un solo punto di differenza, la formazione granata non si laureerà campione d’Italia al primo tentativo, cedendo il prestigioso alloro al Milan.
E allora, una volta ancora: buon compleanno, Toro.
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Gli anni Ottanta sono stati un’epoca considerata superficiale a motivo di uno stile di vita frivolo, teso al raggiungimento della felicità individuale e dell’affermazione personale. L’esatto opposto del decennio precedente – gli anni Settanta – ricordato come un periodo di grande impegno politico e, sebbene attraversato dalla degenerazione dell’ideologia e dal terrorismo, prolifico di pensieri desiderosi di cambiare il destino di un’intera generazione. In particolare, il passaggio dai Settanta agli Ottanta comportò in Italia una cesura brutale, a cui ci si riferisce definendola riflusso, per comprendere la quale occorre fare un passo indietro, ai Sessanta. Quelli furono gli anni del miracolo economico, quando si propose per la prima volta, dal punto di vista politico, il superamento del centrismo, attraverso l’allora inedita alleanza tra il partito della Democrazia cristiana (Dc) e il Partito socialista (Psi). La novità, a quel tempo rivoluzionaria e dalla portata storica, fu permessa dalla somma di una serie di fattori esterni. Intanto era mutato il quadro internazionale, e in quel momento se non una distensione nei rapporti tra l’Occidente e il blocco sovietico c’era un dialogo. Infatti dopo le lunghe lotte per il potere seguite alla morte di Iosif Stalin, NikitaChruščëv divenne il capo dell’Unione Sovietica e fu il primo segretario del Partito comunista dell’URSS a denunciare pubblicamente i crimini staliniani, dando avvio alla cosiddetta destalinizzazione, e il primo leader sovietico a visitare gli Stati Uniti, con cui intese stabilire dal 1958 un rapporto di pacifica, sebbene competitiva, coesistenza. In quello stesso anno al soglio pontificio era salito Giovanni XXIII, il papa buono, che aveva ammorbidito la posizione della Chiesa e quindi dei cattolici impegnati nella politica nostrana, nei confronti dei socialisti, i quali a loro volta erano andati acquisendo sempre più autonomia allontanandosi dal Partito comunista italiano (Pci), condannandolo quindi irrimediabilmente all’opposizione parlamentare. Intanto anche negli Stati Uniti gli americani avevano scelto di voltare pagina: nel 1961 era stato eletto presidente John Fitzgerald Kennedy, brillante e cattolico, il giovane leader chiese alle nazioni del mondo di unirsi nella lotta contro i comuni nemici dell’umanità, la tirannia, la povertà, le malattie e la guerra.
Fu quindi con il primo governo del democristiano Aldo Moro che si realizzò nel 1963 in Italia un esecutivo di centro-sinistra generando nell’opinione pubblica, a torto o a ragione, l’auspicio di una stagione nuova di grandi riforme in grado di accompagnare i progressi realizzati in campo economico negli anni del boom. Non sarà così, purtroppo. Infatti, mentre l’Inter, la Grande Inter presieduta dal petroliere milanese Angelo Moratti, guidata in panchina dall’allenatore argentino Helenio Herrera, detto il Mago, si affermava in Italia e in Europa come una delle migliori squadre di sempre, laureandosi fra il 1963 e il 1966 per tre volte campione d’Italia e per due consecutive campione d’Europa, vincendo la Coppa dei Campioni, contro gli spagnoli del Real Madrid e i portoghesi del Benfica, e campione del Mondo, vincendo la Coppa Intercontinentale, per due volte contro gli argentini dell’Independiente de Avellaneda, il governo del Belpaese stentava, offrendo risultati modesti o almeno percepiti come tali. Furono create grandi aziende pubbliche, ma queste risultarono poco produttive, molte delle riforme annunciate non furono realizzate o furono realizzate ma delusero le aspettative di quella parte dell’opinione pubblica che le reclamava a gran voce. Così fu ad esempio per la tanto attesa riforma della scuola, e proprio lì ebbe inizio e si radicò negli anni successivi il cosìddetto Sessantotto: la protesta dei giovani contro una società percepita come classista, profondamente ingiusta e reazionaria, sia nella mentalità che nel costume. Gli studenti sommarono le loro mobilitazioni a quelle operaie, che peraltro ottennero migliori condizioni salariali e lavorative, quale anticipazione di quanto sarebbe avvenuto nel 1970 con l’introduzione dello Statuto dei lavoratori che riconosceva il diritto di assemblea, di organizzazione sindacale e di difesa in caso di ingiusto licenziamento, mentre le contestazioni sessantottine ottenevano la liberalizzazione dell’accesso all’università per tutti i diplomati, eliminando nel 1969 la così detta riforma Gentile che subordinava quale condizione imprescindibile per iscriversi agli studi superiori il possesso della maturità classica.
L’espressione anni di piombo richiama efficacemente l’atmosfera plumbea che avvolgeva le città italiane nella seconda metà degli anni Settanta. Diventerà familiare, purtroppo, e tuttavia non è autoctona, derivando invece dalla traduzione dell’omonimo film, premiato a Venezia nel 1981 con il prestigioso Leone d’oro: Die bleierne Zeit (letteralmente, appunto, “Gli anni di piombo”), pellicola della regista e sceneggiatrice tedesca Margharete Von Trotta, ispirata alla vicenda storica delle sorelle Christiane e Gudrun Ensslin. Gudrun, in particolare, fu una terrorista tedesca, cofondatrice insieme ad Andreas Baader, Horst Mahler e Ulrike Meinhof del gruppo armato di estrema sinistra Rote Armee Fraktion(RAF), responsabile di numerose operazioni terroristiche condotte nella Germania occidentale. In particolare, nel 1977 si arrivò ad una vera e propria crisi nazionale conosciuta con il nome Deutscher Herbst (“Autunno tedesco”, appunto), espressione mutuata anche in questo caso da una pellicola cinematografica: Deutschland im Herbst (“Germania in autunno”). Un film collettivo prodotto nel 1978 per iniziativa di una cooperativa di autori tedeschi, che intendevano così esprimere la loro preoccupazione per le restrizioni degli spazi di libertà e di confronto culturale, conseguenti all’emergenza terrorismo, con la pretesa di definire l’atmosfera politica di allora. La RAF, conosciuta dal pubblico semplicemente come la banda Baader-Meinhof, uccise comunque 33 persone, principalmente tra figure di spicco in campo politico ed economico. Un’azione in particolare fece scalpore: il sequestro, dopo un sanguinoso agguato terminato con la morte dei quattro uomini della sua scorta, di Hanns-Martin Schleyer, un alto ufficiale delle Schutzstaffel (SS) ai tempi nazismo, riciclatosi nel dopoguerra come autorevole esponente del Christlich Demokratische Union Deutschlands (CDU), il partito politico di orientamento democratico-cristiano e conservatore che attualmente esprime la leadership di Angela Merkel. Schleyer all’epoca del sequestro era l’onnipotente presidente della Bundesverband der Deutschen Industrie (BDI), la confederazione che raggruppa tutte le federazioni di settore dell’industria tedesca, omologa della Confindustria italiana. Trascorsi quarantatré giorni di prigionia fu ucciso e fatto trovare cadavere il 18 ottobre 1977 in Francia, nel bagagliaio di un’auto, poco oltre il confine tedesco, fu il tragico epilogo di un’azione che ha molto in comune con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, che sarebbe avvenuta solo pochi mesi più tardi in Italia. Anche se più conosciuta, e quasi leggendaria nell’immaginario collettivo per le sue azioni di guerriglia urbana, la RAF condusse meno attacchi terroristici rispetto alle Revolutionäre Zellen (RZ), una formazione ben più attiva e spietata, responsabile di 296 attentati fra il 1973 e il 1995.
In quegli anni Settanta, per somma di risultati, continuità di rendimento e spettacolarità, il Borussia Mönchengladbach è stato forse la squadra di calcio più ammirata nell’arco del decennio, anche più del Bayern di Monaco di Baviera, per tre stagioni vincitore della Coppa dei Campioni. All’epoca queste due formidabili squadre tedesche imperversavano in patria e in Europa, e solo dopo di loro arriveranno il Liverpool di Bob Paisley e il Nottingham Forest di Brian Clough, che vinceranno nei successivi cinque anni la Coppa dei Campioni, tre volte i primi, due volte i secondi. Bisogna fare una premessa peraltro, per spiegare l’ammirazione manifestata verso il sodalizio renano. Infatti anche se anche il Bayern all’epoca sorprese era pur sempre il club espressione di una grande realtà economica e sociale prima che sportiva: niente meno che Monaco di Baviera. Diversamente prima che i Fohlen-Elf (“I puledri”) arrivassero al successo, la gente non sapeva neppure dove fosse la città di Mönchengladbach, tanto che molti all’estero pensavano che il luogo fosse Borussia! Eppure quella squadra di giovani fuoriclasse che annoverava tra gli altri campioni del calibro di Jupp Heynckes, Horst Köppel, Günter Netzer, Uli Stielike, Berti Vogts e Herbert Wimmer, allestita e guidata dal carismatico tecnico Hennes Weisweiler, tra il 1970 e l’autunno caldo del 1977 vincerà ben cinque volte la Bundesliga, il massimo livello del campionato tedesco, una Coppa di Germania e due volte la Coppa UEFA, perdendo invece solo in finale la Coppa dei Campioni, proprio contro gli inglesi del Liverpool, e la Coppa Intercontinentale, contro gli argentini del Boca Juniors, giocata al posto dei Reds inglesi, mentre, sempre nel 1977, uno dei suoi giocatori più rappresentativi, Allan Simonsen, vincerà l’ambito Pallone d’oro creato dalla prestigiosa rivista sportiva France Football nel 1956 e attribuito – dopo che l’anno prima era toccato a Franz Beckenbauer, uno dei più grandi giocatori della storia del calcio, capitano del Bayern Monaco e della Nazionale tedesca, campione del mondo nel 1974 – all’attaccante danese, l’unico calciatore ad aver segnato nelle finali delle tre maggiori competizioni europee, che all’epoca erano la Coppa dei Campioni, la Coppa UEFA e la Coppa delle Coppe.
Sul finire degli anni Sessanta il miglioramento del tenore di vita rese per molti più difficile percepire il peggioramento della situazione economica, che faceva da sfondo alle proteste giovanili del Sessantotto. Intanto gli italiani impararono cosa fosse la moviola che avrebbe cambiato per sempre la loro domenica sera e in conseguenza di ciò il loro lunedì mattina. Moviola era in verità il nome di un sistema elettromeccanico utilizzato per la visione rallentata di filmati cinematografici allora scopo ad esempio di consentire ai montatori di studiare le singole inquadrature, permettendogli di scegliere i punti di taglio più adatti. Il pomeriggio del 22 ottobre 1967 a San Siro si giocava la stracittadina tra i nerazzurri dell’Inter e i rossoneri del Milan, colloquialmente detta derby della Madonnina, dalla caratteristica statua della Madonna Assunta posta in cima al Duomo di Milano. L’Inter era in vantaggio per 1-0 fino a quando Gianni Rivera con un tiro dei suoi colpiva la traversa nerazzurra e la palla rimbalzava in campo vicino alla linea bianca, in prossimità della quale l’interista Tarcisio Burgnich in rovesciata la allontanava. L’arbitro, immediatamente assediato dai giocatori rossoneri, si consulta a a lungo col guardalinee, dopodiché concedeva il gol del pareggio al Milan. Quella stessa sera alla Domenica Sportiva il conduttore, l’indimenticabile Enzo Tortora, annunciava la straordinaria novità: il giornalista della Rai, Carlo Sassi, era in grado di mostrare un’immagine inequivocabile da cui risultava che la palla in realtà non aveva mai superato la linea di porta. Il primo errore arbitrale era appena stato inconfutabilmente dimostrato. L’episodio sportivo può essere considerato di secondaria importanza, perché a fine stagione quel Milan vincerà il suo nono scudetto e non in virtù di quell’ingiusto vantaggio. Il Diavolo infatti era una squadra fortissima e quel campionato nella stagione 1967/68 lo stravincerà con un ampio margine sulla Fiorentina, che tuttavia si imporrà l’anno successivo, quando lo scudetto andrà in riva all’Arno, mentre i rossoneri allenati da Nereo Rocco e guidati in campo da Gianni Rivera trionferanno nell’edizione 1968/69 della Coppa dei Campioni, disintegrando per 4-1 gli olandesi dell’Ajax di Amsterdam, e pure nella Coppa Intercontinentale, dopo aver fatto a botte, contro gli argentini dell’Estudiantes, campioni del Sudamerica. La violenza era nell’aria, si respirava odio ovunque: nel 1968 erano stati assassinati Martin Luter King e Bob Kennedy ed era stata soffocata la cosiddetta Primavera di Praga quando Alexander Dubček diventato segretario del Partito comunista di Cecoslovacchia aveva intrapreso una coraggiosa stagione di riforme, terminata quando un corpo di spedizione militare dell’Unione Sovietica e degli alleati del Patto di Varsavia invase il paese.
Una soddisfazione e un po’ di gioia per gli sportivi italiani arrivò proprio nel 1968 quando la Nazionale, dopo la delusione patita ai Mondiali inglesi nel 1966, la disfatta e l’umiliazione per mano della famigerata Corea bruciava ancora, riuscirà a vincere per la prima volta gli Europei di calcio. Lo farà proprio in casa, in finale allo stadio Olimpico, battendo la Jugoslavia per 2-0, davanti a 70mila tifosi emozionati, e mentre la contestazione giovanile faceva cadere in disuso parole come patria e nazione, con quella vittoria il calcio contribuì a far sì che gli italiani riscoprissero l’orgoglio di sventolare il tricolore. Si trattò solo di una parentesi di festa in un difficile periodo di recessione economica, mentre all’orizzonte si profilavano anni bui, ma con il trionfo azzurro nacque l’uso dei caroselli per le strade italiane: un entusiasmo condiviso che univa migliaia di tifosi, trascinati dall’impresa dei ragazzi azzurri di Valcareggi. Nel novembre dello stesso anno nasceva a Milano il primo gruppo ultras italiano, la Fossa dei Leoni, con canti e slogan direttamente ispirati a quelli dei cortei politici. Calcio e politica extraparlamentare intrecciavano così parte delle loro esperienze, e dopo qualche anno compariranno gli striscioni delle Brigate Rossonere e delle Boys-San, ovvero Boys-Squadre d’Azione Nerazzurre (l’acronimo SAN si riferisce verosimilmente alle Squadre d’azione di Benito Mussolini), del Commando Ultrà Curva Sud (CUCS) a Roma e del Nucleo Armato Bianconero (NAB), forse l’unico gruppo juventino, un pubblico tradizionalmente noto per l’anticampanilismo, paragonabile agli hooligan. La moviola intanto diventava un vero e proprio fenomeno di costume, accrescendo la popolarità dei giornalisti Carlo Sassi e Bruno Pizzul, i quali si alternavano nella conduzione dell’apposita rubrica che dalla stagione di campionato 1969/70 prese un posto fisso all’interno della Domenica Sportiva, diventando uno dei momenti più attesi della televisione italiana, seguito anche da venti milioni di telespettatori. Molti sono gli episodi che ne hanno segnato la storia, memorabile quando la sera del 20 febbraio 1972, l’arbitro Concetto Lo Bello, sempre inflessibile, duro e giusto, messo di fronte alle immagini del calcio di rigore da lui negato al Milan nei confronti della Juventus, sarà costretto ad ammettere il clamoroso errore. Il clima generale in quel fatidico 1969 al quale conviene tornare è denso di contestazioni e contrasti: è il cosiddetto autunno caldo per antonomasia e l’inverno che seguirà purtroppo non sarà da meno. Infatti, il 12 dicembre del 1969 sarà una giornata terrificante: in poco meno di un’ora in Italia si verificheranno ben 5 attentati: tre a Roma e due a Milano. Il più grave sarà la strage di Piazza Fontana, dove una bomba, esplosa nella sede milanese della Banca Nazionale dell’Agricoltura, provocherà 17 morti e 88 feriti.
La strage della Banca Nazionale dell’Agricoltura è considerata il primo e più dirompente atto terroristico dal dopoguerra nonché da alcuni ritenuto l’inizio del periodo passato alla storia in Italia come degli anni di piombo nonché della strategia della tensione, che nel corso degli anni strazierà il Paese: a Brescia il 28 maggio 1974 (8 morti), sul treno Italicus del 4 agosto dello stesso anno (12 morti) e a Bologna il 2 agosto 1980 (85 morti), alzando il livello dello scontro. In un primo momento di questi attentati verranno accusati i nascenti gruppi del terrorismo rosso che si riveleranno invece estranei, mentre emergeranno indizi di collusioni occulte di settori deviati dello Stato, successivamente confermati: si comincerà a parlare allora di stragismo di Stato. All’inizio del decennio dei Settanta, nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970, Junio Valerio Borghese, soprannominato il principe nero, tentava un colpo di stato – il cosiddetto Golpe dell’Immacolata – salvo annullarlo in fase di esecuzione e riparare in Spagna per evitare l’arresto. In quei tristi mesi invernali del 1970 terminava anche la intanto era terminata la splendida parabola del Cagliariscudettato che, se dopo aver schiantato l’Inter a Milano e aver preso la testa del campionato, candidandosi alla vittoria finale manifestando una superiorità indiscussa su tutti i rivali, durante la partita tra Italia e Austria giocata a Vienna il 31 ottobre, a causa di un grave infortunio che ne comprometterà la carriera, perderà il suo impareggiabile fuoriclasse.Gigi Riva era stato il principale artefice dei successi del Cagliari, che senza di lui non riuscirà a difendere il titolo conquistato l’anno prima quando il 12 aprile 1969 chiuse la miglior stagione della sua storia festeggiando il primo e fin qui unico scudetto vinto. Si trattò di una sorpresa, a soli 6 anni dall’approdo in massima serie i rossoblù guidati ai vertici del calcio italiano da Manlio Scopigno, detto il filosofo, con il secondo posto nel 1968/69 e soprattutto con lo storico scudetto del 1969/70, il capolavoro della sua carriera, portavano per la prima volta il titolo di campione d’Italia nel Mezzogiorno, lontano dalle grandi città del Nord e del Centro, conquistando una vittoria ricca di significati per l’intera Sardegna, isola distante – ritenuta patria di pastori e banditi, come ricordava Gigi Riva – praticamente sconosciuta fino a quel momento al resto degli italiani.
Nel quadro della strategia della tensione la società italiana era sempre più divisa e polarizzata in gruppi che facevano politica extraparlamentare e non rifiutavano la violenza, passando dalla clandestinità alla lotta armata. A sinistra erano nate organizzazioni come i Gruppi d’Azione Partigiana (GAP), i Nuclei Armati Proletari (NAP), Prima Linea (PL) e le Brigate Rosse (BR), mentre a destra militavano Avanguardia Nazionale, i Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR), Ordine Nero, Terza Posizione e Ordine Nuovo. Si diffuse un clima di insicurezza e pericolo, perché non furono compiuti soltanto attentati clamorosi o stragi dai loro esecutori, ma uno stillicidio continuo di attacchi contro obiettivi minimi, singoli cittadini e forze dell’ordine, in esecuzione quotidiana di disegni talvolta ignoti e misteriosi. In piazza i manifestanti si presentavano ovunque a volto coperto e spesso armati di spranghe, chiavi inglesi e bottiglie molotov e la violenza poteva scoppiare in qualsiasi istante e ovunque. In quel contesto, iniziarono ad agire le BR compiendo atti di guerriglia urbana e terrorismo contro persone ritenute rappresentanti del potere politico, economico e sociale, operando tra il 1970 e il 1974 prevalentemente attraverso piccoli gruppi all’interno delle fabbriche in modo spesso clandestino, con il compito di fare propaganda in particolare nelle aziende soggette a piani di ristrutturazione o nelle quali il rapporto dei lavoratori con la dirigenza e la proprietà fosse particolarmente conflittuale. I militanti delle BR, oltre a diffondere le proprie idee, presero di mira quadri e dirigenti aziendali, incendiandone le auto o realizzando brevi sequestri, della durata di qualche ora o di pochi giorni, allo scopo di intimidire il rapito e la dirigenza dell’azienda e dimostrare la forza e la spregiudicatezza dell’organizzazione: il primo si realizzò il 3 marzo 1972 a Milano, Idalgo Macchiarini, un dirigente industriale, prelevato di fronte allo stabilimento, fotografato e rilasciato dopo qualche giorno con un cartello appeso al collo dove c’era scritto: “Colpiscine uno per educarne cento!” Sempre in quell’anno, il 5 settembre 1972 a Monaco di Baviera, un commando dell’organizzazione terroristica palestinese Settembre Nero irruppe negli alloggi destinati alle squadre israeliane del villaggio olimpico uccidendo subito due atleti che avevano tentato di opporre resistenza e prendendo in ostaggio altri nove membri della squadra olimpica di Israele, un successivo tentativo di liberazione da parte della polizia tedesca portò alla morte di tutti gli atleti sequestrati, brutale epilogo del Massacro di Monaco di Baviera che aveva insanguinato le Olimpiadi, evento tipico della cultura umana che storicamente addirittura sospendeva ovunque le guerre e la violenza.
In Italia il 12 febbraio 1973 la colonna brigatista torinese compì il sequestro di Bruno Labate, sindacalista legato al Movimento Sociale Italiano dello stabilimento FIAT di Mirafiori, interrogandolo e poi lasciandolo incatenato alla gogna operaia davanti alla fabbrica, guadagnando adesioni e simpatizzanti in tutti gli stabilimenti nelle grandi fabbriche del Piemonte, come già era accaduto in Lombardia. In quei primi anni le BR volevano tramettere segnali di lotta concreti con azioni dimostrative e atti di forza, per conquistare consensi all’interno della classe operaia: era la cosiddetta propaganda armata. Dopo Milano e Torino le BR si allargarono, in particolare a Porto Marghera fu costituita la terza colonna, quella veneta, mentre in Liguria fu creata la colonna genovese. E uscendo dalla logica dello scontro all’interno delle fabbriche i dirigenti brigatisti desideravano incidere direttamente sul processo politico del Paese, e proprio da Genova partì la prima azione condotta contro un esponente dello Stato: il rapimento, avvenuto il 18 aprile del 1974, di Mario Sossi, un magistrato che era stato pubblico ministero in un processo a un gruppo armato genovese. Condannato a morte dalle BR con lo slogan «Sossi fascista, sei il primo della lista!» il magistrato venne poi rilasciato senza ottenere una contropartita: liberato a Milano, tornò a Genova in treno e si consegnò alla Guardia di Finanza. Invece Francesco Coco, il procuratore generale della Repubblica che non aveva voluto trattare con i brigatisti, rifiutandosi di firmare la scarcerazione dei detenuti che i terroristi chiedevano in cambio della liberazione dell’ostaggio, verrà ucciso da un commando guidato da Mario Moretti, esponente dell’ala dura del movimento, che l’arresto di Renato Curcio e Alberto Franceschini avevano catapultato ai vertici dell’organizzazione, in un agguato a Genova, l’8 giugno 1976 insieme a due uomini della scorta: il primo magistrato trucidato durante gli anni di piombo.
Intanto negli stadi la passione degli italiani per il campionato di calcio non conosceva incertezze né si attenuava. Dopo quella memorabile del Cagliari, un’altra impresa infiammò gli animi dei tifosi e catturò l’attenzione degli appassionati: quella Lazio, l’undici capitolino di Giorgio Chinaglia, soprannominato Long John, bomber inarrestabile e simbolo della squadra biancoceleste, guidata in panchina dal tecnico Tommaso Maestrelli, che al termine del campionato del 1973/74 conquisterà lo scudetto. In quello stesso mese di maggio l’Italia votava il referendum voluto promosso dalla Democrazia Cristiana e sostenuto in Parlamento dal Movimento Sociale Italiano e fuori da Comunione e Liberazione, allo scopo di abrogare la legge che permetteva il divorzio. L’esito della consultazione popolare del 12 maggio 1974 fu clamoroso segnando contro le attese la prima grande sconfitta della Democrazia Cristiana e testimoniando come la modernizzazione del Paese introdotta dal boom economico e la contestazione sessantottina dell’etica dominante avesse profondamente inciso anche in Italia sull’evoluzione di costumi e mentalità. L’Italia tuttavia verrà scossa da due tremendi appuntamenti con la devastazione e la morte, il 28 maggio la strage di Piazza della Loggia a Brescia, dove una bomba nascosta in un cestino portarifiuti fu fatta esplodere mentre era in corso una manifestazione, provocando la morte di 8 persone e il ferimento di altre 102, mentre il 4 agosto la strage a bordo del treno Italicus, quando morirono 12 persone e rimasero ferite altre 48 in un attentato dinamitardo presso San Benedetto Val di Sambro, in provincia di Bologna, che avrebbe avuto conseguenze più gravi se l’ordigno fosse esploso nel cuore della Grande Galleria dell’Appennino che si sarebbe trasformata in una fornace, per i circa quattrocento passeggeri dell’espresso. Non successe solo a causa del recupero di tre minuti sul ritardo precedentemente accumulato alla partenza da Roma. Fu comunque un attentato orribile, la quinta carrozza del treno esplose e si incendiò a cinquanta metri dall’uscita della lunga galleria e le persone bruciarono vive, eppure questo tremendo episodio è il meno ricordato, commemorato e considerato dalla storiografia. Mentre nella tragedia, brilla l’eroismo di un giovane ferroviere di 24 anni, il forlivese Silver Sirotti, che munito di estintore, si slanciò tra le fiamme per soccorrere i viaggiatori intrappolati, non pochi si salvarono proprio grazie al suo spirito di servizio: morì eroicamente guadagnando una Medaglia d’Oro al Valor Civile.
Sempre nel 1974 si logora la formula governativa del centrismo e del centro-sinistra, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista quindi iniziarono a parlarsi: era l’alba del dialogo che Enrico Berlinguer aveva suggerito in una serie di pubbliche dichiarazioni alla fine del 1973 rivolgendosi alle forze che rappresentavano la grande maggioranza del popolo italiano. Il terrorismo nero decise di reagire all’ipotesi del compromesso storico fra democristiani e comunisti con le bombe, allo scopo di accresce disordine e panico, con l’auspicio di spingere una parte della società a chiedere un argine alla confusione, favorendo i più intraprendenti – fra questi Edgardo Sogno, con il suo progetto di golpe bianco – che si spinsero a credere di riuscire a instaurare un regime autoritario nel Paese. Quella Lazio, che nella stagione precedente aveva sfiorato il titolo da neopromossa, era figlia dei tempi che correvano, la squadra campione d’Italia era un gruppo turbolento: l’equilibrio del mister Maestrelli infatti si imponeva solo alla domenica, quando c’era da scendere in campo. In settimana invece il quartier generale di Tor di Quinto, il centro sportivo dove i biancocelesti si allenavano, era una vera e propria polveriera. Giorgio Chinaglia era indubbiamente il trascinatore della squadra, ma litigava con tutti, i giocatori si detestavano fra loro, addirittura mangiavano in mense separate e si cambiavano in spogliatoi diversi, caso unico nella storia di questo sport: da una parte la vecchia guardia guidata da Chinaglia e Pino Wilson, dall’altra i ribelli, entrati nel gruppo più recentemente, come Luciano Re Cecconi e Mario Frustalupi. Anche le partite settimanali di allenamento erano conflittuali e finivano in rissa, ogni volta si regolavano i conti in sospeso, e talvolta i calciatori laziali non riuscivano a scendere in campo alla domenica a causa degli infortuni che si procuravano in allenamento. Molti biancocelesti avevano il porto d’armi e si esercitavano al poligono, ma non si facevano scrupoli a portare le pistole in ritiro e sparare anche durante gli allenamenti o a farsi vedere armati in giro per Roma. Comunque, la dirompente ascesa sarà il preludio della fragorosa caduta di quella Lazio, che nella stagione 1974/75 non partecipò nemmeno alla Coppa dei Campioni a causa di una rissa scoppiata negli spogliatoi dell’Olimpico dopo il ritorno dei sedicesimi di finale della Coppa UEFA dell’anno precedente contro l’Ipswich Town che comportò per il club biancoceleste la squalifica dalle competizioni europee. Anche in campionato i biancocelesti non saranno all’altezza delle aspettative e non solo non riusciranno a difendere il tricolore, ma dovranno affrontare circostanze drammatiche che segneranno il declino nelle stagioni a venire: l’omicidio di Re Cecconi durante una rapina, quando il centrocampista, uno dei leader della squadra, fu ucciso da un colpo di pistola in una gioielleria di Roma e ancora oggi non si sa bene perché, la scomparsa dopo lunga malattia del mister Maestrelli oltre all’improvviso trasferimento di Chinaglia negli Stati Uniti.
A partire dai primi anni Settanta una nobile decaduta era tornata competitiva: il Torino. Il presidente della società granata, Orfeo Pianelli, grazie a mirate operazioni di mercato, stava via via costruendo una squadra all’altezza dei rivali cittadini della Juventus, inavvicinabili fino a pochi anni prima, da quando la tragedia di Superga aveva cancellato il Grande Torino consegnandolo al mito. Proprio per invertire quella tendenza alla frustrazione il presidente Pianelli decise di ingaggiare il paròn Nereo Rocco che pur non vincendo nessun trofeo con il Toro nei suoi tre anni di permanenza sulla panchina della squadra piemontese, lasciò un’impronta di forza e la voglia di tornare a competere ai massimi livelli. Nell’estate del 1971 arriverà al Torino Gustavo Giagnoni, sardo di nascita e mantovano d’adozione: sarà immediatamente contagiato dall’amore per il Toro, in quei freddi inverni torinesi il mister prenderà l’abitudine di indossare una sciarpa granata e un colbacco al quale verrà dato un significato politico, che non aveva. Con lui in panchina il Toro ha una marcia in più, e in quella stagione 1971/72 tornerà addirittura a competere per lo scudetto, per la prima volta dal “dopo Superga”. A metà aprile i ragazzi granata erano in testa, davanti alla Juventus, ma la classifica finale premierà i bianconeri che saranno campioni d’Italia, con il Toro staccato di un solo punto e il rammarico di un paio di clamorosi errori arbitrali che avrebbero cambiato le sorti della sfida per il titolo in favore del sodalizio granata. A fine campionato un nuovo termine entrò nell’enciclopedia del calcio italiano: il tremendismo granata. A parere di Giovanni Arpino, scrittore e giornalista: “L’espressione è perfetta per un club che magari non vince, ma è un osso durissimo per chiunque. Una squadra di orgoglio, di rabbie leali, di capacità aggressive, mai doma, temibile in ogni occasione e soprattutto quando l’avversario è di rango”. Ecco, tutto questo significa tremendismo. Giagnoni infatti aveva con la sua aria un po’ truce, la grinta e la sua personalità, aveva trasmesso alla squadra un gioco incisivo e una mentalità aggressiva, il Toro non mollava mai, e l’allenatore col colbacco entrava definitivamente nella mitologia granata in un derby del dicembre 1973: a un certo punto del match, Giagnoni non riesce più a resistere alle continue provocazioni di Franco Causio, così una volta raggiunto il giocatore juventino a bordocampo, spostando il guardalinee, lo colpisce con un cazzotto sullo zigomo e lo stende. A fine partita, l’allenatore sardo, pentito del suo gesto, teme le reazioni della stampa e una pesante squalifica, ma intanto i tifosi granata lo attendono impazienti, per portarlo in trionfo e gridare: “Questo è il Toro!”
Intanto alle elezioni amministrative del giugno 1975 la straordinaria avanzata in termini di preferenze del Partito Comunista fece ritenere vicinissimo il sorpasso sulla Democrazia Cristiana e provocò un terremoto nelle amministrazioni locali, dove si andavano radicando maggioranze di governo sempre più apprezzate fra socialisti e comunisti. In un anno segnato dalla fine della guerra in Vietnam, con la caduta di Saigon e relativa ritirata americana, e in cui i sindacati e gli operai parlavano di scala mobile per adeguare i salari all’inflazione, sulla panchina granata arriva un innovatore: il giovane Gigi Radice. Il prussiano, così lo chiamano per gli occhi chiari, vuole uno stile di gioco votato al pressing a tutto campo, a imitazione del calcio totale dell’Olanda di Cruijff e compagni, e sarà l’uomo giusto al momento giusto, nel posto giusto. Nei rituali da seguire prima delle partite c’è il consueto cinque che Radice scambia con tutti i giocatori, al momento dell’ingresso in campo, tutti tranne uno, perché il mister quando si trova davanti Pulici non gli dà la mano, ma vuole un testa contro testa col suo bomber che quando entra in campo fa esplodere la Curva Maratona in un boato impressionante. Poco dopo l’inizio di quel campionato, nella notte tra il 1º e il 2 novembre del 1975, fu ucciso in maniera brutale, percosso e travolto dalla sua stessa auto sulla spiaggia dell’Idroscalo di Ostia, vicino a Roma, Pier Paolo Pasolini. Era considerato tra i maggiori artisti e intellettuali del XX secolo, attento osservatore dei cambiamenti della società italiana e figura a tratti controversa, per la radicalità dei suoi giudizi assai critici nei riguardi delle abitudini borghesi come nei confronti del Sessantotto e dei suoi protagonisti. Il suo rapporto con la propria omosessualità – all’epoca nemmeno tollerata in Italia – fu al centro del suo personaggio pubblico, mentre lui, innamorato della sua squadra del cuore, il Bologna, considerava i pomeriggi trascorsi a giocare a pallone i più belli della sua vita. In quella stagione del 1975/76 il Torino sarà Campione d’Italia: una redenzione attesa per ventisette anni dopo Superga, raccogliendo grazie alla leadership di Gigi Radice i frutti maturati nel corso delle stagioni precedenti, facendo convivere e valorizzando al meglio sia generosi gregari che raffinati esteti come Sala – il poeta – e Pecci, un centrocampista d’assalto come il gentleman Zaccarelli e implacabili cannonieri, come i gemelli del gol Pulici e Graziani, insieme al giaguaro Castellini, un estremo difensore di grandi qualità, secondo solo a Zoff in Nazionale. Quattordici vittorie su quindici in casa, con un solo pareggio proprio nell’ultima e decisiva giornata, ma soprattutto una cifra di gioco eccezionale ed una velocità mai viste prima. Il sogno del presidente Pianelli era finalmente realtà: aveva restituito la gioia al popolo granata. Nel Paese, arrivati a giugno, trascorsa un’infuocata campagna elettorale in un clima di contrapposizione frontale, sembrò prossimo il sorpasso del Partito Comunista sui democristiani e nell’attesa da un lato della vittoria finale dei progressisti sui moderati e dall’altro di una rinnovata paura per il pericolo rosso, la mobilitazione in favore della Democrazia Cristiana fu senza quartiere e coinvolse anche Indro Montanelli, che dalle colonne del suo il Giornale ammonì i lettori con uno slogan poi rimasto celebre: turatevi il naso ma votate DC!
Ed effettivamente andò proprio così: la Democrazia Cristiana dimostrò grandi capacità di recupero, conservando la maggioranza ma indebolendo i tradizionali alleati, mentre a sinistra il Partito Comunista non sfondò ma ottenne il miglior risultato elettorale della sua storia, anche in quel caso a scapito degli alleati socialisti e dell’estrema sinistra. A settembre intanto l’Italia del tennis tornava da Santiago del Cile dove aveva vinto per la prima volta la Coppa Davis, la massima competizione mondiale di questo sport, avendo rischiato fino a pochi giorni prima di non giocarla nemmeno. La gara, infatti, la finalissima, era prevista contro la nazionale cilena proprio in Cile, paese retto dalla brutale dittatura di Pinochet e per giunta, il campo di gioco si trovava nel complesso dello Stadio Nazionale, divenuto uno dei simboli della repressione del regime, usato, negli anni precedenti, come campo di concentramento per i prigionieri politici. E in Italia, dove la polarizzazione delle posizioni sembra insanabile, cortei e manifestazioni si susseguivano al grido Non si giocacon il boia Pinochet, mentre Adriano Panatta, il nostro tennista più forte e rappresentativo, veniva accusato di essere miliardario e fascista mentre era diventato benestante col talento e mai si era identificato con i progetti della destra liberale, figurarsi con quella estrema. I parlamentari socialisti sono contrari a partecipare e Domenico Modugno canta in favore del boicottaggio, mentre il governo di Giulio Andreotti non prende posizione, aspetta. L’estrema sinistra spinge per il rifiuto, non vuole giocare. Ma il capitano della Nazionale, Nicola Pietrangeli, e i tennisti vogliono giocare, Andreotti allora fa decidere al CONI, che a sua volta si affida al parere della FIT, la Federazione italiana del tennis. La Federazione, che ha da poco nominato Paolo Galgani nuovo presidente, aspetta di vedere da che parte tira il vento e alla fine si fa convincere da Enrico Berlinguer, l’ideatore dell’euro-comunismo, che si muove in direzione contraria rispetto all’Unione Sovietica, che ha boicottato la Coppa Davis e si aspetta lo stesso dall’Italia.
Il carismatico segretario del Partito comunista matura la decisione dopo essersi in qualche modo consultato con il leader comunista cileno, Luis Corvalán infatti gli suggerisce di non procedere con un boicottaggio che si sarebbe potuto rivelare vantaggioso per Pinochet, verso il quale il consenso nazionalistico all’epoca cresceva. A quel punto il Rubicone è oltrepassato: si va in Cile per vincere. Nel corso del doppio Adriano Panatta, noto per le sue simpatie politiche di sinistra, decise di giocare con una maglietta rossa, in omaggio alle vittime della repressione di Pinochet, convincendo il suo compagno Bertolucci a fare lo stesso: la prima Davis italiana diventa realtà. Dopo la pausa, alla fine del terzo set, Panatta e Bertolucci si erano cambiati, abbandonando la maglietta rossa. Il trionfo imminente andava celebrato in azzurro. Intanto si ragionava nei palazzi della politica circa la necessità di un governo di “solidarietà nazionale”, invece in California nasceva nell’estate del 1976 Apple Computer, Inc. quando Steve Jobs e Steve Wozniak, a Cupertino nella Silicon Valley, si organizzarono, coi pochi soldi di cui disponevano, allo scopo di sviluppare e vendere il personal computer Apple I: nel giro di pochi anni Jobs e Wozniak avevano assunto uno staff di progettisti di computer e avevano una linea di produzione, che dopo molti anni sarebbe arrivata a cambiare lo stile di vita della maggior parte dell’umanità, niente meno. Era iniziato puntualmente il campionato del 1976/77 che appassionerà come sempre tutto il Belpaese e si rivelerà fin da subito un furibondo testa a testa fra il Toro e la Juventus, fino all’ultima giornata, fra sorpassi e controsorpassi. Alla fine, la squadra granata raggiungerà la stratosferica cifra – in un campionato a 16 squadra – di cinquanta punti, cinque più della stagione precedente, ma la Juventus per loro sfortuna ne farà uno in più. Delusione difficilissima da smaltire, da aggiungere alla cocente quanto rocambolesca eliminazione in Coppa dei Campioni, agli ottavi terminando in otto con Ciccio Graziani in porta la partita di ritorno, per mano dei fortissimi tedeschi del Borussia Mönchengladbach. Il Toro si avvierà da allora verso un nuovo lento declino, mentre i rivali della formidabile Juventus guidata da Giovanni Trapattoni, inizieranno uno straordinario ciclo di vittorie in Italia e, più tardi, in Europa.
Oramai nel Paese divampava il conflitto politico e culturale in tutti i luoghi del sociale. Gli effetti della politica d’austerità varata dal primo governo di “solidarietà nazionale” portarono allo scoperto una composita area di dissenso, indicata col nome generico di movimento del 77 che tracciava un perimetro all’interno del quale convivevano posizioni anarcoidi, rifiuto del lavoro e operaismo, istanze pacifiste e teorizzazione dell’illegalità di massa, che costituirono il diffuso retroterra ideologico ispiratore dello scontro frontale con le istituzioni. In particolare, ci fu un’avvisaglia: il 17 febbraio la violenta contestazione rivolta contro il segretario della CGIL Luciano Lama si trasformò in scontro aperto con il servizio d’ordine del sindacato. Gli scontri per violenza e intensità causarono lo scioglimento anticipato del comizio e l’abbandono della città universitaria da parte del segretario e della delegazione della CGIL, l’evento diverrà famoso e ricordato come la cacciata di Lama dall’Università La Sapienza di Roma, oramai occupata e ingovernabile e, in conseguenza di quell’episodio, consegnata dal rettore alla polizia, mentre una fitta serie di episodi di violenza si susseguiranno nelle principali città d’Italia, senza soluzione di continuità. L’11 marzo 1977 a Bologna studenti della sinistra extraparlamentare affrontarono le forze dell’ordine intervenute a difesa di un’assemblea di CL, durante gli scontri fu ucciso Francesco Lorusso, militante di Lotta Continua e studente universitario.
La notizia della morte del giovane si diffuse rapidamente e ne seguì l’affluire di migliaia di studenti verso la zona universitaria che venne barricata in un clima di incredulità, dolore e rabbia. In risposta alle proteste ed ai gravi disordini scoppiati in città, il Ministro dell’Interno, Francesco Cossiga, dispose l’invio di mezzi blindati nelle strade del centro di Bologna, finendo così per accentuare lo scontro politico, vista la profonda impressione suscitata nell’opinione pubblica nel vedere – nel cuore della capitale dell’Emilia, cingolati per il trasporto truppe che furono generalmente percepiti come carri armati. Tutte le iniziative di protesta lanciate nei giorni successivi furono duramente represse, anche attraverso l’esecuzione di numerosi arresti e fermi di polizia. Il 12 marzo dello stesso anno si svolse a Roma una grande manifestazione nazionale di protesta contro la repressione, che per la tensione e la rabbia accumulate nelle ore precedenti, sfociò in violentissimi scontri di piazza e gravi episodi di guerriglia urbana, caratterizzati da assalti e dal lancio di bottiglie molotov contro banche, esercizi commerciali, ambasciate, comandi delle Forze dell’ordine e sedi della DC, considerata politicamente responsabile della situazione. In quel particolare momento va riconosciuto un argine alla violenza: la dura presa di posizione manifestata dalle organizzazioni e dai partiti della sinistra storica, frattura che si rese particolarmente evidente a seguito del forte appoggio fornito dal Partito comunista alle manifestazioni contro la violenza organizzate dai sindacati confederali, dove per fortuna iniziava a guadagnare terreno una più realistica percezione delle esigenze economiche, e tra i lavoratori si diffondevano il disagio e l’insofferenza per il carattere esclusivamente politico delle manifestazioni di protesta.
A seguito della carcerazione di Renato Curcio, fondatore insieme ad altri e ideologo, le BR si riorganizzarono decidendo di accentuare la caratterizzazione “militare” in vista di una nuova fare operativa incentrata su azioni terroristiche violente e di forte impatto, e fu così che durante l’anno ci sarà una vera e propria escalation di ferimenti e omicidi. A Venezia intanto la notte più drammatica fu quella del 31 marzo 1977: i problemi cominciarono nel pomeriggio, ai violenti scontri con la polizia e al lancio delle bottiglie molotov seguirono le devastazioni e i saccheggi di negozi di lusso, e un attacco incendiario al Comando della Guardia di Finanza oltre ad un attentato dinamitardo rivolto alla sede della giunta regionale del Veneto, mentre Marghera, Mestre, Padova, Rovigo e Vicenza venivano messe a soqquadro per quasi due anni quando, durante le così dette notti dei fuochi, una serie di attentati volevano sfruttare il malcontento della classe operaia inducendola a simpatizzare coi terroristi, secondo i programmi degli agitatori. Nel frattempo iniziava a Torino il processo ai “capi storici” delle BR – tra cui Renato Curcio e Alberto Franceschini – ed era accaduto un fatto mai verificatosi in precedenza in Italia: tutti gli imputati detenuti si proclamarono militanti dell’organizzazione comunista Brigate Rosse e combattenti comunisti assumendo collettivamente e per intero la responsabilità politica di ogni sua iniziativa passata presente e futura disconoscendo qualunque presupposto legale per quel processo, revocando il mandato ove già conferito e minacciando di morte i legali che avessero accettato la nomina come difensori di ufficio, rendendo di fatto il processo “impossibile” in mancanza della difesa tecnica, quale garanzia costituzionale, e inducendo il presidente della Corte d’Assise, constatate le difficoltà di pervenire alla nomina di difensori, a incaricare della difesa d’ufficio il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino, l’avvocato Fulvio Croce, il quale pur essendo un avvocato civilista e consapevole dei gravissimi rischi a cui si esponeva, onde non rallentare il corso di un processo così importante, accettò l’incarico dimostrando grande coraggio e assoluta fiducia nella forza della legge.
Nel primo pomeriggio del 28 aprile del 1977, pochi giorni prima della data fissata per l’udienza del processo, un gruppo di fuoco delle BR uccise l’avvocato Croce nei pressi del suo studio legale in via Perrone a Torino, colpendolo mortalmente con cinque colpi di pistola che lo raggiunsero alla testa e al torace. Intanto in quel 1977 dagli Stati Uniti verso il resto inizia una saga cinematografica che non avrà uguali con l’omonimo film Guerre stellari, sottotitolato retroattivamente Episodio IV – Una nuova speranza. Il film, ambientato diciannove anni dopo la fondazione dell’Impero Galattico, narra le avventure dello Jedi Luke Skywalker e del suo maestro Obi-Wan Kenobi, impegnati nella lotta contro il Lato Oscuro della Forza, a fianco dell’Alleanza Ribelle, guidata dalla Principessa Leila, in modo da porre fine al potere dell’Imperatore sulla Galassia. Dopo un inizio in sordina, distribuito in pochi cinema americani, Guerre stellari si rivelò un successo senza precedenti sia al botteghino sia nel modo in cui si radicò nel cuore della coscienza pubblica. La maggior parte della critica spese parole d’elogio giudicandolo capace di immergere gli spettatori nel suo mondo fantastico e di coinvolgere con una narrazione semplice, ma solida ed entusiasmante, coadiuvata da effetti speciali spettacolari come raramente si erano visti prima, la saga poi sarebbe diventata un fenomeno culturale di massa, oramai è un dato storico, fin dall’uscita del primo film, e ha avuto un forte impatto sulla moderna cultura pop e le sue citazioni si sono radicate nell’uso quotidiano: frasi come la Forza sia con te o Io sono tuo padre sono diventate parte integrante del lessico della popolazione, mentre la Forza e Lato Oscuro sono state incluse nell’Oxford English Dictionary.
Il 30 ottobre 1977 anche il mondo dello sport vive una giornata straziante, quando alla stadio Comunale Pian di Massiano il Perugia di Ilario Castagner ospita la Juventus di Trapattoni. All’epoca la squadra dei grifoni faceva sognare tutta l’Umbria, e il giovane Renato Curi in particolare era entrato nel cuore dei tifosi quando il 16 maggio dell’anno precedente un suo destro al volo all’ultima giornata aveva superato Zoff, togliendo lo scudetto ai bianconeri e consegnandolo al Toro di Radice. Il 30 ottobre invece era una giornata da lupi: il cielo sopra Perugia era nero e gonfio di pioggia, che poi inizierò a cadere flagellando senza tregua i giocatori, ma al quinto minuto della ripresa, sullo zero a zero, dopo una rimessa laterale per gli umbri e uno scatto nel tentativo di raggiungere la palla, dal cerchio di centrocampo, Renato Curi si accascia improvvisamente al suolo, come fulminato, allarmando i compagni e gli avversari che gli si avvicinano, gli juventini Roberto Bettega e Gaetano Scirea spaventati gesticolano freneticamente per chiamare soccorso, entrano immediatamente in campo i sanitari e si intuisce che si sta compiendo un dramma sportivo e umano. Non servono il massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca, il centrocampista esce in barella privo di sensi sotto una pioggia sempre più forte: morirà poco dopo stroncato da un arresto cardiaco, all’età di ventiquattro anni, nella commozione generale. Tutta Italia peraltro stava per vivere un altro momento epocale: il 16 marzo 1978 avvenne l’agguato di via Fani a Roma, quando lo sterminio della scorta, fu il preludio al sequestro e al successivo assassinio dell’allora presidente della DC Aldo Moro, consumato il 9 maggio 1978, e definito dalle BR “l’attacco al cuore dello Stato”. Si chiudeva così il sequestro più drammatico della storia dell’Italia repubblicana, durato ben 55 giorni, che gettò il Paese nel panico e stroncò definitivamente la maturazione del progetto politico che Aldo Moro aveva abbozzato: cioè inserire nell’area democratica prima e nelle responsabilità di governo poi il PCI. Questi tempi sembravo non finire mai, dal giugno 1978 al dicembre 1981 aumentarono gli agguati, le uccisioni e i ferimenti terroristici. Le statistiche segnalarono una continuità di attentati mai conosciuta in Europa: il numero delle organizzazioni armate attive in Italia era passato da 2 nel 1969 a 91 nel 1977 fino a 269 nel 1979, mentre in quello stesso anno si registrò la cifra record di 659 attentati. Tuttavia l’anno con più vittime sarà il 1980, quando moriranno 125 persone, di cui 85 solo nella strage della Stazione Centrale di Bologna.
L’Italia era allo stremo, ma a quel punto a Genova successe qualcosa di imprevedibile e imprevisto, tanto da cambiare il corso degli eventi. Lo scopriremo nel seguito del racconto…
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